16

Pochi minuti più tardi Simon scese dalla bicicletta accanto al grande cancello in ferro battuto. I muscoli delle gambe erano indolenziti, ma andava bene così.

Per una sana percezione di sé, bisogna anche sentire il proprio corpo, gli aveva detto il fisioterapista. Mens sana in corpore sano.

Dopo il sogno della notte appena trascorsa, dubitava sul serio che la sua mente fosse sana, ma preferì non pensarci.

Con le gambe ancora tremanti, spinse la bicicletta sul vialetto di ghiaia. Non poteva farsela rubare, era di Mike.

Poi cominciò a cercare tra le file di lapidi.

Gli sembrava pazzesco, per certi versi, non sapere dove si trovasse la tomba dei suoi genitori, ma non aveva partecipato al funerale. All’epoca non era ancora in condizioni di farlo.

Più o meno nel momento in cui i due feretri venivano inumati, lui si trovava nella stanzetta del reparto psichiatrico a prendere a pugni come un pazzo il sacco di sabbia, con tale impeto da strappare le suture delle cicatrici ancora fresche. All’inizio non se n’era accorto. Lo aveva notato solo quando i suoi pugni avevano cominciato a lasciare impronte rosse e umide sul sacco di cuoio.

Aveva provato la stessa disperazione che lo aveva assalito quel giorno, quando Tilia gli aveva detto del collegio.

La vita, il destino, o in qualunque modo lo si volesse chiamare, gli aveva portato via tutto. E adesso volevano anche allontanarlo, lui, Simon, l’orfano che doveva imparare a camminare sulle proprie gambe.

Procedeva a passo lento, leggendo i nomi sulle lapidi. Quelle più recenti si trovavano nell’ala occidentale del cimitero.

Che genere di lapide avevano scelto Tilia e Mike?

Superò un grande angelo di pietra ormai logorato dalle intemperie che teneva le ali spiegate a proteggere le sepolture. Sulla sommità del capo era appollaiato un corvo, che fissava Simon con diffidenza. Per il resto a quell’ora del giorno non sembrava esserci nessuno al cimitero.

Mentre stava per svoltare nella fila successiva, vide qualcosa che lo fece trasalire. Guardò meglio, per essere sicuro di aver visto bene.

Erano proprio un paio di gambe distese! Qualcuno era sdraiato su una lapide, a meno di venti passi da lui.

Il cuore cominciò a battergli forte nel petto e lui si leccò le labbra per il nervosismo. Da dove si trovava vedeva solo le gambe magre fasciate da un paio di jeans neri e un paio di scarpe da ginnastica con dei teschi ghignanti.

Avanzò lentamente. Poi vide la ragazza.

Era sdraiata su una tomba all’ombra di un grande salice piangente. Non si muoveva, teneva gli occhi chiusi e le mani intrecciate sul petto. La maglietta e i capelli erano neri come i jeans, mentre la pelle era chiara come la lapide di marmo bianco su cui giaceva.

Sembrava una salma esposta per il compianto. Nemmeno la mosca che le si era posata sulle mani sembrava turbarla.

Giunto a pochi metri da lei, Simon era assordato dal battito del proprio cuore nelle orecchie. La ragazza era sempre immobile. Forse non lo aveva sentito arrivare oppure...

E se fosse stata morta?

Prima ancora di riuscire a formulare questo pensiero, Simon scrollò il capo. Non era possibile. Nessuno avrebbe lasciato un cadavere su una lapide. Tanto meno con dei vestiti simili.

«Ciao?»

Simon fece ancora un passo verso di lei.

«Ehi, tutto a posto?»

A quel punto la ragazza si mosse, facendolo spaventare.

«Oh, cazzo!» esclamò, lanciandogli un’occhiata carica di rimprovero. «Mi hai spaventata a morte.»

«Stammi a sentire, sembravi davvero morta. Ho pensato...»

«Che fossi un cadavere?»

Scoppiò a ridere e Simon si sentì molto stupido.

«Prima o poi lo diventerò» proseguì lei con uno sbadiglio, stiracchiandosi. «E anche tu. Prima o poi tocca a tutti. La morte non fa eccezioni. Di fronte a lei siamo tutti uguali. Non gliene frega niente di chi eri. La morte appiana tutte le ingiustizie della vita.»

«Sì, certo» ribatté Simon. «Peccato che sia sempre troppo tardi.»

Lei si strinse nelle spalle. «Che ci fai qui?»

«Cerco una tomba.»

La ragazza si mise seduta e sorrise. «Hai già trovato un posticino comodo comodo?»

«No, cerco la tomba dei miei genitori.»

Il sorriso le morì sulle labbra. «Scusa. Ho fatto una delle mie solite figuracce.» Fece un gesto di scusa. «Mi spiace davvero. La delicatezza non è il mio forte.»

Simon fece un cenno distratto. «Figurati. Tu cosa ci fai qui?»

«Lo vedi anche tu.» Accarezzò la lapide con entrambe le mani. «Prove di sepoltura.»

Si alzò. Era di una spanna più bassa di Simon, e forse... sì, sembrava carina, dietro il trucco pesante che usava per nascondersi.

«Prove di sepoltura?» ripeté lui. «Trovi la morte così bella?»

«No, certo che no» rispose lei guardandolo. «Al contrario, mi fa una paura fottuta. Ma, se ogni tanto provassimo a immaginare come sia essere morti, impareremmo ad apprezzare meglio la vita.»

«Può darsi» concordò Simon. «A proposito, io mi...»

«Oh, merda!»

La ragazza fissò un punto oltre la spalla di Simon, poi alzò gli occhi al cielo. Simon si girò e vide un uomo che camminava verso di loro.

«Ecco che arriva Frankenstein» sospirò lei. «Meglio se sparisco. Ci vediamo.»

Se ne andò di corsa, prima che Simon potesse aprire bocca. Quando sentì la ghiaia scricchiolare alle proprie spalle, si voltò di nuovo verso l’uomo.

La definizione data dalla ragazza era calzante. Era un tipo massiccio, con i capelli a spazzola e lo sguardo torvo del mostro di Frankenstein. Indossava un camice verde da lavoro con lo stemma di Fahlenberg sul taschino. Sotto Simon lesse la scritta SERVIZI CIMITERIALI.

«Ehi, giovanotto, che ci fai qui?»

«Cerco la tomba dei miei genitori» rispose lui tranquillo.

Frankenstein si fermò davanti a lui e guardò in lontananza. Era molto alto e Simon notò le sue mani. Non gli serve una pala per scavare le fosse, pensò.

«Ah» brontolò Frankenstein. «Con chi stavi parlando?»

«Con nessuno» rispose Simon, senza sapere bene perché mentisse. Per qualche motivo non voleva creare problemi alla ragazza misteriosa. «Mi può aiutare?»

L’uomo lo guardò e annuì. «Certo. Come si chiamano i tuoi genitori?»

«Strode. Lars e Maria Strode.»

L’uomo alzò le sopracciglia. «Tu allora sei il figlio minore di Lars, il nipote di Tilia, giusto?»

«Sì. Conosceva mio padre?»

«Ma certo, siamo stati vicini di casa per molto tempo» rispose l’uomo. «Lo conoscevo da quando era un moccioso. Purtroppo poi ci siamo persi di vista, quando mi sono trasferito dall’altra parte del paese. L’incidente è stato davvero tremendo, una vera tragedia. Mi dispiace moltissimo per te, ragazzo. A proposito, mi chiamo Heinrich Pratt. Tuo padre ti ha mai parlato di me?»

Simon non se lo ricordava, ma rispose con una scrollata di spalle.

«Su, vieni con me» disse Pratt mettendosi in cammino.

Lo condusse a una tomba ben curata con una lapide chiara illuminata dal sole.

«Sono qui. Immagino che tu voglia rimanere da solo, vero?»

Simon annuì e Pratt gli batté una mano sulla spalla, come per consolarlo.

«Ti auguro ogni bene, ragazzo» disse, quindi si allontanò e scomparve tra le lapidi.

Simon lesse i nomi e le date di nascita dei genitori scritti a lettere dorate. Un senso di vuoto si impossessò di lui.

Che strano, pensò. Perché non provo niente?

Aveva immaginato che quel luogo lo avrebbe fatto sentire triste, che alla fine forse avrebbe pianto e dato sfogo al dolore. Invece non c’era... Niente.

Lesse di nuovo la lapide, e gli sembrò che i nomi appartenessero a degli sconosciuti.

Come se i suoi genitori non fossero sepolti lì.

Come se fossero ancora vivi da qualche altra parte.

Incubo
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