77.
Passarono cinque minuti, forse anche dieci prima che arrivasse l’ambulanza. Nel frattempo diversi curiosi si erano raccolti di fronte al pub. Gli avventori erano usciti dal locale e anche i residenti delle case intorno erano scesi in strada.
Tutti volevano vedere che cosa fosse successo, ma nessuno interveniva. Si accalcavano intorno a Vanessa e a me parlando concitatamente.
Io ero inginocchiata per terra, reggevo la testa di Vanessa e speravo con tutta me stessa che resistesse. Respirava ancora – piano, ma in maniera regolare – e ogni tanto emetteva un lieve gemito.
Cercavo di parlare con lei, ma non reagiva. Aveva il viso tirato e cereo come quello di un cadavere.
Poi finalmente arrivarono i soccorritori. Due di loro mi spinsero da parte e si chinarono su Vanessa. Sarei voluta rimanere con lei, per vedere se ce la faceva, ma qualcuno mi afferrò per un braccio e mi trascinò via.
Era Sascha.
«Forza, vieni con me!»
Mi spinse dietro l’ambulanza, dove non poteva vederci nessuno. Nella luce azzurrognola dei lampeggianti il suo viso era grigio e sconvolto.
«Maledizione, Nikka!» mi sibilò. «Che cosa ci fai qui con lei?»
«È stata lei a volerlo!» dissi, liberandomi dalla sua stretta. «Voleva uscire con me e mi ha promesso che poi mi avrebbe detto dov’è Zoe. Ma di colpo è spuntato quell’idiota. Per la miseria, quanto vorrei ucciderlo!»
Sbirciai oltre l’ambulanza. Rob era sempre lì, tenuto fermo da due tizi muscolosi. Uno non lo conoscevo, ma l’altro era Nikolas Mossner, il proprietario del pub. Stavano discutendo animatamente con Rob e la sua cricca e sentii Mossner dire che aveva chiamato la polizia. Era già piuttosto anziano, ma incuteva sempre molto rispetto. Non l’avrebbe fatta passare liscia a quel Rob. Ben gli sta!
A pochi passi da loro i colleghi di Sascha caricarono Vanessa su una barella. Le avevano messo una maschera per l’ossigeno e una flebo. Aveva gli occhi chiusi e sembrava una bambola senza vita.
Mi tornarono in mente le sue parole di quel mattino. Non mi rimane più molto tempo, Nikka.
«Credi che ce la farà?»
Sascha si strinse nelle spalle. «Non saprei dirtelo, ma di sicuro non è messa bene.»
«Se è così, Zoe è perduta. Non riuscirò più a trovarla in tempo.»
La mia profezia fu sottolineata dal rombo di un tuono nel cielo buio, mentre le prime grosse gocce di pioggia annunciavano l’ennesimo temporale autunnale.
Uno dei due infermieri chiamò Sascha.
«Devo andare» disse, guardandosi intorno mentre dall’altro lato della piazza si udiva il suono di una sirena della polizia. Subito dopo un’autopattuglia si fermò davanti al pub.
Sascha mi rivolse un’occhiata penetrante. «Finisco intorno a mezzanotte» disse precipitosamente. «Ti chiamerò subito e decideremo che cosa fare. Fino ad allora non commettere imprudenze, ok? Torna a casa. Mi farò vivo appena avrò altre notizie.»
Girò intorno all’autoambulanza, salì al posto del conducente e richiuse la portiera. Poi fece il segno del telefono con pollice e mignolo dal finestrino laterale prima di accendere il motore.
Quando l’ambulanza se ne andò, vidi due poliziotti che parlavano con il proprietario del pub e i testimoni. Uno di loro poi si guardò intorno.
Sicuramente cercava me. Per un attimo pensai di andare da lui. Avrei potuto cercare di spiegare tutto. Che la ragazza collassata non era Zoe bensì sua sorella e che dovevamo cercare Zoe senza indugio. Avrei potuto chiedere loro di informare il commissario che era responsabile delle indagini sul nostro caso.
Ma lui non ne sapeva niente di Vanessa. Era una storia così intricata che ci sarebbe voluta un’eternità per convincere i poliziotti. Soprattutto una volta che avessero chiamato i Wagner. I genitori di Zoe avrebbero dato fuori di matto e mi avrebbero dipinto nuovamente come una pazza. E anche se a un certo punto mi avessero creduto, fino ad allora avremmo perso del tempo prezioso.
Oltretutto la polizia fino a quel momento non aveva trovato tracce di Zoe. Non mi sarebbe stato di nessuna consolazione sentirli promettere ancora una volta che stavano facendo del loro meglio. E poi sarebbe stato troppo tardi.
No, a quel punto non potevo arrendermi . Dovevo andare avanti da sola. Ma prima dovevo andarmene da lì.
Mentre Sascha sfrecciava oltre la folla di curiosi a sirene spiegate e con i lampeggianti accesi, approfittai della confusione per defilarmi nella direzione opposta. Voltai nella prima via laterale e corsi poi senza meta per le stradine del centro. Mi fermai solo dopo essermi allontanata abbastanza dal pub.
Nel frattempo la pioggia era aumentata e mi rifugiai sui gradini di una casa al riparo di una tettoia. Mi misi a sedere scossa dai brividi, mi nascosi il viso tra le mani e lasciai libero sfogo alle lacrime.
Che cosa dovevo fare?
Vanessa non poteva più dirmi dove fosse Zoe. E anche se si fosse ripresa dalla crisi, non era possibile sapere quando sarebbe tornata in sé.
La pioggia scrosciava davanti a me sulle pietre del selciato, creando ben presto grandi pozzanghere.
Maledizione, ero nella confusione più completa.
Lo so, aveva detto Vanessa. Non le rimane più molto tempo.
La mia immagine riflessa mi fissava da una pozzanghera ai miei piedi, deformata dal ritmo delle gocce. Tutto a un tratto un’ombra si proiettò sopra di me e, quando alzai lo sguardo, riconobbi la mia oscura presenza.
Questa volta mi apparve più nitida, ma subito dopo si dissolse. Come un ultimo sussulto di ribellione. Come se con le ultime forze volesse chiamare me, chiamare aiuto.
Il cuore prese a battermi più forte quando un’idea prese forma nella mia testa. Un’idea nata dalla più pura disperazione.
Fissai la pozzanghera. L’acqua.
L’acqua!
L’idea si fece sempre più concreta e terrificante. Ma forse era davvero l’unica possibilità che mi restava.
La mia voce interiore mi gridava che era una pazzia, una totale pazzia. Ma io la ignorai.
Infilai la mano nella tasca e tirai fuori il mazzo di chiavi. Sì, c’era anche quella giusta.
Avevo un’ultima possibilità di trovare Zoe. Ma dovevo rischiare il tutto per tutto.