Cinquanta
Quella settimana d’aprile cambiò tutto, eppure non cambiò nulla.
Per tre giorni e tre notti, il colonnello Von Strassen e diverse migliaia di truppe insieme a dozzine di cani condussero la caccia all’uomo più intensa nella storia del campo di Auschwitz-Birkenau. Alla fine però Leszek Poczciwinski non fu né catturato né ucciso. E nemmeno i due compagni, che risultarono essere due suoi amici polacchi. Jacob era al settimo cielo.
Jacob fu trascinato davanti a Von Strassen e ai suoi uomini per essere interrogato, ma sorprendentemente il tutto durò solo qualche ora. Jacob fece finta di non sapere nulla e a quanto pare li convinse. Continuò a ripetere che non aveva niente a che fare con le attività di Leszek Poczciwinski e che era appena arrivato al campo. Fece notare che passava la maggior parte del tempo a lavorare, non a chiacchierare con il capo del commando Canada. Lui e Leszek Poczciwinski avevano parlato solo poche volte.
Alla fine Von Strassen lo lasciò andare. L’intero episodio lo aveva profondamente scosso, ma era felice di aver mantenuto la calma ed essersi attenuto alla sua storia senza farsi intimidire dalle minacce. Era, pensò, una sorta di rito di passaggio, un test di virilità, e in qualche modo lo aveva superato. Lo zio Avi sarebbe stato orgoglioso di lui. Magari anche suo padre e sua madre.
Maximilian Cohen, però, era sparito. Jacob cercava l’amico ogni giorno nel magazzino del Canada e in giro per il campo. Poi sentì dire che Von Strassen aveva assegnato Max al dottor Mengele perché venisse interrogato. Il solo pensiero gli fece venire i brividi. Da quando Max lo aveva avvertito di stare lontano dalla clinica, Jacob aveva sentito storie sugli esperimenti sadici che Mengele compiva sugli esseri umani senza anestesia e temeva per la vita dell’amico.
Alle sei e mezzo di lunedì pomeriggio – a una settimana dal suono delle sirene – a ogni uomo del campo venne ordinato di mettersi in fila nel cortile di fronte alle forche. Mentre ogni prigioniero se ne stava sull’attenti, Max, incatenato e scortato da due guardie armate, emerse dal piano interrato dell’edificio dove c’era l’ufficio di Von Strassen.
Jacob trasalì. Osservò le guardie condurre Max sulla piattaforma di legno e legargli un cappio attorno al collo. La faccia del suo amico era bianca come un lenzuolo. Gli tremavano le labbra. Ma quando per un attimo incontrò lo sguardo di Jacob nella folla, a non più di dieci metri di distanza, Max si irrigidì e rizzò la testa. Poi, prima che la guardia tirasse la leva, Max gridò a pieni polmoni: «Lunga vita agli ebrei della Romania!». E il suo corpo cadde. La corda si tese. I piedi scalciarono nel vuoto. Gli occhi uscirono dalle orbite. A un certo punto smise di combattere e rimase immobile, e tutto finì.
Jacob guardò la scena con orrore. Non pianse. Non emise un suono. Fissò l’amico che oscillava alla fresca brezza primaverile.
Mentre la vita abbandonava Max, il desiderio di fuggire abbandonava Jacob. Non solo aveva appena assistito alla morte del suo unico amico al mondo. Max era anche la sola persona che sapeva come Leszek Poczciwinski fosse riuscito a scappare.
E non era tutto. Martedì mattina la situazione si fece ancora più critica. Von Strassen ordinò che Jacob venisse rimosso dal Canada e che fosse assegnato ai lavori di costruzione. Ora avrebbe aiutato a costruire una fabbrica in uno dei campi satellite di Auschwitz conosciuto con il nome di Monowitz-Buna, ma che i prigionieri chiamavano soltanto Buna. Jacob non aveva più un protettore. Non aveva più un amico. Non lavorava più all’interno. Non aveva più accesso a frutta e verdura e a tazze di caffè decente.
Ogni giorno, dopo l’appello, diversi kapo perquisivano lui e un centinaio di altri uomini, che poi partivano per il lavoro, circondati da guardie armate. La Buna si trovava abbastanza lontano dalla doppia recinzione elettrica del campo principale e Jacob avrebbe anche potuto cercare qualche falla nel sistema di sicurezza, ma non ne vedeva il punto. Non aveva più il coraggio di pensare a evadere, né di aiutare qualcun altro a farlo. La sua unica speranza era che Leszek Poczciwinski lanciasse un’operazione di salvataggio.
Se fosse riuscito a sopravvivere per qualche altra settimana, forse sarebbe uscito dal campo di morte vivo e vegeto. Altrimenti era condannato. Era la dolorosa e triste verità, ma era pur sempre la verità.
L’unica domanda adesso era come sopravvivere a un altro mese all’esterno, con razioni minime di cibo, lavorando più duramente di come avesse mai fatto in vita sua.