51.
Una volta da bambina avevo visto un film dell’orrore particolarmente raccapricciante in seconda serata. Ella si era addormentata sul divano accanto a me mentre guardavamo una trasmissione a premi, e io ero rimasta a guardare la tivù da sola.
Era un vecchio film, ma non per questo meno spaventoso. Parlava di misteriosi baccelli dallo spazio dai quali spuntavano strane piante aliene. Tutte le volte che qualcuno nel film si addormentava, le piante si trasformavano nel suo doppio e prendevano il suo posto. Fingevano di essere quella persona e a un certo punto erano diventati così tanti che nessuno sapeva più di chi potersi fidare.
Adesso mi tornò in mente quel film. La Zoe di sotto in soggiorno mi sembrava una di quelle piante. Qualcuna che cercava di imitare la vera Zoe. Ma non era particolarmente brava. Non sapeva le cose che la vera Zoe amava o detestava. Quanto meno non le piccole cose, che erano quelle decisive.
Ovviamente non credevo che si trattasse di un alieno o qualcosa del genere. Ero soltanto sicura che quella ragazza non fosse la mia amica. Doveva esserci per forza una spiegazione logica. Mi ero fatta un’idea, anche se al momento mi sembrava assurda come la storia degli alieni, ma forse sapevo dove avrei potuto trovare una certezza. Mi era venuta in mente quella notte, mentre pensavo a Zoe e alle nostre esperienze condivise.
Il grande vantaggio era conoscere la casa dei Wagner almeno quanto la mia. Arrivata di sopra, non andai a sinistra verso il bagno, bensì presi il lato destro della balconata. Da sotto sentivo i genitori di Zoe che chiacchieravano e dalla cucina mi arrivava il tintinnio delle stoviglie.
Tutti erano impegnati ma in ogni caso non avevo molto tempo. Mi infilai rapidamente nello studio di Rolf Wagner e richiusi con cautela la porta alle mie spalle.
Ero entrata nella zona tabù. Era questo il nome che il papà di Zoe aveva dato alla stanza quando da bambine giocavamo dentro casa.
«Potete giocare dappertutto» aveva detto, «ma non dovete entrare nel mio studio o in quello di Maria.»
Ovviamente non avevamo rispettato il divieto e a volte, quando eravamo sole in casa, avevamo dato un’occhiata in quelle due stanze.
Lo studio del papà di Zoe era sempre stato più interessante, perché la sua mamma era una persona noiosamente ordinata. Rolf Wagner, al contrario, teneva appesi alle pareti progetti e foto dei grandi edifici ai quali lavorava.
Viaggiava molto per il mondo e riportava a casa sempre bizzarri souvenir. Da bambina ero rimasta colpita soprattutto dalle sculture e dagli oggetti intagliati che teneva in mostra sui ripiani. Provenivano dall’Asia, dal Sud America e dall’Africa. Una di queste statuette aveva un’enorme erezione, cosa che Zoe e io naturalmente avevamo trovato molto divertente.
Ma non era questo il motivo per cui ero entrata nello studio. Il mio obiettivo era la grande libreria con i raccoglitori. Per la maggior parte riguardavano il lavoro di Rolf Wagner, ma ricordavo che nello scaffale in basso a destra il papà di Zoe conservava anche album fotografici e documenti personali.
Era ancora così, e il raccoglitore di cui mi ricordavo era al suo posto. Era azzurro e sul dorso c’era scritta un’unica parola: ZOE.
Con gli anni le tre lettere si erano un po’ scolorite. Quando Zoe e io lo avevamo scoperto, la scritta appariva più scura. Ovviamente lo avevamo sfogliato, ma avevamo trovato solo noiosi documenti che da bambine non ci avevano detto assolutamente niente.
Adesso invece morivo dalla voglia di leggere proprio quei documenti.
Tirai fuori il faldone cercando di non far rumore e lo posai davanti a me sul pavimento. Per un attimo rimasi in ascolto per sentire se da sotto provenissero dei rumori, ma nessuno si era ancora insospettito per la mia assenza.
Lo aprii. Nella cartellina di plastica sopra a tutto il resto c’era il certificato di nascita di Zoe. Sotto erano spillati documenti di vario genere. Pagelle scolastiche, attestati sportivi e roba del genere.
Alla fine scoprii dei fogli relativi a una serie di esami clinici. E sul fondo diversi moduli sui quali era stampata la parola che confermava i miei sospetti: Adozione.
Il cuore mi si fermò nel petto. Sebbene avessi sospettato una cosa del genere, mi sentii crollare il mondo addosso. Non ne sapevo niente, né Zoe né i suoi genitori me ne avevano mai parlato.
Zoe ne era al corrente?
Ma non c’era tempo per lo shock o per lunghe riflessioni. Dal pianterreno mi giunsero di nuovo i rumori dalla cucina e le voci dei Wagner. Dovevo sbrigarmi.
Tirai fuori il mio nuovo cellulare per fotografare i documenti. Quello stupido apparecchio faceva un clic tutte le volte che scattavo una foto e io cercai disperatamente il modo di zittirlo.
Finalmente ci riuscii e sfogliai rapidamente il raccoglitore.
Avevo quasi finito quando la porta di colpo si spalancò. Era la falsa Zoe che mi guardava con una tale rabbia negli occhi che per un attimo rimasi senza respiro.
Niente sguardo di ghiaccio, solo collera assoluta.
«Che ci fai qui?» sibilò.
«Tu non sei Zoe» dissi, riponendo il cellulare con la massima disinvoltura nella tasca posteriore dei jeans. «Dimmi chi sei!»
Lei mi guardò confusa e la sua rabbia sembrò trasformarsi in panico. «Ma che, sei impazzita?»
«Dimmelo! Perché fai finta di essere Zoe?»
Alle mie spalle udii dei passi affrettati sulle scale e poi anche Rolf e Maria Wagner entrarono nello studio.
«Che cosa ci fate voi due qui?» domandò il papà di Zoe, con aria sorpresa e contrariata. Poi notò il raccoglitore aperto davanti a me. «Che storia è questa, Nikka? Perché frughi tra i nostri documenti privati?»
«Lei non è Zoe» dissi. «Non è vostra figlia!»
Per un attimo mi guardò allibito, poi si accorse del certificato di adozione che avevo tirato fuori dal raccoglitore.
«No, non è vero» disse Rolf Wagner. «Zoe non è la nostra figlia biologica, ma è sempre nostra figlia.»
«Perché nessuno me lo ha mai detto?» domandai. «Ci conosciamo da tantissimi anni e non sapevo che Zoe fosse adottata.»
«Perché non fa nessuna differenza» rispose Rolf Wagner. «Zoe lo sa da quando era piccola, ma per noi non è mai stato un problema. Per Zoe siamo sempre stati noi i suoi genitori. Non è così, tesoro mio?»
Guardò verso la ragazza che credeva sua figlia. Lei fece un cenno affermativo. «Non volevo rattristarti Nikka» disse, con un tono di finta compassione. «E comunque non avrebbe cambiato niente nella nostra amicizia, giusto?»
«Tu non ti immischiare!» la aggredii. «Preferisco sentire la risposta dalla vera Zoe.»
«Si può sapere di che cosa vai parlando?» disse Maria Wagner scuotendo la testa, allibita. «Hai forse perso del tutto il senno?»
«Non ve ne siete accorti?» ribattei indignata. «È del tutto diversa da prima! Parla in maniera diversa e si comporta in modo strano. Non come Zoe.»
Maria Wagner a questo punto si inalberò. «Ti rendi conto di quello che ha passato nostra figlia? È naturale che sia cambiata. Deve ancora riuscire ad accettare tutto quanto. Tu in particolare dovresti capirlo.»
«Infatti è così. Anch’io sono cambiata, ma non in maniera tanto radicale! Questa ragazza qui ragiona come un’altra. Provi a pensare giusto agli ultimi dieci minuti: a Zoe non sono mai piaciuti i romanzi fantasy, figurarsi se conosceva Saruman. E poi non le avrebbe mai fatto vedere gli Oreo, ma li avrebbe nascosti come al solito sotto il letto, sapendo benissimo quale sarebbe stata la sua reazione.»
La mamma di Zoe aprì la bocca sconcertata. «L’hai sentita anche tu, Rolf? È inaudito!»
«E inoltre» dissi, rivolgendomi direttamente alla sconosciuta, «la mia vera amica del cuore avrebbe saputo che detesto le tisane. La vera Zoe non me ne avrebbe mai offerta una. E se fossimo state obbligate a portare una tisana in camera sua, l’avremmo versata di nascosto sulle piante.»
«Basta così, Nikka!» ordinò severo Rolf Wagner. «Ti chiedo di uscire subito!»
«Perché non volete credermi?» esclamai. «Vi sarete accorti anche voi che c’è qualcosa che non va in quella lì!»
«Signorina, quella lì è sempre mia figlia!» mi gridò la mamma di Zoe.
«Invece no!» protestai con altrettanta veemenza.
Maria Wagner scosse la testa abbattuta. «Nikka, devi aver perso la ragione. Che cosa ti succede?»
Presi la mano sinistra della falsa Zoe e la sollevai. «Dov’è il tuo braccialetto dell’amicizia?»
Lei sottrasse bruscamente il braccio dalla mia stretta. «L’ho perduto» disse con un filo di voce.
«Non è vero! Non ce l’ha mai avuto perché non sei la vera Zoe! Allora, per la miseria, chi sei? Dov’è la vera Zoe? Che cosa le hai fatto?»
La mia falsa amica si aggrappò alla mamma di Zoe e scoppiò a piangere. Maria Wagner l’abbracciò e le accarezzò la testa. Poi si girò per rivolgermi un’altra serie di rimproveri, ma il marito la bloccò.
«Basta così!»
Non avevo mai visto Rolf Wagner tanto infuriato. I suoi occhi sembravano letteralmente lanciare scintille.
«Non so che cosa ti sia successo, Nikka, ma adesso basta. Esigo che te ne vada immediatamente da casa nostra.»
«Ma non ve ne rendete conto?» insistetti disperata. «Lei non è...»
«Fuori di qui!» mi urlò. «In futuro lascerai in pace nostra figlia. Non voglio mai più vederti qui. Hai capito?»