26

«Dai, muoviti, lumacone!»

Simon cercava di starle dietro, ma, sebbene la bicicletta di Caro fosse decisamente più vecchia di quella di Michael, era in condizioni migliori.

Pedalando e sbuffando, percorse il viottolo in salita che conduceva alla foresta di Fahlenberg.

Quel mattino faceva già più caldo del giorno prima. L’umidità era tale che Simon aveva l’impressione di bere l’aria, e il sudore gli inondava la faccia.

Caro al contrario sembrava immune all’afa. Con il cappuccio della felpa tirato sul viso, aveva l’aria fresca e rilassata ed era ansiosa di condurlo alla meta misteriosa.

Raggiunto il bosco, la strada proseguiva all’ombra e in piano. Una vera benedizione, per Simon. Gli alti abeti diffondevano una piacevole frescura e un profumo di resina e funghi. Ben presto gli unici suoni intorno a loro furono il rumore delle ruote sul sentiero sterrato e lo stormire delle fronde. Il cinguettio degli uccelli, un picchio che martellava, fruscii misteriosi nel sottobosco.

A Simon il bosco piaceva molto. Quando da bambino accompagnava il nonno a passeggiare nella foresta di Fahlenberg, gli sembrava di entrare in un enorme parco avventura deserto.

Ma oggi i rumori e le ombre lo inquietavano. Gli incubi lo perseguitavano anche qui. Senza Caro non avrebbe mai avuto il coraggio di addentrarsi nella foresta.

Poco dopo sbucarono in una radura dove il viottolo si biforcava. Simon alzò lo sguardo sul pendio alla sua sinistra e si fermò. Un brivido gelido gli percorse la schiena.

Anche Caro si fermò e si voltò a guardarlo. «Ehi, che ti succede?» Indicò dalla sua parte. «Dobbiamo proseguire di qui.»

Simon indicò il pendio dove si inerpicavano i tornanti. Un po’ più su si vedevano i tronchi anneriti di alcuni abeti.

«Lassù» disse con voce rotta. «È successo lassù.»

Caro tornò da lui e scese dalla bicicletta. Si tolse il cappuccio e seguì il suo sguardo.

«Parli dell’incidente?»

Simon annuì e strinse più forte il manubrio. Caro non doveva accorgersi che stava tremando.

«Vuoi andare a vedere?» gli domandò.

Ancora scosso dai brividi, Simon si leccò le labbra, all’improvviso secche e screpolate.

Doveva andarci?

Voleva andarci?

È l’istinto a farci riconoscere il momento giusto, gli aveva spiegato il dottor Forstner. La ragione trova sempre un motivo per non fare qualcosa, in genere perché abbiamo paura. Ma l’istinto non si lascia ingannare.

Simon provò a non riflettere e a dare ascolto al proprio istinto.

Guardò Caro. «Mi accompagneresti?»

Lei annuì, come se fosse la cosa più normale del mondo. «Ma certo. Se vuoi.»

Simon non sapeva ancora se lo volesse davvero. Da una parte lo desiderava, dall’altra era terrorizzato. L’idea di rivedere il luogo dell’incidente lo gettava nel panico. Nel sogno c’era sempre un mostro che lo perseguitava.

E nella realtà? C’era davvero qualcosa lassù di cui aver paura?

Avanti, provaci, gli bisbigliò una voce interiore. Non sei da solo e questo non è un sogno.

Sì, doveva andarci. Forse avrebbe trovato la risposta alle domande che non gli davano pace. Forse lassù sarebbe riuscito a colmare le lacune della sua memoria.

Risalì in sella e imboccò lo stretto viottolo che saliva verso la strada asfaltata. Procedeva con calma, e stavolta era Caro a seguirlo.

Giunti finalmente alla meta, Simon posò la bicicletta sul ciglio della strada e si guardò intorno. Era la prima volta che tornava lì da quello spaventoso sabato pomeriggio, almeno nel mondo reale, e tutto era identico ai suoi sogni. Ogni singola immagine. Come se notte dopo notte si fosse ritrovato in un album fotografico.

Non era un sogno, pensò. Erano i ricordi.

Si accovacciò e sfiorò l’asfalto con prudenza, come se avesse paura di scottarsi.

Sì, la sensazione era la stessa. L’asfalto era fresco e ruvido. Come nel sogno. Camminando carponi si sarebbe graffiato le mani e le ginocchia.

Si alzò, si incamminò lungo il ciglio della strada e Caro lo seguì in silenzio. Sembrava intuire che lui non voleva dire niente, che non poteva farlo, che aveva bisogno soltanto di una presenza accanto a sé.

Più si avvicinava alla scarpata, dove l’auto era precipitata, più doveva forzarsi per proseguire. Qualcuno aveva piantato una croce, probabilmente Tilia, dato che Mike non era mai stato particolarmente religioso, e quella vista gli provocò una stretta al petto. Soprattutto quando vide i due lumini davanti alla croce.

A breve distanza da lì Simon scoprì minuscoli frammenti di vetro che scintillavano nell’erba come gocce di rugiada illuminate dal sole. Non erano cocci di bottiglia, erano troppo piccoli. Erano le schegge del vetro di un’auto. Dovevano essere rimaste lì dall’incidente.

Chissà di quale vetro si trattava? Forse del lunotto posteriore, dove si trovava il cesto regalo per Tilia, sballottato qua e là esattamente come Simon. Ancora e ancora e ancora...

Trasalì, sentendo nelle orecchie le grida dei genitori. Ma erano solo due astori che si inseguivano nel cielo oltre la cima degli alberi.

«Ti senti bene?» Caro lo guardò preoccupata. «Sei bianco come un cadavere.»

Simon avrebbe voluto rispondere, ma non ci riuscì e si limitò ad annuire. Le gambe gli tremavano, mentre si avvicinava alla semplice croce nera. I lumini ormai consumati erano spenti e per un breve istante Simon pensò: Avrebbero dovuto essere tre. Se il destino fosse giusto, sarebbero tre.

Fece un respiro profondo e gettò un’occhiata verso la scarpata. A parte i tronchi anneriti, non c’erano più tracce dell’incidente. Del resto erano passati diversi mesi. Era stato portato via tutto con la massima cura. Tutto, a parte i pochi frammenti di vetro sul ciglio della strada. Se fosse rimasto qualcos’altro, l’erba avrebbe ormai inghiottito ogni cosa.

Nonostante questo, Simon aveva la strana impressione che il tempo non fosse passato. Con gli occhi della mente vedeva la carcassa in fiamme, ammaccata, rovesciata, il cofano e l’abitacolo distrutti e avvinghiati a un tronco.

Era l’immagine spaventosa che lo perseguitava in sogno. Le fiamme che fuoriuscivano dall’auto e risalivano sull’albero. L’airbag bianco, simile a una bandiera ammainata, appeso fuori dalla sottile fessura informe che prima era il finestrino del passeggero.

Dove era seduta sua madre.

«Accidenti» mormorò Caro accanto a lui.

Pur non vedendo la scena agghiacciante che Simon aveva davanti agli occhi, la vista degli alberi incendiati la turbò profondamente.

«Come hai fatto a uscire dalla macchina?»

«Io... non lo so più» balbettò Simon, sforzandosi di bloccare il frastuono che aveva in testa, in tutto per tutto simile all’urlo incessante di un clacson bloccato. «Devo essermi arrampicato fuori dal finestrino. Ero seduto dietro, a destra. Statisticamente dicono che sia il posto più sicuro in un’auto. Il dottore dice che forse è per questo che non ricordo niente, perché... insomma, sì, ho visto qualcosa di molto brutto. La mia mente rifiuta le immagini per proteggermi. Sai, il... insomma, la parte anteriore era... tutta accartocciata.»

Non riuscì a essere più preciso, ma Caro aveva capito. Lo guardò seria e annuì lentamente.

«Non è sempre necessario sapere tutto» disse dolcemente. «Tu ce l’hai fatta, e questo è ciò che conta.»

Lui evitò il suo sguardo. «Ne sei sicura?»

«Senza dubbio» confermò lei a voce più alta. «Certo, quello che è successo ai tuoi genitori è stato terribile. Ma tu sei sopravvissuto. Hai avuto fortuna nella disgrazia.»

Simon alzò la testa e la guardò. «Io non la definirei proprio fortuna. Certo, sono sopravvissuto, ma i miei genitori non ce l’hanno fatta. È una sensazione davvero orribile. Continuo a chiedermi perché non sia morto anch’io. Perché mi sono salvato? Mi sento colpevole. Capisci?»

Caro inclinò la testa di lato. «In parte sì e in parte no. La vita è troppo breve per certe domande, secondo me. Tu sei vivo. È questo ciò che conta.»

Lui si voltò e tornò sui propri passi, superò le biciclette e raggiunse la curva dove nei suoi sogni c’era la porta. La porta che non riusciva ad aprire. La porta che nascondeva qualcosa di importante. La porta che nella vita reale naturalmente non c’era. Al suo posto si vedevano sull’asfalto i segni neri di una frenata.

Simon rabbrividì di nuovo e all’improvviso ricordò qualcosa. Non aveva a che fare con l’incidente, ma con una serata di molti anni prima.

Era stata la sera dopo il funerale del nonno. Heinz Strode era morto a distanza di pochi mesi dalla moglie. Si diceva per un infarto, ma la madre di Simon era di un’altra opinione.

«Avevano vissuto insieme per quasi tutta la vita» aveva detto al marito mentre lo abbracciava per confortarlo. «Si erano sposati da giovani e da allora non si erano mai separati. È triste, ma anche comprensibile, che lui abbia voluto seguirla così in fretta.»

All’epoca, dopo essere tornati a Stoccarda in tarda serata, Simon aveva chiesto a suo padre perché le persone dovessero morire. Aveva solo sette anni e l’idea che d’un tratto la vita potesse cessare per sempre lo aveva profondamente spaventato.

Era seduto sul letto, stringendo in mano il suo robot giocattolo, Mr Zerox, ricevuto in dono dai nonni il Natale precedente, e suo padre aveva avvicinato una sedia. Avevano parlato a lungo della morte e della transitorietà delle cose. Simon continuava a scuotere la testa con forza.

«Io non voglio che tutto cambi» aveva protestato. «Se una cosa va bene, è giusto che resti così. Perché non è possibile che tutto resti sempre come ora?»

«Vedi, Simon, a un certo punto nella vita si arriva a capire che qualcosa è cambiato in maniera irrevocabile» aveva risposto il padre. «Il nostro compito è accettare questa realtà, trarne il meglio e usarla per crescere. Non possiamo sfuggire alla morte, ma possiamo sfruttare il tempo che ci rimane. Non dovremmo sprecare nemmeno un giorno, perché potrebbe essere l’ultimo. Secondo me è questo il senso della vita.»

Simon fissò i segni della frenata davanti ai propri piedi. All’epoca non aveva capito le parole del padre, forse non aveva nemmeno voluto capire. Ma ora era diverso.

Questo era uno dei punti di cui gli aveva parlato il padre. Sottolineato di nero sull’asfalto grigio. Qui la vita di Simon era cambiata in maniera ineluttabile. Da un secondo all’altro. In quella curva i genitori avevano gridato. L’auto aveva iniziato a sbandare.

Ma perché?

Perché?

Avevano visto qualcosa sulla strada? Suo padre aveva cercato di schivare un animale?

La porta, rimbombò una voce nella sua testa. Somigliava a quella del mostro che lo inseguiva in sogno. Ora sembrava proprio lì, alle sue spalle.

Dietro la porta si nasconde la risposta. Avanti, guarda. Guarda, vigliacco!

Dal bosco si udì uno scricchiolio improvviso. Simon guardò da quella parte, sforzandosi di riconoscere qualcosa tra i rami. Ma gli abeti erano così fitti da non lasciar penetrare nemmeno un raggio di luce.

Temeva di vedere gli occhi ardenti del sogno, occhi che forse appartenevano ai lupi, gli venne da pensare senza motivo, e di sentire fiochi richiami raccapriccianti.

Simon. Siiimon. Vieni da noi!

Invece non c’era niente. Solo tronchi d’albero, cespugli, rami e ceppi ricoperti di muschio. E la voce cupa e malvagia nella sua testa.

Saresti dovuto morire anche tu!

Si scrollò, nel tentativo di allontanare da sé quella voce.

«Allora? Ti è venuto in mente qualcosa?»

Caro spuntò all’improvviso accanto a lui. Non l’aveva sentita avvicinarsi.

«No, niente.» Cercò di schiacciare una zanzara attirata dal sudore che gli imperlava la fronte. «Se solo potessi ricordare una buona volta! Ma la mia mente è vuota. Come se tutti i ricordi fossero stati cancellati.»

«Non tormentarti. Rende solo tutto più difficile.»

Caro gli sorrise e per qualche motivo Simon ripensò al sorriso di sua madre. Era un sorriso di consolazione e di incoraggiamento.

«Sai, forse è meglio non ricordarsi di ogni cosa» proseguì lei. «In questo modo è possibile immaginarsi le cose come si vorrebbe che fossero.»

Lui la guardò aggrottando la fronte. «Che cosa vorresti dire?»

«Sì, sognare a occhi aperti. Quando la realtà è troppo difficile da affrontare, c’è sempre la fantasia. Lì tutto è possibile. Io lo faccio spesso. Per esempio mi immagino che il prossimo fine settimana i miei genitori verranno a trovarmi. Insieme. In questo modo trovo la forza di affrontare meglio la settimana.»

«Ma a cosa ti serve, se poi tanto non vengono? Io non posso far tornare indietro i miei genitori. Sono morti.»

«Non lo saranno finché li tieni nel cuore.» Si strinse nelle spalle. «Sì, lo so, sembra una frase fatta, ma io ci credo. Finché qualcuno custodisce il nostro ricordo, non siamo davvero morti. I tuoi genitori sono con te. Devi solo immaginarli, e diventeranno una parte della tua vita.»

A Simon tornò in mente la visita al cimitero. La sensazione che la tomba dei genitori fosse vuota, che vivessero ancora da qualche parte.

Ma certo, pensò adesso. Perché loro continuano a vivere dentro di me.

Caro aveva ragione. Era la stessa cosa che gli aveva detto anche Lennard. Solo che aveva parlato della mente anziché del cuore. Ma non era lo stesso? Se si pensava a qualcosa con amore, mente e cuore diventavano una cosa sola. Era una frase che aveva letto da qualche parte e che gli era piaciuta molto.

«Adesso andiamo» lo esortò Caro dopo essere risalita in sella alla bici. «È una giornata troppo bella da sprecare rimuginando.»

Lui si guardò attorno un’ultima volta. Udì di nuovo uno scricchiolio nel folto del bosco. Come se qualcosa si muovesse furtivo là dentro e li osservasse. Soprattutto lui. In particolare lui.

Ti prenderò, aveva detto il mostro nel sogno. Non mi sfuggirai.

Simon tornò in fretta verso la bicicletta. «Sì, andiamocene. Forse non è stata una grande idea venire fin quassù.»

Caro lo fissò, come se volesse leggergli nel pensiero, e Simon ebbe l’impressione che in quel momento ci stesse riuscendo, per quanto potesse sembrare pazzesco. In ogni caso sembrava essersi accorta che lui aveva bisogno di distrarsi, perché sul suo viso comparve un sorriso malizioso.

«Forza, partiamo» disse. «Chi arriva ultimo è una pappamolla.»

Spinse sui pedali e, schiamazzando, imboccò a tutta velocità lo stretto sentiero da cui erano arrivati.

Simon la seguì con altrettanta foga. Era contentissimo di lasciarsi alle spalle quel luogo inquietante. Ma, nonostante il sollievo, sapeva che sarebbe tornato lassù molto presto.

Come ogni notte.

Continuamente.

Finché non fosse riuscito a vedere al di là della porta.

Incubo
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