Cinquantuno

Jacob perse tre chili solo nella prima settimana.

Dopo un mese ne aveva persi quasi dieci, nonostante non potesse permettersi di perdere un grammo. Non aveva mai avuto grasso in eccesso. Ora era uno scheletro ambulante. La cassa toracica era visibile e così le ossa delle braccia. Aveva dei cerchi scuri sotto gli occhi e la pelle grigiastra di un malato. Aveva anche sviluppato una tosse secca, senza dubbio causata dalla polvere del cantiere.

Il compito di Jacob era di mischiare e versare cemento e porre le fondamenta all’estremità dell’enorme complesso di edifici che gli schiavi di Auschwitz stavano costruendo. Gli sembrava di trovarsi nell’antico Egitto. Anche lui, a cui non era mai importato molto di studiare la Bibbia o la storia del giudaismo, sapeva che gli ebrei erano stati impegnati in lavori forzati nei tempi antichi in imponenti progetti di costruzione per il faraone. Ma dov’era Mosè adesso? E soprattutto, dov’era Dio? Chi li avrebbe condotti fuori dall’Egitto, verso la Terra Promessa? Non avrebbero resistito a lungo.

Un giorno, durante una delle rare pause, un altro uomo che eseguiva lo stesso lavoro di Jacob gli disse che aveva sentito che stavano costruendo un edificio per un conglomerato industriale tedesco privato, conosciuto come IG Farben. Girava voce che la Buna, una volta completata, avrebbe prodotto gomma sintetica per la macchina da guerra nazista. Jacob non sapeva se fosse vero. E comunque non gli importava. L’unica cosa che lo teneva in vita era la speranza che presto avrebbe rivisto Leszek.

Ma un mese passò, poi un secondo e anche un terzo. Nulla cambiò, se non che ora Jacob era ridotto a uno scheletro. Leszek non era tornato a salvarlo. Nessuna delle truppe Alleate si era vista. Non ci fu una liberazione. Solo lavoro estenuante e morti a perdita d’occhio.

A metà luglio, la tosse di Jacob stava peggiorando. Non solo la speranza di scappare era svanita, ma anche quella di sopravvivere. Ogni giorno diversi prigionieri morivano di sfinimento e di fame. Ogni giorno lui e i suoi compagni raccoglievano corpi, li caricavano su carretti di legno, tornavano al campo e li portavano al crematorio, dove i forni non smettevano mai di funzionare e la ciminiera di sputare fumo nero e putrido insieme a ceneri umane che cadevano dal cielo come fiocchi di neve, mattino, pomeriggio e sera.

Con il tempo, grazie a brevi e furtive conversazioni con altri reclusi, Jacob aveva iniziato a ricostruire la storia di Leszek Poczciwinski. Ogni tanto gli capitava di incontrare qualcuno che lo conosceva, e allungava l’orecchio per percepire altri dettagli. Dopo che Von Strassen e i suoi uomini avevano rinunciato a cercare i fuggitivi, nel campo si mormoravano storie su chi fosse davvero Leszek e su chi lavorasse con lui. Jacob liquidò la maggior parte di quello che sentiva come miti di fantasia alimentati da chi in realtà non aveva mai conosciuto l’uomo. Ai loro occhi era diventato un supereroe e i racconti che passavano di bocca in bocca si facevano sempre più inverosimili. Ma ogni tanto Jacob sentiva qualche frammento più credibile e lo archiviava nella memoria, anche se non sapeva a che scopo.

Un giorno, per esempio, Jacob stava lavorando con un prigioniero che solo di recente era stato catturato e trasferito ad Auschwitz. L’uomo gli raccontò che era un ufficiale dell’esercito polacco e che conosceva bene Leszek Poczciwinski. Disse anche che quello non era il suo vero nome, che in realtà si chiamava Piotr Kubiak. Il prigioniero era stato al campo di addestramento insieme a Kubiak anni prima e per un po’ avevano prestato servizio dopo l’invasione nazista. Confermò che Kubiak era capitano dell’intelligence polacca e membro attivo della Resistenza. Confermò anche quello che Max aveva riferito a Jacob: che Kubiak si era offerto volontario per essere mandato ad Auschwitz. Una volta che il suo piano era stato approvato, si era messo semplicemente a camminare per le strade di Varsavia quando sapeva che ci sarebbe stata una retata da parte dei nazisti e si era fatto arrestare.

Jacob faticava ancora a credere che ciò fosse vero. «Perché qualcuno dovrebbe offrirsi di venire in un campo di morte?», chiese.

«Piotr non sapeva cosa succedeva davvero qui», rispose l’uomo. «Nessuno di noi lo sapeva. Chi avrebbe potuto immaginare simili mostruosità? Insomma, se Piotr avesse saputo che questa era davvero una fabbrica di morte, cosa significava e la portata della situazione, non credo che sarebbe venuto. Sua moglie non gliel’avrebbe mai permesso. Nemmeno i suoi comandanti. Credeva ciò che credevamo tutti: che questo fosse solo un campo di lavoro per potenziare la macchina da guerra nazista. Ecco perché ha insistito, voleva capire cosa stava succedendo e riferire i fatti ai compagni. Doveva essere un’operazione veloce. Alla fine non si è dimostrata tale. Spero davvero che sia sano e salvo e che sia tornato dalla sua famiglia».

Anche Jacob lo sperava. E sperava anche che Leszek Poczciwinski – alias Piotr Kubiak – non si fosse scordato di loro.

Con il tempo, Jacob venne anche a conoscenza di alcuni dettagli dei due uomini che erano fuggiti insieme al capitano Kubiak. Uno di loro era James Mihilov. Era il prigioniero numero 5340. L’altro era Jahn Letski, prigioniero numero 12969.

Erano vere quelle storie? Le informazioni potevano essere verificate? Una notte chiese al suo compagno di letto, Josef, di controllare i nomi nell’archivio. Due giorni dopo Josef gli confermò il nome di Mihilov e Letski e i loro numeri. E c’era di più. Josef aveva anche reperito informazioni riguardanti la fuga.

I due lavoravano alla panetteria del campo. Pare che Kubiak li avesse incontrati lì e che insieme fossero usciti da una porta sul retro quando le guardie non stavano guardando. Avevano tagliato le linee telefoniche che connettevano la panetteria all’esterno in modo che le guardie, quando si fossero rese conto della loro assenza, avrebbero impiegato più tempo a comunicare la notizia all’ufficio di Von Strassen. Erano informazioni interessanti, tuttavia nessuna era particolarmente utile. Non fornivano a Jacob un piano d’azione per una sua eventuale fuga.

Con il passare delle settimane, si rassegnò all’idea di morire ad Auschwitz. Forse non mancava molto.

 

Fuga da Auschwitz
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