Quattordici

15 marzo 1939

Siegen, Germania

 

Fu Avi a portargli la notizia.

La Germania aveva appena invaso la Cecoslovacchia. Gli Alleati avrebbero contrattaccato? Se sì, questo significava solo guerra e cambiamenti che nessuno di loro poteva immaginare.

Avi di rado passava a trovarli durante la settimana, ma si trovava a Siegen per controllare il suo laboratorio di lavorazione del metallo, quello che il fratello era ancora troppo malato per riprendere in mano.

Stavolta, però, non si mise a litigare per la politica. Piuttosto, dopo aver consegnato un’altra bottiglietta di pillole, chiese con educazione se poteva «prendere in prestito» Jacob per qualche ora, e il permesso gli venne accordato.

Jacob saltò sulla Adler. «Dove andiamo, zio?», chiese.

«Secondo te?».

Le strade erano per la maggior parte deserte, eccetto qualche colonna di veicoli militari che trasportava truppe ed equipaggiamenti, probabilmente verso Praga.

Presto uscirono dalla via principale e si inerpicarono lungo il sentiero verso la montagna, raggiungendo la piccola cabina dello zio Avi alla luce della luna piena.

Jacob tagliò il legno per il fuoco mentre Avi riscaldava dello stufato di manzo e preparava pane fresco. Poi Jacob attizzò un fuoco divampante. Si accomodarono su un paio di sedie e mangiarono in silenzio davanti al camino di pietra, ascoltando lo scoppiettio delle fiamme e guardando le scintille che esplodevano come fuochi d’artificio.

Quando Avi pensò che il momento giusto fosse arrivato, si rivolse al nipote e sganciò la bomba. «Alla Resistenza farebbe comodo un giovane come te».

Jacob per poco non si ingozzò con un tozzo di pane. «Cosa?»

«Mi hai sentito», disse Avi, calmo. «Circa un anno fa, un caro amico mi ha chiesto di unirmi al movimento. Aveva capito che sarebbe scoppiata una guerra. Sapeva che io avevo contatti e risorse e mi ha proposto di aiutarlo. Ho accettato subito».

«Perché?»

«Se nessuno lo ferma, Hitler distruggerà questo Paese, Jacob», continuò lo zio senza emozione. «Ci sta trascinando in una guerra che non possiamo permetterci né vincere. Prima i cechi. Poi i polacchi. Poi il resto dell’Europa e del mondo. Ricordati delle mie parole. Questa sarà la morte della nostra nazione».

Jacob non disse nulla, ma nel suo cuore sapeva che lo zio aveva ragione.

«Nell’ultimo anno ho accumulato una riserva di pistole e munizioni», disse.

«Ma…».

«Ma cosa?»

«Ma… sei…».

«Sono cosa? Un ebreo?», chiese Avi.

«Sì, un ebreo», sussurrò Jacob guardando la porta, pur sapendo che non c’era un’anima nel raggio di miglia.

«E?»

«E gli ebrei non dovrebbero possedere armi», disse Jacob a bassa voce. «È proibito. Potresti finire in prigione. O peggio, potrebbero spedirti in uno di quei campi di cui parli sempre tu. È questo che vuoi?»

«Perché gli ebrei non possono avere armi?», domandò Avi.

«Perché der Führer lo ha proibito».

«Sì, ma perché?», insistette lo zio.

Jacob non aveva una risposta. Avi sì.

«Per renderci passivi, Jacob. Inoffensivi. Come facciamo a opporci a Hitler, alle SS e alla Gestapo se non abbiamo né armi né munizioni per contrattaccare?».

Jacob rimase in silenzio.

«L’ultima volta che sei stato qui, c’erano cinque fucili. Ora, proprio sotto queste assi, ce ne sono circa un centinaio. Negli ultimi mesi ho reclutato una rete di operativi di cui mi fido: uomini di ogni età, professione e con le capacità più varie. In silenzio, nell’ombra, ci siamo preparati. Ora che Hitler ha fatto la sua mossa, anche noi ci muoveremo. Ti sto chiedendo di unirti al gruppo».

«Io?», chiese Jacob, sinceramente stupito. «Cosa potrei fare? Mi hai visto sparare. Sono terribile».

«Migliorerai, te lo garantisco», rispose lo zio. «Sei dotato. Ce l’hai nel sangue. Ma quel che conta di più è che sei forte, veloce, intelligente e discreto. Ti ricordi tutto quello che ti dico. So che quando ti chiedo di fare una cosa la farai in fretta e senza che io me ne debba più preoccupare. E in qualche modo, quando sei in una stanza, trovi il sistema di non farti notare».

«Non la ritengo una qualità positiva, zio», disse Jacob sconsolato.

«Be’, io sì. In un lavoro di intelligence, quella dote può diventare preziosissima».

Per la mezz’ora successiva, discussero della natura del movimento di resistenza clandestina che stava crescendo in Germania, degli obiettivi e dei rischi di farne parte. Avi parlò a titolo generale, ma chiarì a Jacob che quella conversazione – la stessa che aveva già avuto con dozzine di uomini e qualche donna in tutto il Paese – era punibile con l’impiccagione o con la fucilazione.

«Non ti chiedo di unirti a noi perché sarà divertente», disse Avi con tono triste mentre il fuoco si estingueva. «Te lo chiedo perché Hitler sta venendo a prenderci. Sta venendo per gli ebrei. La Kristallnacht era soltanto l’inizio. Da qui in avanti le cose si faranno spiacevoli. Io e te non abbiamo scelta. Combattere o perire. Che ne dici?»

«Combattere?», chiese Jacob. «Credevo che ci proponessi di scappare dalla Germania. Non fai che ripetere a papà che dobbiamo andarcene dal Paese. Scappare in Inghilterra prima che sia troppo tardi. Ci hai fatto il lavaggio del cervello per mesi».

«L’ho fatto, è vero», ammise Avi, «ma le porte si stanno chiudendo, figliolo. Forse sono già chiuse. Gli ebrei non possono più salire su un treno o su un aereo per abbandonare il Paese. L’unica strada è scappare clandestinamente. Io stesso ho pensato di fuggire a gennaio, ma tua madre era… be’, lo sai… poi tuo padre si è ammalato».

«Quindi unirsi ai clandestini è stato il piano B».

«È diventato il piano A».

«Pensi davvero che non potremmo evadere? Che abbiamo perso la nostra chance?»

«Sì», sussurrò lo zio. «Ecco perché ti ho portato qui. I tuoi genitori si sono rimessi in piedi di nuovo. Non sono ancora indipendenti, presto però si riprenderanno. E tu avrai più tempo libero. È il tuo momento, Jacob. La Resistenza ha bisogno di te. Io ho bisogno di te. Cosa mi dici?».

Jacob si alzò in piedi. Non rispose, prese i piatti e li lavò nel lavandino.

«Tuo padre non vede quello che vediamo noi», disse Avi dopo un lungo silenzio, come se sapesse con esattezza quali pensieri passavano per la testa del nipote. «Lo sai benissimo. Ci hai sentiti discutere. Lui non lo capisce e mi spezza il cuore. Io non posso fare più niente ormai. Se lui non salva se stesso, noi dobbiamo prendere in mano la situazione».

«Ma se io mi unisco a te, cosa ne sarà di loro?»

«Non posso risponderti, Jacob. Non posso prometterti che saranno al sicuro. Lo spero, però non lo so. Tutto ciò che posso fare è dirti la verità, che è questa: è arrivato il momento di fare i conti. Io ho preso la mia decisione. Ora tocca a te».

«Ma zio, sul serio. E i miei?», insistette Jacob. «Hai detto combattere o perire. Mamma e papà non sono in grado di combattere. Non sanno cosa sia la forza. Quindi periranno e basta?».

Avi non disse nulla.

Jacob prese lo straccio e si asciugò le mani. «No», disse risoluto, voltandosi verso lo zio. «Non posso abbandonarli. Sono tutto quello che ho. Ne hanno passate tante. Hanno bisogno di me».

«Non devono per forza saperlo», spiegò Avi. «Anzi, sarebbe preferibile che non sapessero nulla».

«Vuoi che metta le loro vite in pericolo senza nemmeno dirglielo? È anche peggio», ribatté Jacob.

«Jacob, ascoltami: sono già in pericolo. Sono ebrei e lo sei anche tu. Siamo segnati. Ci arresteranno e ci imprigioneranno. Ci spediranno nei campi di lavoro. Scompariremo e nessuno muoverà un dito. Se non facciamo niente, quello sarà il nostro destino. Non c’è scampo. La sola domanda che resta da farci è se cercheremo di difenderci o se ci comporteremo come agnelli al macello. Io non ho paura di morire, Jacob. Ma non cadrò senza combattere. Tu?».

 

Fuga da Auschwitz
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