13.

Dopo che si era fatto tutto buio, per un po’ avevo avuto l’assurda sensazione di dissolvermi. Come una compressa effervescente immersa in un bicchiere d’acqua. Mi sembrò di sparire, di non esserci più.

Poi però mi era tornata in mente la frase di Cartesio su cui una volta avevo scritto un tema: Penso dunque sono. E siccome ricordavo questa frase, pensavo ancora.

Perciò ero ancora.

Ma dove?

Che fine avevano fatto le facce deformi e le persone con le voci da mostro?

Ero stata portata da qualche parte, dopo essere collassata? Forse in una stanza adiacente?

Era possibile, ma perché era così buio?

Perché non c’era nessuno con me?

Non riuscivo a raccapezzarmi.

Forse stavo sognando?

Sì, deve essere un incubo, pensai. Non può essere che un incubo!

Non trovavo una spiegazione migliore.

Ecco, se non altro ero di nuovo in grado di muovermi. Sentivo di nuovo mani e piedi. Era una consolazione, seppur minima. Infatti per il resto le mie condizioni erano tutt’altro che confortanti. Faceva un freddo cane e il buio mi faceva paura.

Forse ero diventata cieca?

No, non avevo questa impressione. Piuttosto era come se non ci fosse nemmeno una minima fonte di luce.

E che silenzio terribile! Da impazzire. Sentivo solo il mio respiro affannato e i denti che mi battevano.

Sfido io che avevo freddo, ero completamente nuda! Ma dove cavolo erano finiti i miei vestiti?

Ah, ecco la prova che stavo sognando! Certi sogni funzionavano così, giusto? Cominciavano con una situazione imbarazzante alla quale poi se ne aggiungevano altre.

Mi aspettavo già che da un momento all’altro si accendesse la luce e mi ritrovassi nuda nella nostra classe. Poi avrei dovuto tenere un discorso di fronte agli studenti del liceo Serling. Tutti mi avrebbero additato, anche gli insegnanti, e si sarebbero sbellicati dalle risate. Qualcosa del genere.

Viceversa... perché avevo la sensazione che fosse tutto vero? Come se io fossi veramente lì. Dovunque fosse quel lì.

Aspettai. La luce non si accese. Nessuno mi additò o rise di me.

Perché... non c’era niente.

Assolutamente niente e nessuno.

Era ancora peggio che essere nuda in classe. Il buio mi aveva sempre fatto paura, fin da piccola. Per questo tenevo sempre una lucina accesa anche di notte in camera mia.

Qui invece non c’era neppure un barlume, era tutto nero e impenetrabile come l’inchiostro.

Mi strinsi le braccia al corpo, mi strofinai le spalle ghiacciate e avvertii la pelle d’oca ovunque su di me. Il pavimento sotto i miei piedi era ruvido, irregolare e anche un po’ scivoloso, come se fosse fatto di pietra fredda e umida.

E poi c’era quell’odore bizzarro, che permeava l’aria, così forte che mi sembrava di sentirne il sapore. Un odore di birra stantia e gomme alla menta masticate già da un bel po’.

Che schifo!

Fui assalita da un’altra ondata di vomito e mi sentii invadere dal panico.

Mantieni la calma, Nikka, mantieni la calma, mi esortò una voce in un angolino della testa. Sicuramente c’è una spiegazione. Dopotutto c’è sempre una spiegazione.

Cercai di calmarmi. Invano. Del resto ero nuda nell’oscurità e non sapevo che cosa stesse accadendo. Come avrei fatto a rimanere calma?

Però dovevo controllarmi. Un attacco di panico non mi avrebbe certo aiutato in quel momento. Dovevo riflettere, dovevo ricordare che cosa fosse successo.

Ma dentro la mia testa affioravano solo brandelli di ricordi slegati. Era come se cercassi di ricostruire un puzzle di cui non conoscevo l’immagine completa.

Ricordavo che ero sulla pista da ballo insieme a Zoe. C’era un gran fracasso, la musica era così alta che sentivo i bassi rimbombarmi nello stomaco. Zoe ballava accanto a me, poi mi aveva gridato qualcosa. Ma non ricordavo che cosa.

Aveva a che fare con una... colonna?

Possibile?

Non lo sapevo.

Allora concentrati! mi ordinò la mia voce interiore. Avanti! Che cosa ricordi ancora?

Per quanto mi lambiccassi, però, non c’era altro. Era tutto. I miei ricordi si interrompevano bruscamente come una pellicola strappata. Un grande buco nero.

E poi ricordavo le voci da mostro. E l’oscurità, quella fottuta oscurità che non sopportavo più!

Forse sto davvero sognando?

Non volevo scartare quella provvisoria spiegazione. Perché tutto il resto non avrebbe avuto senso.

Tuttavia, mentre sognavo, non mi era mai capitato di pensare in maniera così chiara e logica come in quel momento. Se davvero si trattava solo di un sogno, era il più intenso che avessi mai...

Un rumore mi fece trasalire. Un breve fruscio, poi tornò il silenzio. Ma ero sicura di averlo sentito.

Veramente? domandò la voce interiore in tono piuttosto scettico. Ne sei proprio sicura?

No che non lo ero. Forse me l’ero immaginato. Nelle mie condizioni la fantasia poteva giocare brutti scherzi. Alla fin fine, mi trovavo nuda e indifesa nell’oscurità, per la miseria!

Dopo un altro momento di assoluto silenzio, raccolsi tutto il coraggio, mi inginocchiai e cominciai a tastare cauta per terra. Speravo di trovare le mie cose da qualche parte lì vicino. Almeno la camicia da notte, in modo da non sentirmi più così indifesa. Avevo bisogno di avere qualcosa addosso. Come quando ci si rintana sotto la coperta, che in realtà non offre nessuna protezione, ma se non altro dà un senso di sicurezza.

Le mani però tastarono solo roccia irregolare, che sembrava rivestita da qualcosa simile a uno strato di umido muschio.

Le ritirai disgustata, preferendo non immaginare che cosa avessi toccato in realtà. Di sicuro non erano né una camicia da notte né altri vestiti.

Poi udii di nuovo un rumore.

Non avevo dubbi, c’era qualcosa.

Vicinissimo a me.

Il rumore si ripeté più volte.

Mi dava l’idea di qualcosa di pesante che venisse spinto un pezzo alla volta per terra. O di qualcosa che strisciasse verso di me.

Mi alzai in piedi sgomenta e feci un passo indietro, per allontanarmi dal rumore. Poi un altro e un altro ancora.

Ma mentre indietreggiavo, mi resi conto che non era affatto una buona idea. Senza vedere niente, sarei potuta andare a sbattere contro qualcosa, o peggio, cadere nel vuoto, precipitare e rompermi l’osso del collo. Mi fermai di nuovo.

Accidenti! Se almeno riuscissi a vedere dove mi trovo!

Poi mi venne un altro pensiero. E se non fossi stata l’unica bloccata lì? Se la fonte del rumore fosse stato qualcuno che, come me, era stato lasciato lì dentro al buio? Magari era ferito e per questo riusciva solo a strisciare.

Deglutii, mi feci coraggio e dissi: «Ehi, c’è qualcuno?»

La mia voce era però solo un timido sussurro. Al buio viene automatico parlare più piano, soprattutto quando si ha paura.

«Ehi, mi senti?» Cercai di alzare il tono e di sembrare più determinata e soprattutto non spaventata. «Che cos’hai? Non stai bene?»

Il misterioso fruscio cessò, ma non ottenni risposta.

«Non puoi parlare?»

Niente.

«Smettila con queste stronzate e di’ qualcosa! Una cosa qualunque!»

Ma il silenzio rimase assoluto. Nessuna reazione.

Cominciai a tremare sul serio, e non solo di freddo. La mia paura aumentava sempre di più. Se ci fosse stato qualcuno vicino a me che avesse avuto bisogno di aiuto, quanto meno avrebbe potuto parlare.

Invece non sentivo niente, proprio niente. Solo il mio respiro, che a questo punto era affannato e irregolare.

Oramai il terrore rischiava di sopraffarmi. In quel buio pesto la fantasia galoppava sfrenata senza che io potessi fermarla. Mi voleva far credere che insieme a me non ci fosse un essere umano, bensì un mostro in agguato. Un essere con occhi enormi, come uno di quegli orrendi pesci che vivono nelle profondità degli oceani. Una presenza che si avvicinava di soppiatto.

E poi avvertii veramente qualcosa di freddo che cercava di afferrarmi il piede sinistro.

Lanciai un grido, balzai all’indietro e mi voltai di scatto. Poi mi allontanai incespicando nella direzione opposta. Intanto agitavo le braccia alla cieca intorno a me. Non c’era niente, né una parete, né un maledetto interruttore della luce, niente di niente!

E se all’improvviso il terreno fosse sparito?

Chi se ne frega, gridò la mia paura. L’importante era non farmi più toccare da quella... quella cosa!

Sentivo la pietra bagnata sotto i piedi. Spesso con le dita urtavo qualche sporgenza, scivolavo e riprendevo l’equilibrio all’ultimo istante. L’eco spettrale dei miei ansiti riecheggiava da tutte le parti come da grande distanza.

Che cosa avrei dovuto fare?

Dove sarei dovuta scappare?

Cazzo, non sapevo nemmeno dove fosse il davanti o il dietro!

Tutto a un tratto vidi minuscoli punti di luce spuntare qua e là. Mi circondarono muovendosi nell’aria come insetti, ma sapevo che non erano reali. Erano un parto del mio cervello che non riusciva ad accettare la totale oscurità. Il cervello ha sempre bisogno di nuovi stimoli e quando non li ottiene se li crea da solo. Lo avevo studiato durante una lezione di biologia.

Per questo non dovevo fidarmi delle luci. Nessuna di esse mi indicava la via.

Però non aveva senso continuare a vagare nell’oscurità come un animale spaventato. Era troppo pericoloso.

Mi costrinsi a fermarmi, mi sforzai di calmare il respiro e rimasi in ascolto. Alle mie spalle però non udii alcun rumore. Ero riuscita a scappare dall’essere o dalla cosa che prima mi aveva sfiorato.

Un barlume di sollievo mitigò il mio terrore e mi consentì di tornare a pensare con più lucidità. In quel luogo oscuro c’era qualcuno o qualcosa insieme a me, questo era certo. E anche se non mi aveva inseguito, forse c’erano altre presenze che avrebbero potuto aggredirmi in qualsiasi momento.

Dovevo farmi venire un’idea. Da qualche parte doveva pur esserci un’uscita!

Avrei voluto chiamare aiuto, ma finché non capivo che cosa mi avesse sfiorato prima, se fosse pericoloso o meno, e quante di quelle cose fossero lì con me, era meglio restare in silenzio.

I puntini luminosi continuavano a danzare davanti a me. Erano persino più di prima.

Non farci caso, mi bisbigliò la mia parte razionale. Quelle lucine non esistono.

O forse sì?

Probabilmente mi sbagliavo, ma mi sembrava... no, ne ero quasi sicura, uno di quei punti non si muoveva. Tutti gli altri saettavano in maniera disordinata qua e là, mentre quello restava dov’era. Proprio di fronte a me. Però sembrava lontanissimo, come una stella.

Rimasi a fissarlo per un po’, senza che cambiasse niente. Forse, dopotutto, non me lo stavo immaginando.

D’accordo, non volevo farmi troppe illusioni, ma se non altro adesso avevo un obiettivo. Sarei andata da quella parte per verificare se la luce restava fissa dov’era. Con un po’ di fortuna magari si sarebbe addirittura ingrandita per poi alla fine rivelarmi l’uscita. Era quello che speravo dal profondo del cuore.

Protesi di nuovo le braccia a tastare intorno a me e mi spostai con più cautela. A giudicare dal terreno accidentato e dall’eco, dovevo trovarmi in una specie di enorme caverna e avrebbero potuto esserci anche dei crepacci. Avanzai lentamente, un passo alla volta, anche se mi costava fatica non mettermi a correre. Mi sembrava di somigliare alla statuina sul colmo del tetto del nostro vicino, un omino di terracotta sorridente con la camicia da notte e il lume, con la differenza che io non avevo la camicia da notte e non avevo la minima voglia di sorridere.

Come cavolo ero finita in una caverna? Per di più così enorme? Non aveva alcun senso!

Ma avrei avuto tempo più tardi di domandarmi se fosse tutto vero e come ci fossi finita. Ora l’importante era trovare l’uscita.

Perciò, avanti!

Il cuore prese a battermi più forte quando mi resi conto che la luce davanti a me non era un’illusione. Diventava più grande man mano che mi spostavo e lentamente anche l’ambiente intorno a me si rischiarò. Non riuscivo a vedere ancora niente, ma quella in lontananza poteva essere davvero l’uscita.

Ti prego, ti prego, fa’ che sia così!

Accelerai il passo, facendo attenzione a non scivolare. Il terreno era sempre più umido e sconnesso. Se fossi caduta e mi fossi rotta qualcosa... no, meglio non pensarci. Non quando finalmente ero sulla strada giusta!

Dopo un po’ il puntino di luce, che inizialmente non era stato più grande di una capocchia di spillo, diventò un globo delle dimensioni di una pallina da golf. A poco a poco cominciavo a intravedere, seppure in maniera confusa, quello che avevo intorno.

Dovevo essere in una sorta di galleria di pietra. Le pareti erano scolpite in modo grossolano, piene di spigoli e cavità. Nel fioco chiarore scintillavano umide e nere come ossidiana. Il terreno era ricoperto da una specie di muschio scuro e spugnoso.

Mi domandai se si trattasse di un tunnel ferroviario. No, non era possibile, non c’erano rotaie.

Una miniera?

Qualunque cosa mi venisse in mente, era assurdo. Se non ero rimasta svenuta per ore, eventualità che per qualche motivo mi sembrava di poter escludere, dovevo trovarmi sempre a Fahlenberg, e lì non c’erano gallerie o cavità di questo tipo. A quanto ne sapevo non avevamo nemmeno miniere.

Perciò, dove diamine ero finita?

Non avevo ancora terminato di pormi questa domanda, quando qualcuno mi afferrò per un braccio e mi strattonò di lato. Accadde così in fretta che non ebbi il tempo di reagire.

Lanciai un grido e caddi a terra.

Guardai sgomenta l’uomo che mi teneva il braccio con una forza incredibile, come se la sua mano fosse una tenaglia. Era ancora troppo buio per vederlo con chiarezza, ma mi accorsi che indossava qualcosa di pelle nera e che aveva le mani infilate in spessi guanti neri. Con una mi stringeva saldamente, rischiando di slogarmi una spalla, e con l’altra si aggrappava alla sporgenza rocciosa dietro la quale era stato nascosto fino a un attimo prima.

Quando si chinò verso di me, lo vidi in volto. Avrei voluto gridargli di lasciarmi andare, ma il raccapriccio mi tolse la voce.

La sua faccia! Cielo, la sua faccia! Non l’avrei mai più dimenticata.

Sembrava che fosse stato aggredito da un rapace. La pelle della guancia sinistra non c’era praticamente più. Carne esposta, vasi sanguigni, tendini e ossa, e nel mezzo un globo oculare bianco lampeggiante. L’altro occhio gli mancava.

«No» disse, seguito da un sinistro schiocco gutturale.

Mi girai per liberarmi dalla sua presa, ma lui mi strinse ancora più forte.

«Lasciami! Mi fai male!» gli urlai, ma lui si limitò a scuotere la testa al rallentatore.

«Non... proseguire!» Ogni parola sembrava costargli una fatica immane. «Non verso... la luce!»

Una fitta lancinante si propagò dal mio braccio fino al petto. «Sei sordo? Lasciami, per la miseria!»

Dato che non reagiva, lo colpii a una spalla con il pugno. Lanciò un gemito e finalmente si staccò da me.

Io mi allontanai barcollando, decisa a scappare via, ma fatti pochi passi mi fermai e mi guardai intorno. Tuta di pelle non mi seguì. Si limitò a fissarmi con il respiro affannato.

La sua vista mi turbò profondamente. Era così malridotto! Il rosso scuro della faccia scarnificata scintillava, rendendolo più raccapricciante di qualunque creatura avessi mai visto in un film dell’orrore.

Ma anche se aveva l’aspetto di un mostro e mi aveva quasi slogato una spalla, mi resi conto definitivamente che non era pericoloso. Al contrario, dopo aver superato l’iniziale spavento, percepii la sua paura: sembrava sperduto quanto me.

Mi massaggiai il braccio dolorante e tornai circospetta da lui. «Dove ci troviamo?»

Continuò a fissarmi, come se non avesse una risposta.

«Chi sei? Che cosa ti è successo?»

«Non verso... la luce» ripeté, con un altro schiocco e un gorgoglio disgustoso nel petto.

Preferivo non immaginare quale fosse il suo stato sotto la tuta di pelle. Mi pentivo di averlo colpito. Ma lui non mi aveva lasciato altra scelta.

Indietreggiò da me e si aggrappò alla roccia anche con l’altra mano, quasi temesse di perdere l’equilibrio. Mi resi allora conto che teneva la testa piegata e lo sguardo dell’unico occhio che gli restava era fisso su di me, come se volesse evitare a qualunque costo di rivolgerlo verso la luce.

«Dove siamo?» gli chiesi ancora una volta, indicando verso la luce. «Che cosa c’è là avanti? È l’uscita?»

L’uomo però non rispose. Strisciò all’indietro lungo la parete e scomparve in una fessura buia.

«Resta qui» sentii la sua voce nell’oscurità. «Non... guardare... laggiù!»

Scrollai la testa. Non sarei rimasta lì per nessun motivo al mondo. Volevo andarmene, il più in fretta possibile!

Tuttavia, la sua paura mi turbava.

«Perché non dovrei proseguire? Che cosa c’è laggiù?»

All’inizio ottenni solo un ansito, poi le sue parole rotte e faticose risuonarono sulle pareti di pietra. «Resta... così ti... riporteranno... indietro.»

«Che cosa intendi dire? Accidenti, rispondimi!»

«Devi... cambiare... prospettiva.»

«Cosa? Ma che cavolate vai dicendo? Dimmi una buona volta che cosa sta succedendo!»

Tuta di pelle però rimase in silenzio. Sentivo solo il suo respiro affaticato. Forse non ce la faceva più. A giudicare dalle sue ferite era quasi un miracolo che fosse riuscito a parlare con me. Aveva bisogno di cure al più presto, questo era certo.

Gettai un’occhiata alla fessura nella quale si era rifugiato. Era buio pesto, come all’altro capo della galleria, e non avevo nessuna intenzione di seguirlo lì dentro.

Se volevo fare qualcosa per lui, dovevo pensare prima di tutto a salvare me stessa: solo proseguendo e uscendo da lì avrei potuto chiamare i soccorsi.

Quando glielo dissi, mi risposero solo i suoi gemiti gorgoglianti. Dovevo sbrigarmi. Non avrebbe resistito ancora a lungo.

Mi girai di nuovo verso la fine del tunnel. Mancavano all’incirca cinquecento metri all’uscita, forse qualcosa di più. La luce che brillava laggiù era piacevole e morbida, seppure piuttosto intensa. E qualcosa mi spingeva a raggiungerla.

Perché Tuta di pelle ne aveva tanta paura?

A chi si riferiva dicendo che sarebbero venuti a prendermi, e da dove?

Perché non era corso lui stesso verso l’uscita? Di forze ne aveva ancora abbastanza, dopotutto mi aveva afferrato saldamente. Il braccio mi faceva ancora male dove me lo aveva stretto. Molto male. E avevo un dolore sempre più forte anche al petto: a ogni respiro mi sembrava di essere trafitta dagli spilli.

Doveva essere colpa della caduta, pensai. Strano però, perché avevo battuto un fianco e non il torace, dato che Tuta di pelle mi aveva trattenuto per un braccio.

Non aveva importanza, dovevo proseguire. Dovevo andarmene da lì! La luce entrava dall’uscita e non mi sembrava di vedere niente di preoccupante da quella parte.

Mi misi in cammino, un po’ più lentamente, le braccia strette intorno alla cassa toracica dolorante.

Cavolo, che cosa avevo? Mi faceva un gran male!

Avanti, avanti, non mollare! Ci sei quasi!

Nel frattempo la luce era così accecante che non riuscivo più a guardarla. Ma era proprio la luce del giorno? Poteva benissimo trattarsi di un enorme riflettore. Di sicuro non avvertivo il minimo calore e continuavo ad avere un freddo cane. Soprattutto – e questa era la cosa più strana – alla testa. Era gelata.

Cercai di non perdere di vista l’obiettivo. Una volta superato tutto quanto, ero molto curiosa di ottenere una spiegazione. Io infatti non riuscivo a trovarne nessuna.

All’improvviso qualcosa si mosse sul lato destro della galleria gettando la sua lunga ombra su di me. Mi fermai incerta, mi schermai gli occhi con la mano e cercai di scrutare nel chiarore.

C’era qualcun altro là davanti. A meno di cinquanta passi da me. Vedevo solo una sagoma indistinta controluce, ma doveva trattarsi di una ragazza o di una donna. Era rannicchiata contro la parete e si stringeva con le braccia le gambe piegate.

«Ehi!»

La mia voce riecheggiò sonora dalle pareti, come se avessi usato un megafono.

«Ehi, tu!»

Proseguii lentamente, pensando sempre all’avvertimento di Tuta di pelle. Da vicino mi accorsi che era proprio una ragazza. Non si muoveva, e non mi sembrava pericolosa. Almeno per quanto riuscivo a giudicare in quella luce abbagliante.

Giunta a pochi passi da lei, la vidi alzare la testa. Mi guardò e allora la riconobbi.

Mi bloccai attonita, senza credere ai miei occhi. Non era possibile! Non era assolutamente possibile! Invece era proprio lei.

«Z-Zoe?» balbettai incredula. «Sei proprio tu?»

Era la domanda più stupida che avessi mai fatto a qualcuno. Certo che era lei. Avrei riconosciuto la mia migliore amica dappertutto, con la sua testa spavalda di capelli biondi tagliati corti.

Era accovacciata per terra e si premeva contro la parete, come se volesse fondersi con la roccia. Era nuda, come me. Aveva i capelli ispidi, e gli occhi sgranati erano arrossati dal pianto. Doveva avere una paura terribile.

Barcollai fino a lei, ma prima di riuscire a raggiungerla, fui trafitta da un altro dolore lancinante. Come se un camion mi fosse passato sopra.

Lanciai un grido. Il mio corpo fu scosso da brividi incontrollabili e caddi al suolo.

Maledizione, che male incredibile! Mi rannicchiai per terra assalita dai crampi.

Era come se un elefante mi stesse camminando sopra, poi un altro e un altro ancora. Un intero branco.

E poi percepii una voce. Non era quella di Zoe, bensì di qualcuno che doveva essere molto lontano. Qualcuno che canticchiava ansimando da qualche parte dietro di noi nel tunnel.

«Ha, ha, ha, ha, stayin’ alive, stayin’ alive... ha, ha, ha, ha...»

Continuava a ripetere questo ritornello.

Che cazzo è ’sta roba? gridai, ma la mia voce risuonò solo nella mia testa.

Dopo, la faccia terrorizzata di Zoe spuntò sopra di me. Disse qualcosa che non capii. E poi fui trascinata indietro nel buio. E...

Presenza oscura
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