Sedici
1º settembre 1939
Siegen, Germania
L’intera città di Siegen era in fermento.
La guerra alla fine era scoppiata. Ma cosa significava per i cittadini? Dove avrebbe portato? Come sarebbe finita? Alla notizia, i gentili della città avevano reagito con un comportamento austero. Ma gli ebrei di Siegen erano precipitati nel terrore. La madre di Jacob passava le giornate a piangere disperata. Il padre stava seduto da solo in sala, nella sua poltrona preferita, a fumare la pipa e leggere un romanzo senza proferire parola.
Jacob aspettava solo l’arrivo dello zio Avi. Avrebbe portato notizie e un po’ di conforto. Eppure, quella volta Avi non si presentò per la cena dello Shabbat. Jacob rimase sorpreso e deluso. Era malato? Era successo qualcosa? Jacob aveva un milione di domande. Tuttavia i suoi genitori non avevano risposte, oppure le tenevano per sé.
Quando arrivò il momento di condividere la cena che Jacob aveva preparato, sua madre si rifiutò di uscire dalla stanza. Il padre accese come sempre le candele, ma non pregarono né lessero le Scritture. L’unica preghiera quella sera fu il silenzioso perché? che il ragazzo continuava a domandare a Dio. Cenarono in silenzio.
Sabato una quiete sinistra regnava nella casa dei Weisz, anche quando camion pieni di soldati ruggirono lungo le strade, forse diretti al fronte o a potenziare le difese lungo il confine.
Anche domenica 3 settembre fu una giornata tranquilla. Jacob cercava di studiare ma non riusciva a concentrarsi. Voleva leggere uno dei romanzi di suo padre, anche se provava poco interesse per ciò che non riguardava la crisi attuale. Cucinò per la famiglia, pulì la cucina dopo i pasti, sistemò la casa e si sforzò di tenersi impegnato.
Intorno alle nove, lui e suo padre spensero le luci, si augurarono la buonanotte e si ritirarono ciascuno nella propria stanza.
Jacob non si era ancora messo il pigiama. Non era stanco. Non gli andava di dormire. Aveva troppi pensieri per la testa e avrebbe voluto sfogarsi con qualcuno. Chiunque. Il mondo attorno a loro stava collassando. Tutto ciò che era familiare gli era stato strappato via. Non avrebbero dovuto agire? Cercare di scappare dalla Germania? Cosa poteva succedere di peggio?
Si tolse le scarpe e si sdraiò vestito sul letto a fissare il soffitto. Dov’era finito lo zio Avi? Si era ficcato in qualche pasticcio? Era stato catturato? Soprattutto, era ancora vivo?
Cosa stava facendo quella sera la famiglia Meyer? Hans stava bene? Davvero avevano intenzione di lasciare il Paese? Hans aveva confidato a Jacob che i suoi genitori pensavano di scappare in Palestina. Un sacco di ebrei ci stavano andando, aveva detto Hans, per allontanarsi da Hitler e costruire una nuova terra per il popolo ebraico. Hans aveva fatto giurare a Jacob di non dire niente a nessuno. Anche menzionare certi argomenti poteva causare un arresto in quei giorni, gli aveva ricordato Hans. Ma Hans non doveva preoccuparsi. Jacob sarebbe stato muto come un pesce, aveva la sua parola. Se necessario, si sarebbe portato il segreto di Hans nella tomba. Eppure, nel profondo del suo cuore, Jacob aveva contemplato l’idea di scappare insieme ai Meyer, che fosse in Palestina o in qualunque altro luogo. Rimanere in Germania era una decisione sempre più sciocca, ogni giorno che passava. Perché suo padre era cieco?
All’improvviso fu assalito da un pensiero egoista. Se Hans e la sua famiglia se n’erano già andati, a Jacob sarebbero mancati molto. Però, in quel modo, Hans non sarebbe più stato nella posizione di fare la corte a Naomi Silver. Jacob ci pensò su per un attimo. Forse non era più il momento di essere tanto timido. Se il tempo era agli sgoccioli, magari avrebbe potuto scambiare due parole con la ragazza. Persino portarle un regalo. E perché no, confessarle i propri sentimenti. E se gli eventi avessero continuato a peggiorare? Se non fosse riuscito a parlarle e poi non ne avesse più avuto occasione? Che spreco sarebbe stato. Cosa poteva accadere se anche lui avesse iniziato a ricambiare i sorrisi di Naomi o a parlarle prima della lezione di violino?
Ma poi un altro pensiero si manifestò nel suo cuore. E se anche i Silver avessero avuto in programma di andare via? Se fossero semplicemente spariti dalla sera alla mattina? Chissà come avevano preso la notizia dell’invasione della Polonia da parte della Germania. Cosa aveva significato per loro? Come si sarebbero comportati? Chissà cosa stava facendo Naomi a quell’ora. A cosa pensava? Riusciva a dormire? Oppure anche lei si rigirava nel letto e fissava il soffitto? Magari pensava proprio a lui?
Poi qualcuno bussò forte alla porta. Spaventato, Jacob si sollevò e guardò l’orologio. Mancava poco alle dieci. Si rimise in fretta le scarpe e si preparò a scendere al piano di sotto quando sentì suo padre aprire. Si accorse che anche sua madre stranamente lo stava accompagnando. Piano piano, scese le scale e si rannicchiò sul pianerottolo del secondo piano.
«Chi è?», chiese suo padre.
«Sono io. Aprimi», fu la risposta insistente.
La voce era inconfondibile. Era lo zio Avi.
Lo fecero entrare e richiusero in fretta la porta alle sue spalle.
«Cosa c’è, Avi?», chiese la madre di Jacob. «Sei bianco come un lenzuolo».
«Dobbiamo andare», disse lui. «Tutti quanti. Subito».
«Ancora con questa storia?», rispose il dottor Weisz. «Avi, ti ho già detto…».
Ma Avi lo interruppe. «Reuben, ascoltami. I miei amici del movimento clandestino dicono che migliaia di ebrei sono stati radunati in tutto il Paese. È la fine. Li mandano nei campi di lavoro. Non c’è più tempo».
«Movimento clandestino?», sussurrò suo padre inorridito. «Non pronunciare quella parola in questa casa. Sei pazzo?».
Jacob non si trattenne. Scese gradino dopo gradino le scale il più silenziosamente possibile e sbirciò da dietro un angolo.
«Ascoltami solo per un momento. Ho predisposto tutto quanto», continuò Avi, tirando fuori una busta dalla tasca della giacca. «Ciò di cui avete bisogno è qui dentro. Falsi documenti d’identità, passaporti e biglietti del treno per la Svizzera. La mia auto è parcheggiata dietro l’angolo. Avete dieci minuti. Portate con voi dei vestiti – solo l’essenziale – e gli oggetti di valore. Nient’altro. Vi condurrò alla mia cabina. E domani ci muoveremo».
Il dottor Weisz si fece livido in volto. Era furioso che il fratello minore si fosse preso la libertà – e avesse corso il rischio – di procurarsi documenti falsi a loro nome. Jacob osservò in silenzio mentre il padre e lo zio litigavano a bassa voce affinché i vicini – gli informatori delle SS erano ovunque – non sentissero. Sua madre si infilò in cucina, forse per mettere sul fuoco un pentolino per il tè. Ma Jacob non andò da nessuna parte. Voleva ascoltare tutto. Suo zio aveva ragione e grazie al cielo aveva predisposto tutto per portarli via dalla Germania. Ora pregava in silenzio il Signore perché facesse cambiare idea a suo padre e perché riuscissero a scappare approfittando di quella chance, per quanto debole.
«Jacob, cosa ci fai qui?», disse all’improvviso suo padre, accorgendosi solo allora che il figlio lo stava spiando dalle scale.
«Be’, io… Sono solo sceso…».
«Zitto», lo ammonì il padre con un sussurro. «Vuoi che i vicini ti sentano? Vai nella tua stanza. Questi non sono discorsi per te».
«Ma, papà, io…».
Suo padre lo freddò con lo sguardo. «Ti ho dato un ordine».
Il dolore di Jacob si trasformò in rabbia, ma si trattenne. Una disobbedienza plateale avrebbe soltanto infiammato una situazione già esplosiva. Salutò lo zio con un cenno del capo e salì al pianerottolo del secondo piano.
«Va’ in camera, giovanotto», sbottò il padre, conoscendo il figlio come le sue tasche.
Jacob strinse i pugni. Ma per l’ennesima volta rimase in silenzio e fece quello che gli era stato chiesto. Quando raggiunse la sua stanza, sbatté la porta e la chiuse a chiave, il suo unico atto di ribellione – piuttosto infantile, si disse.
Il cuore gli martellava nel petto. Aveva bisogno di aria fresca. Voleva uscire, correre. Ma per il momento era intrappolato nell’attico, quindi si sdraiò sul letto e fissò di nuovo le travi a vista sopra di lui. Fuori, delle luci lampeggiavano. Un tuono scosse la loro casa. Poi iniziò il temporale. Guardò fuori dall’unica finestra, il vetro però si era già appannato. Lo ripulì e anche solo per un attimo vide le strade deserte che si riempivano di acqua e fango.
Jacob era furioso con suo padre, ma si sforzò di calmarsi e pensare con lucidità. Poi un’idea gli balenò nella mente. E se lo zio fosse riuscito a persuadere i genitori a scappare? Il tempo scorreva in fretta. Doveva essere pronto. Saltò in piedi, tirò fuori la valigia che teneva sotto il letto e iniziò a mettere via il necessario per il viaggio che lo aspettava. Due maglie, due paia di pantaloni, un paio di magliette e della biancheria. Tutti i calzini che aveva. Un paio di scarpe da abito, una giacca e due cravatte. Poi si infilò le sue solite scarpe e allacciò le stringhe, si mise un maglione nero e un cappotto invernale e si sedette sul letto, in attesa che suo padre – o suo zio – bussassero alla porta e gli dicessero che era ora di partire.
Dieci minuti passarono.
Poi quindici. Poi venti.
Incapace di resistere oltre, Jacob si alzò, andò alla porta e provò ad aprirla senza fare rumore. Trattenne il respiro per sentire delle urla, delle voci, un qualunque segno di vita. Niente.
Si avventurò verso il bagno, prese lo spazzolino da denti e scese le scale per raggiungere il secondo piano. Se lo avessero beccato, avrebbe detto che si stava preparando per andare a letto. E poi sentì la porta fra la cucina e la sala aprirsi.
«Che è successo ad Avi?», stava chiedendo sua madre.
«È andato via».
«Ma io vi avevo preparato del tè».
Suo padre borbottò qualcosa. Chiaramente non gli importava niente del tè. Stava camminando avanti e indietro.
Jacob sentì sua madre appoggiare il vassoio con le tazzine e sedersi sulla sedia a dondolo scricchiolante. Seguì un lungo, difficile e doloroso silenzio, rotto solo dal suono dell’orologio intagliato del nonno che scandiva monotono i secondi nell’angolo della stanza.
«Cosa c’è nella busta?», chiese la madre alla fine.
Jacob si protese per sentire ogni parola.
«I documenti che ha fatto preparare».
«Credevo che non li volessi in casa».
«Infatti no».
«Quindi?»
«Non li ha rivoluti».
Seguì un altro lungo silenzio, poi Jacob sentì sua madre parlare ancora. «Forse ha ragione».
«Chi?»
«Avi».
«Su cosa?»
«Forse dovremmo raggiungere i miei genitori a Londra. Ci hanno scongiurato di andare con loro. Ora Avi è…».
«Sarah, per favore. Non iniziare anche tu a farneticare. Sì, siamo ebrei, ma siamo tedeschi. Tedeschi devoti al Paese. Questa situazione farà il suo corso. Hitler ha i giorni contati, tutto tornerà com’era prima».
«E se non fosse così?»
«Devi avere fede, mia cara».
«La mia fede è stata spazzata via il giorno in cui hanno ucciso Ruth», disse sua madre. «Tuo fratello ha ragione. Dovremmo andarcene adesso, prima che uccidano anche l’unico figlio che ci è rimasto».
Ma il padre di Jacob non sentì ragioni. «È tardi. Dovremmo dormire un po’».
Non volendo essere scoperto a origliare, Jacob filò via di corsa verso la propria camera e spense la candela, ma lasciò la porta aperta per origliare eventuali frammenti di conversazione.
Neanche per sogno avrebbe dormito. Non riusciva neppure a mettersi il pigiama. Nella sua minuscola camera non c’era spazio per camminare e quindi per l’ennesima volta si distese sul letto, ad ascoltare la pioggia che picchiettava sul tetto e contro il vetro della finestra, la mente che ribolliva di domande. Dove era diretto Avi adesso? Avrebbe lasciato la Germania senza di loro? Davvero se ne sarebbe andato senza dire addio?
Jacob si sentì abbandonato, perso e impaurito.
Presto Jacob si ritrovò ad attraversare i boschi di corsa durante la notte.
Era solo, correva alla luce della luna, e finalmente raggiunse il rifugio dello zio. Le luci erano spente. La Adler non c’era. Si mise a bussare come un pazzo alla porta ma nessuno gli rispose. Dov’era Avi? Lo avrebbe mai rivisto?
All’improvviso Jacob si risvegliò nel suo letto. Era coperto di sudore e capì di aver avuto un incubo. Ora sentiva davvero bussare alla porta. Suo padre si precipitò all’ingresso gridando: «Solo un momento, solo un momento».
Non si era reso conto di essersi addormentato, ma si strofinò il sonno dagli occhi e guardò il piccolo orologio sul comodino, quello che aveva comprato dal papà di Naomi Silver. Segnava le 3:09 del mattino. Jacob era confuso. Era ancora vestito. Portava persino le scarpe.
Fuori, la pioggia continuava a cadere fredda e burrascosa.
Altri colpi alla porta. Avi, pensò Jacob. Dev’essere lo zio Avi. È tornato a prenderci. Ma sbagliava. Eccome se sbagliava.