Cinquantatré

Jacob si irrigidì.

Nessuno gliel’aveva mai detto prima. Ma non ci sarebbe andato per niente al mondo. Max lo aveva avvertito senza mezzi termini. La gente che veniva spedita lì non ne usciva viva. Lo stesso Jacob era a conoscenza di dozzine di casi negli ultimi mesi che avevano dimostrato la veridicità delle parole di Max. Perché quell’uomo, che finora era stato tanto gentile con lui, lo stava condannando a una sentenza di morte?

«Avanti», continuò. «Non bloccare la fila».

Quella breve comunicazione lo infastidì. Non aveva senso. Non finché non si sedette al tavolo davanti a Josef e guardò nella tazza. Un piccolo pezzo di carta galleggiava nella brodaglia. Su di esso c’era scritta una singola parola: “Abby”. Sbalordito, Jacob immerse il cucchiaio nella zuppa, tirò su del brodo e il pezzo di carta inzuppato e li inghiottì prima che chiunque, Josef compreso, se ne accorgesse.

Si scusò appena poté. Disse a Josef che si sarebbero rivisti quella sera nel Blocco 18, poi si dileguò mentre il resto dei prigionieri usciva dalla sala mensa.

Si sforzò di camminare verso la clinica e di non lasciarsi prendere dalla tentazione di correre. Lungo il tragitto, si ricordò che forse il tizio che era stato così gentile con lui era lo stesso uomo biondo che sedeva dietro il bancone della clinica medica il giorno in cui lui e Max erano andati a trovare Abby.

Arrabbiato di non essersene reso conto prima, Jacob affrettò il passo. Prima della morte di Max, non era mai più tornato alla clinica per presentarsi ad Abigail. E non era neppure passato da lei per esprimerle le condoglianze dopo l’esecuzione del fratello. Era stato consumato dal suo stesso dolore. E poi l’avevano trasferito dal commando Canada alla Buna. Come poteva essere stato così egoista? In tutto quel tempo aveva pensato solo a se stesso, dannazione. Un conto era essere timidi, ma non gli avevano forse insegnato l’educazione? Eppure non gli era venuto in mente nemmeno una volta che a Max era rimasta un’unica sorella e che quella ragazza doveva soffrire molto più di lui.

Jacob era così in imbarazzo e furioso con se stesso che quando raggiunse l’ingresso della clinica stava borbottando fra sé e sé. Si fermò un attimo per riprendere fiato e calmarsi. Poi aprì la porta.

La persona che lo salutò lo colse alla sprovvista.

«Tu sei la sorella di Max?», chiese Jacob. Non riusciva a credere ai suoi occhi.

Seduta dietro il bancone con un’uniforme impeccabile da lavoro, seppur con un triangolo giallo cucito al petto, c’era la giovane donna che lo aveva colpito durante il procedimento di ammissione al campo di Auschwitz il primo giorno. Mentre Jacob si era deperito negli ultimi mesi e ora era emaciato quanto ogni altro uomo che non era ancora morto ma al quale mancava ben poco, Abigail era attraente come la ricordava, con occhi scuri caldi e gentili e un sorriso timido.

«Sì, sono io», rispose. «Tu sei Jac… Cioè Leonard Eliezer?»

«Sì», rispose lui, impacciato.

«È un onore conoscerla, signor Eliezer», disse alzandosi in piedi. «Anzi, un onore rivederti. Credo di essermi occupata io dei tuoi documenti il giorno in cui sei arrivato. Ricordi?»

«Ricordo», disse Jacob, imbarazzato dal suo rossore e quindi sempre più paonazzo.

«Be’, sono felice di rivederti, Leonard», disse facendo il giro del bancone per stringergli la mano. «Sono Abigail Cohen. Ma per favore chiamami Abby. Gli amici mi chiamano così».

Mentre si strinsero la mano, Jacob si rese conto che era la prima volta che toccava una donna da quando aveva abbracciato sua madre il giorno della sua morte.

Mettendosi un dito sulle labbra per invitarlo al silenzio, gli fece cenno di seguirla lungo il corridoio. Jacob ubbidì riluttante. Abby lo portò nella stessa stanza per le visite dove si era rinchiuso quel giorno con Max, tanti mesi prima. Jacob fu colto all’improvviso da un terribile attacco di tosse e Abby chiuse la porta, coprendo la piccola finestrella con della carta e chiedendogli di sedersi. Poi gli versò un bicchiere di latte, che lui accettò, esitante ma grato.

«Grazie per essere stato un buon amico per Max, Jacob», disse mentre lui beveva. «Posso chiamarti Jacob, a porte chiuse?»

«Sì, certo», rispose lui. «Grazie per il latte».

Abby sorrise. «Max parlava spesso di te e molto bene. Così bene che gli ho chiesto di presentarci diverse volte. Ci ha provato, ma non ha mai funzionato. Qualcosa si è sempre frapposto. O almeno così diceva lui. Forse non era destino, finora. Ma devo dire che iniziavo a pensare che tu non esistessi, che forse mio fratello si era inventato un amico per lottare contro lo stress o la fatica di sopravvivere qui dentro».

Jacob arrossì di nuovo. «Sono felice di averti incontrata», farfugliò.

Il sorriso di Abby si allargò. Non sembrava a disagio. Piuttosto, sembrava in attesa che fosse lui a dire qualcosa.

«Sì, be’, uhmm. Credo che Max volesse davvero farci conoscere», disse infine. «Mi aveva persino portato in questa stessa stanza. Ti abbiamo aspettata ma… be’, non sei mai arrivata. Un dottore ci ha urlato addosso. Siamo dovuti andare via».

«L’ho saputo. Mi dispiace, ero stata trattenuta».

«No, ti prego, non hai nulla di cui scusarti. Sono… sono io quello che si deve scusare».

«Per cosa?», chiese Abby.

Jacob abbassò lo sguardo. «Per non essere venuto da te dopo che Max…». Non riuscì a finire la frase perché la voce gli si ruppe in gola. «È stato davvero egoista e maleducato da parte mia», continuò, cercando di ricomporsi. «Sarei dovuto passare prima della morte di Max. E anche dopo, per dirti quanto mi dispiace e chiederti se avevi bisogno di qualcosa. Scusami. I miei genitori non mi hanno cresciuto così rozzo. Mi perdoni?»

«Non c’è niente da perdonare», rispose lei, comportandosi come un’infermiera e preparandosi a misurargli la temperatura. «Tu hai pianto a modo tuo, io a modo mio. Non ci eravamo incontrati, non mi dovevi niente. E come Salomone disse un tempo, per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. Dio avrà avuto le sue ragioni».

Jacob la guardò con sguardo interrogativo.

«Qualcosa non va?», chiese lei.

«No, è solo che…».

«Solo che cosa?», insistette Abby.

«Be’, è solo che… Mi dispiace ma io…».

«Va tutto bene, Jacob», sussurrò lei in tono gentile. «Puoi dire tutto quello che ti passa per la testa. Ogni amico di Max è anche amico mio».

«Grazie», disse lui, confuso dal trovarsi vicino a una ragazza così attraente. Distolse lo sguardo per riuscire a concentrarsi. «Sono solo sorpreso», disse infine.

«Per cosa?»

«Perché credi ancora in Dio», sussurrò Jacob.

Abby gli infilò un termometro in bocca. «Certo che ci credo. Perché non dovrei?». Attese un minuto, poi tolse il termometro.

«Perché non dovresti?», ripeté Jacob quando fu di nuovo in grado di parlare. «Di che parli? Insomma, guardati intorno. Se Dio esiste – e per me è un grosso se al momento – è abbastanza chiaro che ha abbandonato noi ebrei da tempo. E anche se fosse lassù, di noi non gliene importa niente. Magari ci odia anche. Ma a essere onesto, non sono proprio sicuro che esista».

«Oh, Jacob, non dire una cosa simile», insistette Abby, con lo sguardo genuinamente triste. Gli arrotolò la manica, gli pulì il braccio con alcol e iniziò a fargli una serie di punture. «Dio non era forse con i figli di Israele quando erano schiavi in Egitto? Non era con loro quando vennero gettati nelle fornaci ardenti di Babilonia all’epoca di Nabucodonosor? Non ci ha aiutati allora? Non ci ha salvati dal male? Sì, e ci aiuterà anche stavolta. Ci ha liberati nei tempi antichi e presto ci libererà di nuovo. Non rinunciare alla speranza, Jacob. Ti prego, non farlo».

«Temo che sia troppo tardi», sospirò lui, sorpreso ma anche affascinato dalla tenacia della sua fede, per quanto secondo lui ingiustificata. Poi l’ispirazione lo colse. «Nessun uomo è un’isola», citò, «intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte della Terra… Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’Umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te».

«Bello», disse lei, sorpresa mentre apriva un armadietto delle medicine. Tolse una bottiglietta di pillole e gliene diede diverse da prendere con il latte. «Cos’è?»

«John Donne», rispose lui, inghiottendo le medicine senza esitazioni. «Mi sembrava appropriato».

Jacob non credeva a ciò che stava facendo. Stava conversando con una ragazza, e pure carina. Citava poesie. Parlava di teologia. Non aveva idea del motivo di tanta fortuna, ma in qualche modo si sentiva a suo agio con Abigail Cohen.

«Lo credi davvero?», domandò Abby. «Credi davvero che la campana suonerà presto per tutti noi?»

«Che altro dovrei pensare? Io e te siamo ebrei. Non c’è futuro per noi. La nostra speranza è morta. È solo una questione di tempo prima che ci eliminino tutti, no? Quello che è successo a Max succederà presto anche a noi. E la cosa peggiore è che non possiamo farci niente».

«Be’, mi dispiace, Jacob. Sembri un bravo ragazzo, ma devo essere onesta: non ti credo».

«Neppure dopo che hanno ucciso Max?»

«Specialmente dopo che hanno ucciso Max».

«Non capisco».

Indossò uno stetoscopio. «Jacob, sono sicura che sai che mio fratello ha reso possibile la fuga di Leszek e dei suoi compagni, giusto? L’aiuto che gli ha dato è stato determinante. Senza di lui non sarebbero mai fuggiti. Ecco perché Von Strassen ha fatto quel che ha fatto. Perché Max ha portato a termine il suo lavoro, e bene».

 

Fuga da Auschwitz
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