28
A poca distanza dal punto in cui avevano lasciato le biciclette, nella recinzione arrugginita si apriva un varco. Caro lo superò per prima. Simon la seguì, poi attraversarono insieme il prato incolto.
Superarono sculture corrose dal tempo, una scacchiera ricoperta di muschio e una fontana ormai quasi completamente inghiottita dall’edera. Da lì un viottolo lastricato pieno di erbacce conduceva sul retro dell’hotel.
Simon continuava a lanciare occhiate alle finestre. Nonostante le serrande fossero abbassate, aveva la strana sensazione che qualcuno li stesse osservando.
Caro si incamminò sicura di sé. Sembrava che non avesse paura di niente, constatò Simon con una punta d’invidia. In un certo senso gli ricordava molto Mike, come quando partivano insieme alla scoperta del mondo. Anche Michael era sempre stato un passo avanti a lui.
Giunti finalmente sul lato posteriore dell’hotel, Caro allargò le braccia e fece un giro su se stessa.
«Voilà» esclamò. «Siamo arrivati!»
Simon rimase senza parole dalla sorpresa e Caro sogghignò.
«Ti piace?»
«Eccome!»
Simon salì sull’ampia terrazza che offriva un panorama mozzafiato sulla valle di Fahlenberg. L’impressione di disagio che l’edificio gli aveva trasmesso fu spazzata via in un soffio.
Gli anni di abbandono avevano lasciato le proprie tracce anche sulla terrazza: molte mattonelle si erano sollevate e nelle fessure crescevano felci, denti di leone ed erba, ma il pavimento era ancora di un bianco così abbagliante da costringere Simon a chiudere gli occhi.
«E non è ancora tutto» annunciò Caro raggiungendo di corsa un’ampia scalinata a un’estremità della terrazza. «Guarda qui.»
Simon la seguì e si fermò di fronte alla grande piscina. Non credeva ai propri occhi. La vasca era piena fino all’orlo e luccicava blu e limpida nel sole. A parte qualche crepa sul bordo e le foglie che galleggiavano sull’acqua, sembrava che la piscina fosse appena stata usata dagli ultimi ospiti dell’albergo.
Caro si tolse la felpa, i calzoncini e le scarpe. «Tuffiamoci, dai!»
Prima che Simon avesse tempo di ribattere, Caro prese la rincorsa e si tuffò con indosso la maglietta e gli slip. Nuotò sott’acqua come un pesce e riaffiorò tra gli spruzzi all’estremità opposta.
«Dai, entra» gli gridò ridendo. «L’acqua è stupenda!»
«Ma non possiamo...»
«Io posso eccome! Non fare tante storie. È acqua piovana, pura e limpida acqua piovana.»
«Sì, certo, ma... sarà piena di batteri! Potremmo beccarci chissà quale malattia.»
Lei rise di nuovo. «Hai ragione. E potrebbe caderci in testa anche una cometa. Senti, vengo a fare il bagno qui spesso e non mi sono mai presa niente. Piantala di fare tante storie. Mi giro dall’altra parte e non ti guardo. Lo so che non entri perché ti vergogni di me. Ammettilo.»
Simon si sentì arrossire. Caro aveva indovinato. Certo, era preoccupato di prendersi chissà quale infezione in quell’acqua − uno sfogo cutaneo, avrebbe detto sua madre, ti verrà uno sfogo cutaneo − ma il motivo principale era che si vergognava. Non si era mai spogliato di fronte a una ragazza.
Chissà come lo avrebbe preso in giro Caro. Alle lezioni di nuoto gli altri ridevano di lui, primo fra tutti Ronny, ovviamente.
«Ehi, scheletro» gli diceva. «Vieni qua, che voglio suonare il piano sulle tue costole.»
A quel punto scoppiavano tutti a ridere, anche le ragazze, ed era questa la cosa più imbarazzante. Simon avrebbe voluto sprofondare sotto terra. Da allora aveva preso a ingozzarsi con ogni genere di dolciumi e cioccolato, ma, a parte il mal di stomaco e una brutta indigestione, non ne aveva ricavato niente. Era rimasto pelle e ossa. Uno scheletro.
Caro tornò a nuoto da lui, si appoggiò con le braccia sul bordo e lo guardò.
«Sai, il tuo problema è che ti ostacoli da solo. Per questo ti perdi le cose migliori della vita. Prima o poi sarà troppo tardi e ti dirai: ‘Ah, se avessi...’ solo perché non hai avuto il coraggio di fare qualcosa. Non vuoi che succeda, vero?»
Simon non riusciva a guardarla negli occhi. Ormai doveva essere rosso come un peperone.
«Ma io sono un po’ diverso» disse sottovoce.
Caro scosse la testa. «No, tu sei molto diverso. È per questo che mi piaci. Non c’è niente di più noioso delle cosiddette persone normali.» Pronunciò le ultime due parole con una smorfia disgustata, mimando con le dita il segno delle virgolette. «Sono una massa di stupidi omologati, che nuotano con la corrente. Per questo dovresti essere felice della tua diversità.»
«Lo credi sul serio?»
«Ma certo.» Gli fece l’occhiolino. «Allora, se chiudo gli occhi finché non ti sei tuffato, entri in piscina?»
«E va bene.»
Simon si tolse le scarpe e Caro sorrise. Quindi prese una lunga boccata d’aria e scomparve sott’acqua.
Simon fece appello a tutta la propria forza di volontà, e alla fine si lasciò scivolare nella piscina. Il sole aveva piacevolmente scaldato l’acqua. Era morbida sulla pelle e profumava delle foglie che galleggiavano sulla superficie. Un profumo che gli ricordò ancora una volta quel soleggiato giorno d’autunno in cui erano venuti quassù a cercare funghi.
«Può darsi che la vecchia piscina là sopra abbia qualche crepa e l’acqua piovana filtri nel terreno» aveva detto il nonno. «Ai piedi del muro il terreno è sempre umido, tutto l’anno, e ci crescono un sacco di funghi. Soprattutto boleti, ma anche porcini e naturalmente finferli. Sono i miei preferiti!»
Caro lo aspettava sul bordo opposto. Si era girata di schiena e agitava le gambe.
«A volte fingo che tutto questo mi appartenga» disse, quando Simon la raggiunse. «Sono una star schifosamente ricca e questa è la mia villa.»
«Che genere di star vorresti essere?» domandò lui, appoggiandosi al bordo della vasca accanto a lei.
«Non ha importanza. Basta essere ricca. Non dovrei preoccuparmi di niente e potrei fare quello che mi pare.»
Simon gettò un’altra occhiata all’hotel. Visto dalla terrazza soleggiata, non appariva più così inquietante, anche se le finestre chiuse continuavano a sembrargli minacciose.
Occhi che si apriranno da un momento all’altro.
«Hai ragione» disse. «Sarebbe bello essere ricchi. Ci si potrebbe comprare una villa e avere un posto che ci appartiene.»
«Allora facciamo che d’ora in poi questa sarà la nostra villa» disse Caro, voltandosi verso di lui. «Nella fantasia tutto è possibile. Questa è la nostra casa e non dovremo mai più tornare in collegio. Faremo entrare solo i visitatori che sono diversi, come noi.»
«Sarebbe bello» sospirò Simon. «A essere sinceri, l’idea del collegio mi fa veramente schifo. E, se vuoi sapere la verità, tutta la vita mi mette una paura assurda. Perché adesso devo contare solo su me stesso. Certo, ho ancora Mike e la zia, ma hanno la loro vita e non voglio essergli di peso.»
Lei indicò con un cenno del mento le cicatrici che Simon aveva ai polsi. «È per questo che volevi toglierti la vita?»
Simon sussultò. Avrebbe voluto nascondere le mani dietro la schiena, ma non poteva farlo perché doveva reggersi al bordo della piscina.
«Scusami» si affrettò a dire Caro. «Mi spiace davvero un casino. Scusami. Non avrei dovuto chiedertelo. Non mi riguarda.»
Lui si guardò le cicatrici, che spiccavano rossastre intorno ai polsi resi più chiari dall’acqua fresca.
Caro uscì dalla piscina e si mise seduta sui gradini di pietra per asciugarsi. Simon si infilò in fretta e furia la maglietta e le si sedette accanto.
«È successo in ospedale» disse apatico. «La notte dopo l’incidente. Quando mi sono reso conto di ciò che era accaduto... Che ero l’unico sopravvissuto... Non ce l’ho più fatta. L’infermiera mi aveva dato un sonnifero, ma io l’avevo sputato di nascosto. Non volevo piombare di nuovo nel sonno e dimenticare ogni cosa. Ho preferito rimanere sveglio ore a fissare il soffitto. Quando sono andato a fare pipì e ho visto la mia immagine nello specchio sopra il lavello, è scattato qualcosa. Di colpo ho provato una rabbia mostruosa contro di me. Ho rotto lo specchio, ho preso una scheggia... Sì, insomma, hai capito.»
Fissò assorto il bianco accecante delle piastrelle. Ai loro piedi si era formata una pozzanghera, che pian piano evaporava al sole.
«L’infermiere di notte aveva sentito il rumore ed è corso subito» proseguì Simon dopo un po’. «C’erano schegge di vetro e sangue dappertutto. L’infermiere è scivolato e così ci siamo ritrovati tutti e due a terra. Era sotto choc. È stato così... penoso. Mi hanno fatto una trasfusione e l’infermiere è rimasto in camera mia per tutta la notte. Aveva paura che ci riprovassi. Il mattino dopo, appena mi sono sentito meglio, mi hanno trasferito in psichiatria. Prima nel reparto sorvegliato, poi in quello aperto.»
Al manicomio, amigo, sentì sussurrare una voce nella sua testa, che stavolta somigliava molto a quella di Lennard. Perché sei membro del rispettabile club dei fuori di testa.
Caro gli guardava le mani. Per un attimo Simon credette che volesse toccargli le cicatrici, ma non lo fece.
«Ti vergogni di ciò che hai fatto?» gli chiese.
Lui annuì senza avere il coraggio di guardarla. «Sì, perché sono stato un completo idiota. Un vigliacco, che ha paura di tutto. Persino della propria vita.»
«Non c’è ragione di vergognarsi per questo» osservò lei dolcemente. «Tutti abbiamo paura. Solo che certe persone sanno nasconderla meglio.»
«Credi davvero?»
Lei assentì. «Ne sono sicura. Chi sostiene di non aver paura di niente è un bugiardo.»
«E a te cosa fa paura più di tutto?»
«La solitudine, come te. E l’idea di essere dimenticata.»
«Non credo che riuscirò mai a dimenticarti.»
«Nemmeno io te, Simon. Nemmeno io.»
Si guardarono a lungo, senza dire altro. Ma parlavano lo stesso. Era un dialogo che avveniva dentro i loro cuori. Lì si dicevano cose che solo le emozioni avrebbero potuto esprimere.
Ci apparteniamo. Perché siamo diversi. Anche se gli altri non ci capiscono, noi ci comprendiamo. Finché ci saremo l’uno per l’altra, non saremo più soli.
Un cigolio arrugginito li riportò alla realtà e per un istante Simon ebbe l’impressione di risvegliarsi da un lungo sonno.
Dovevano essere rimasti seduti lì per un’eternità. Non si era accorto che nel frattempo si era levato un vento umido e che i suoi slip erano asciutti. Anche la pozzanghera ai loro piedi era scomparsa.
«Che cosa è stato?» chiese Caro guardandosi intorno spaventata.
Anche lei sembrava essere appena tornata da un altro luogo. E in un certo senso era così.
Udirono di nuovo quel rumore, che ben presto si trasformò nel cigolio prolungato di una cerniera.
Simon balzò in piedi e seguì il suono. Quando si ripeté, ne scoprì l’origine.
Accanto all’uscita della terrazza c’era un piccolo ingresso di servizio. Probabilmente era destinato al personale che serviva gli ospiti in piscina.
La porta, che ora cigolava mossa dal vento, un tempo doveva essere stata sprangata. Si vedevano ancora chiaramente i buchi dei chiodi nello stipite di legno marcito.
Qualcuno però aveva tolto le assi e le aveva appoggiate accanto al muro. A giudicare dal muschio e dal fogliame che le ricoprivano, doveva essere successo diverso tempo prima.
«Che ne dici?» chiese Simon raccogliendo da terra le sue cose. «Entriamo a dare un’occhiata?»
Caro, che si stava rivestendo, lo guardò con un’espressione di stupore misto a divertimento. «Me lo sta chiedendo qualcuno che poco fa si è definito un vigliacco?»
«No, te lo chiede uno che ha imparato da te» ribatté Simon infilandosi i calzoni.
La risata di Caro fu così prorompente da coprire il cigolio della porta.