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Fece i bagagli in meno di cinque minuti. Dal giorno dell’incidente, Simon possedeva soltanto il minimo indispensabile. L’occorrente per lavarsi, un paio di jeans, magliette e biancheria.
Infilò tutto in una borsa sportiva che gli aveva procurato Tilia, ci aggiunse il libro intitolato Non preoccuparti, vivi!, un regalo della zia, e chiuse la lampo.
Si guardò intorno un’ultima volta, prima di lasciare la stanza che per quasi cinque mesi era stata una specie di casa per lui. Lennard, il suo compagno di camera, era seduto sul letto, come sempre, lo sguardo perso nel vuoto, le cuffie enormi da cui usciva musica a tutto volume. Erano l’unico metodo efficace contro le voci che sentiva nella testa.
Lennard aveva diciotto anni, ma con la lunga chioma rasta e la folta barba ne dimostrava almeno venticinque. Poco più di due anni prima aveva abbandonato la scuola per panettieri e si era unito a una rock band come batterista. Ben presto però aveva iniziato a drogarsi e gli stupefacenti avevano scatenato in lui una forma di schizofrenia. Era così diventato anche lui membro del «rispettabile club dei fuori di testa», come lo definiva. Ora vedeva cose che non esistevano e sentiva voci che nessun altro poteva udire.
Non erano voci qualsiasi, sosteneva, bensì quelle dei suoi parenti defunti. Lo zio, i nonni e il padre, morto cadendo da un’impalcatura, gli parlavano in continuazione. Lennard sosteneva che dopo la morte non si andava in paradiso né da nessun’altra parte, bensì si continuava a vivere nella testa delle persone per le quali si era stati importanti da vivi. Simon in un certo senso condivideva questa teoria, ma perdeva la pazienza quando Lennard si metteva a discutere con i morti nel cuore della notte.
Simon agitò la mano davanti al volto di Lennard e, come sempre, il compagno di stanza impiegò qualche secondo a registrare la sua presenza.
«Ce l’hai fatta» gli gridò Lennard togliendosi le cuffie. «Ti lasciano andare?»
«Sì. Adesso hai la camera tutta per te.»
«Non dire cavolate» ribatté Lennard battendosi un dito sulla fronte con aria beffarda. «Lo sai che io non sono mai solo. Questi chiacchieroni a volte mi fanno venire il nervoso, ma mi danno anche una bella sensazione. Qui dentro trovo sempre qualcuno, anche quando non c’è nessun altro. Essere fuori di testa dopotutto ha i suoi vantaggi.»
«Puoi ben dirlo» replicò Simon, pensando a tutte le incertezze che lo aspettavano.
Nonostante gli fossero rimasti Mike e Tilia, avvertiva un enorme senso di vuoto e di solitudine. Ancora non si rendeva conto di non avere più una casa né dei genitori e, diversamente da Lennard, non poteva nemmeno ascoltare le loro voci. Dovunque fossero i suoi genitori in quel momento, di sicuro non erano con lui.
«Dai, amico, non fare quella faccia!» Lennard gli diede un pugno amichevole sulla spalla. «Ricorda sempre che sei una persona speciale. Sei un membro onorario del nostro club.» Il suo sorriso si allargò mentre alzava la mano verso Simon. «Avanti, vecchio mio, batti il cinque.»
Simon ricambiò il sorriso di Lennard e il saluto. Il ragazzo gli augurò ogni bene, anche da parte degli altri abitanti della sua testa. Poi si rimise le cuffie e scomparve in un mondo immaginario per il quale ora Simon lo invidiava.
Simon strinse con forza i manici della sacca quando, uscito dalla stanza, vide Tilia in fondo al corridoio. Era accanto all’ingresso del reparto e parlava con Marion, l’infermiera, che la sovrastava con la sua mole imponente. La zia era alta e magra come il padre di Simon, e aveva i suoi stessi lineamenti affilati. Quando vide il ragazzo, gli rivolse un cenno di saluto e lo chiamò per nome.
Era giunto il momento del non ritorno. In quell’istante Simon comprese fino in fondo che stava per iniziare una nuova vita.
L’istinto gli diceva di tornare da Lennard, per chiacchierare con lui di gruppi rock e delle ultime notizie dal mondo dei morti. Era nervoso all’idea di abbandonare l’ambiente protetto della clinica per affrontare un futuro nebuloso.
Anzi, non era così. A essere proprio sinceri, non era semplicemente nervoso. Era profondamente angosciato.