Quarantacinque
25 aprile 1943
Campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau
Essendo cresciuto a Berlino, Jacob non aveva mai avuto bisogno di una sveglia.
Non per svegliarsi e andare a scuola durante la settimana. Non per andare alla sinagoga durante il weekend. Sulle montagne, nella baracca dello zio Avi, se gli veniva proposto di andare a caccia alle cinque del mattino, Jacob aveva l’inspiegabile abilità di aprire gli occhi al momento perfetto. Non riusciva a spiegare il perché, capitava e basta.
In quel particolare giorno, Jacob si svegliò alle quattro e mezzo in punto, come sempre da quando era nel campo. Eppure, per qualche ragione, stavolta il gong non aveva suonato. Nessuno nella sua stanza o nell’intero blocco si era mosso. La maggior parte degli uomini accanto a lui, incluso il suo compagno di letto, stava ancora russando. Fuori era buio pesto, non c’erano rumori. Gerhard Gruder, il responsabile del loro blocco, non si era fatto vivo. Gli stivali delle guardie ancora non battevano il terreno all’esterno.
Sdraiato immobile, rizzò le orecchie in attesa di un segnale. Nel campo però non parevano esserci attività umane. Un vento forte soffiava insolitamente da nord, facendo tremare finestre e porte e ululando attraverso le fessure. Lontano, il rimbombare dei tuoni.
Qualche minuto dopo il suo vicino si alzò di scatto, un’espressione di terrore in faccia. Passò in rassegna la stanza e vide che tutti stavano dormendo, poi si voltò verso Jacob e lo trovò sveglio.
«Cosa succede?», sussurrò il giovane. «Non è ora di alzarsi?»
«Sì, lo è», rispose Jacob a voce bassa.
«Non è suonato il gong?»
«No».
«Sicuro?»
«Sicuro».
«Ho sognato che ero ancora all’università», disse il ragazzo, coperto di sudore. «Ero in ritardo per una lezione e mi impiccavano».
«Era solo un sogno», disse Jacob. «Penso che sia tutto a posto».
«Pensi?»
«Credimi. Nessuno è in piedi, nel campo non si sentono rumori».
«C’è qualcosa che non va», disse il giovane. «Forse dovremmo alzarci».
«Sei pazzo?»
«E se ti sbagliassi? Se fossimo tutti in ritardo? Ci farebbero fuori».
«Io non mi alzo», disse Jacob.
«Dobbiamo».
«Forse tu devi. Io no. Starò qui finché Gruder non si fa vedere».
«E se fosse morto?»
«Allora ci sarebbe davvero un Dio».
«Non scherzare».
«Credi che sia una battuta?»
«Alziamoci solo per dare un’occhiata in giro».
Jacob scosse la testa. «Alzati tu».
«Tu hai degli amici qui dentro. Non ti ammazzeranno».
«Di che parli?», chiese Jacob, colto alla sprovvista.
«So che ricevi del cibo in più. Non so dove o come, ma è ovvio che hai dei contatti».
Jacob era nervoso. Come faceva quel ragazzetto a conoscere gli affari suoi? Lo spiava?
«Non so di che parli», mentì. «E non uscirò là fuori».
Rimasero entrambi in silenzio per un po’, poi il giovane si chinò verso Jacob e sussurrò.
«Mi chiamo Josef», disse. «Josef Starwolski».
«Io sono Leonard Eliezer», disse Jacob, che non aveva intenzione di abbassare la guardia fuori dal Canada. «Puoi chiamarmi Len».
«Scusa se non mi sono presentato prima», continuò Josef. «Avevo troppa paura per parlare con qualcuno».
«Anch’io. Da dove vieni?»
«Cracovia. Tu?»
«Bruxelles». Jacob mentì di nuovo.
«Lavoro nell’archivio. Avevano bisogno di qualcuno che sapesse usare la macchina da scrivere, schedare e tradurre dal polacco al tedesco. In qualche modo hanno pescato me».
«E com’è?»
«Poteva andare peggio. Lavoro poco distante dall’ufficio di Höss o Von Strassen, di sicuro mi sta già venendo un’ulcera. Ma nell’ufficio ci sono ragazze carine. A dire il vero io sono l’unico maschio, quindi non è così terribile. E tu?»
«Io lavoro nel Canada».
«Il magazzino?».
Jacob annuì.
«Cosa fai?», chiese Josef.
«Niente di importante», rispose Jacob. Non gli andava di parlare di sé. «È abbastanza noioso, ma almeno è un lavoro all’interno».
«Sì, non è male», commentò il ragazzo. «Quanti anni hai?»
«Ventuno. Tu?»
«Io compio vent’anni oggi», sussurrò Josef.
«Oh… congratulazioni», rispose Jacob, non sapendo che altro dire. «Buon compleanno, insomma».
«Cosa c’è di buono?», chiese Josef.