30.
Era successo quando andavo in prima media e il ricordo mi avrebbe perseguitato a lungo. Soprattutto le grida. Erano state la cosa peggiore.
Una mattina poco prima delle vacanze estive, durante l’ora di educazione fisica, avevamo giocato a basket con le ragazze della classe parallela. Come sempre la nostra professoressa, la signora Berger, aveva fatto l’arbitro.
Era giovane e in gamba e ci piaceva molto. Era sempre disposta ad ascoltarci. Non ci insegnava soltanto quanto fosse importante lo sport e un’alimentazione sana, bensì anche che nella vita sono fondamentali l’amicizia e la lealtà e che non dovevamo farci mettere i piedi in testa in questo «mondo maschile», come lo chiamava lei. «Il fatto che si riesca a far pipì in piedi non rende una persona più furba o più forte» era solita dire, motto che una studentessa di seconda aveva immortalato come graffito nel bagno delle ragazze.
Quando la signora Berger lo aveva saputo, ci aveva riso su. Il custode invece no. Il signor Müller aveva coperto la scritta con della pittura, ma le lettere erano sempre visibili: la verità trova sempre il modo di venire alla luce.
Quel giorno la nostra squadra non era stata particolarmente brillante. Oltre a me c’erano altre tre ragazze nel gruppo che a stento arrivavano al metro e sessanta. Le nostre avversarie al contrario erano tutte piuttosto alte. Ci sopraffacevano senza difficoltà e si impossessavano quasi sempre della palla, infilando un canestro dopo l’altro.
Tuttavia era divertente e ci impegnavamo a fondo per fare in modo che la nostra sconfitta non fosse troppo umiliante.
A un certo punto, in mezzo alla partita, la signora Berger aveva cominciato a soffiare come una pazza nel fischietto. Stupite, ci eravamo bloccate e l’avevamo guardata. Nessuna di noi riusciva a capire perché lo facesse. Non c’era alcun motivo di interrompere il gioco.
E poi, all’improvviso, si era lanciata sulla ragazza che teneva la palla. Gliel’aveva strappata di mano e aveva attraversato di corsa la palestra. Intanto continuava a fischiare, con tanta forza da rischiare di spaccarci i timpani. In volto era paonazza e aveva gli occhi sbarrati, come non mi era mai capitato di vedere nessuno prima di allora.
Corse senza rallentare verso la parete opposta e solo all’ultimo istante girò il busto di lato e colpì il rivestimento di legno con la spalla.
Ci fu uno schianto raccapricciante e tutte pensammo che si fosse rotta qualcosa. Invece lei si fermò solo un secondo, fece una giravolta verso di noi e sputò il fischietto come un neonato sputa il ciuccio.
E poi cominciò a urlare. Erano grida spezzate e spaventose che non avevano niente di umano. Somigliavano a quelle di un animale torturato.
Sgomente, quattro ragazze la schivarono e noi ci stringemmo impaurite le une alle altre. Ogni grido ci faceva sussultare. Non riuscivamo a capire che cosa stesse succedendo. Era come se all’improvviso un altro essere fosse entrato nel corpo della nostra amata professoressa, si fosse impossessato di lei e avesse avuto un raptus.
Una delle ragazze accanto a me si mise a piangere, ma io non riuscii a voltarmi verso di lei. Il mio sguardo era incatenato a quanto di incredibile stava succedendo. Avevo solo dodici anni e vedere un adulto dare in escandescenze in quella maniera mi terrorizzava.
Le grida della signora Berger si trasformarono in parole, la cosa diventò ancora più inquietante.
«Andate via!» gridò con voce stridula. «Sparite! Andatevene, maledetti farabutti!»
All’inizio pensai che ce l’avesse con noi, che avessimo fatto qualcosa di sbagliato, anche se non sapevo che cosa, dato che ci eravamo limitate a giocare a pallacanestro. Poi la vidi stringere la palla davanti a sé come un’arma e menare colpi a caso.
«Via! Via da me!»
Paralizzate dalla paura e dal terrore, la guardammo difendersi da qualcosa. Qualcosa di invisibile, che solamente lei vedeva. Era sempre di più in preda al panico.
Alla fine lanciò un altro grido, prolungato e singhiozzante, e scagliò la palla lontano da sé, mandandola a sbattere contro la parete di fronte. Poi le mancò la voce e si accasciò sul pavimento piangendo e singhiozzando.
Non sapevo per quanto tempo fossimo rimaste lì a fissare la nostra professoressa distrutta. Forse qualche minuto, forse solo una manciata di secondi, ma a me parve un tempo lunghissimo.
Nessuna di noi osava fiatare. Strette le une alle altre, guardavamo la nostra insegnante che stava rannicchiata sul pavimento come una marionetta inerte. Rideva piano e piangeva nello stesso tempo.
Uno spettacolo orrendo. Non capivo che cosa le fosse successo. Cominciò a balbettare qualcosa, e quando compresi le sue parole, fui assalita da un brivido gelido.
«Sono lì. Sono tutti lì. Per sempre. Per l’eternità!»
A un certo punto arrivò il signor Müller, che aveva sentito le grida dal cortile. Il custode aveva già una certa età ed era la calma fatta persona, ma quando entrò in palestra e vide la signora Berger per terra che balbettava parole senza senso, perse ogni contegno.
«Uscite subito tutte!» ci ordinò, e noi corremmo il più in fretta possibile negli spogliatoi, senza dire nemmeno una parola.
Quando poco più tardi tornammo a scuola, davanti alla palestra c’era un’ambulanza. Dall’interno si sentivano le grida dell’insegnante. Sbraitava che qualcuno doveva toglierle di dosso «le sue luride dita», poi la sentimmo ridere come una pazza.
Nessuna di noi si fermò per vedere che cosa stesse succedendo. Volevamo solamente tornare in classe, dove potevamo sentirci al sicuro.
Nel giro di pochissimo tempo la notizia di quanto era accaduto aveva fatto il giro di tutta la scuola. Nel pomeriggio cominciarono a circolare le prime voci, in particolare si diceva che la signora Berger fosse una tossicodipendente. A quanto pareva aveva assunto una dose eccessiva di qualcosa che l’aveva mandata fuori di testa.
La maggior parte di noi tuttavia non riusciva a crederlo, me compresa. Una fanatica del fitness come lei e le droghe non potevano stare insieme, tanto quanto un vegetariano e un macellaio.
Il mattino dopo venimmo a sapere la verità. Il preside entrò in classe alla prima ora, accompagnato da un uomo più giovane che non conoscevamo, e prese la parola.
«Sicuramente siete rimaste scioccate da ciò che è accaduto ieri» ci disse. «Per questo ho pregato il dottor Peters della Waldklinik di venire a trovarci. Vi spiegherà che cosa è successo alla signora Berger e potrete fargli delle domande.»
Il dottor Jochen Peters era un tipo gentile e carino sulla trentina. Lo trovai istintivamente simpatico, perché mi faceva pensare a mio padre e aveva persino il suo stesso nome. Ci spiegò che cosa fosse un tumore al cervello e che spesso purtroppo veniva scoperto solo molto tardi. Poi ci parlò dell’attacco della signora Berger e ci spiegò come si creassero le allucinazioni.
Si sforzò di rendere tutto molto comprensibile. Imparammo così come funzionava il cervello. Un tumore, l’insonnia, le droghe o una malattia metabolica potevano mandarlo in tilt e provocare disturbi psichici.
«Questo vale non solo per gli esseri umani» aggiunse. «Ogni essere vivente con una struttura cerebrale complessa può soffrire di allucinazioni.»
Tali disturbi spingevano le persone colpite a dire o a fare cose che altrimenti non avrebbero mai detto o fatto. Oppure a percepire, vedere, annusare o sentire qualcosa che non esisteva, pur avendo l’assoluta convinzione del contrario. In genere era qualcosa di spiacevole che provocava disgusto o paura. Un odore o un sapore cattivo, voci malvagie o qualcosa contro cui ci si difendeva con un pallone da basket.
«Quando le nostre funzioni cerebrali sono squilibrate, a loro volta le nostre funzioni cognitive perdono il controllo» ci spiegò. «Ed è proprio ciò che è successo alla vostra professoressa.»
Non vedemmo più la nostra insegnante Berger. Sei mesi più tardi il preside ci diede un giorno di vacanza per il suo funerale.