32.
«Nikka, che cosa ci fai qui?»
L’infermiera Ramona era chiaramente sorpresa quando mi aprì la porta della terapia intensiva.
«Volevo parlare con il dottor Mehra.»
L’infermiera si strinse nelle spalle dispiaciuta. «Mi spiace, il dottore arriverà soltanto nel pomeriggio.»
Lo sapevo di già. Durante il ricovero mi ero accorta che il dottor Mehra era di turno quasi sempre nel pomeriggio.
«Accipicchia, allora sono venuta per niente» dissi, sforzandomi di sembrare sinceramente delusa. Non volevo mentire, ma non vedevo altra possibilità di entrare nel reparto. Andare a trovare qualcuno non era possibile, era concesso solo ai parenti.
«Che cosa volevi da lui?» chiese l’infermiera.
«Ecco, voleva consigliarmi qualcuno con cui parlare. Uno psicologo o cose del genere. Il dottor Mehra diceva di conoscerne uno bravo.»
«Allora si riferiva di certo al dottor Forstner. Dirige il reparto pediatrico della Waldklinik.»
«Potrebbe darmi il suo recapito?»
L’infermiera si guardò intorno, mentre da qualche parte alle sue spalle squillava un telefono. «Ma certo. Entra un attimo che te lo scrivo.»
Si avviò a passo svelto e scomparve in una stanza sulla cui porta stava scritto Reception di reparto. Prese la telefonata e mi fece segno di aspettare attraverso la porta a vetri.
Proprio quello che avevo sperato. C’era sempre molto da fare lì dentro e nessuna infermiera aveva tempo di fermarsi a chiacchierare sulla porta.
Lessi i numeri accanto alle porte scorrevoli della terapia intensiva. Ce n’erano dieci e iniziavano tutti con un sei, perché eravamo al sesto piano. Io ero stata ricoverata nella 604, la 603 era proprio lì accanto. Lanciai un’ultima occhiata all’infermiera che era sempre al telefono e stava sfogliando un raccoglitore, poi mi allontanai lungo il corridoio ed entrai nella stanza.
Anche qui, come nella mia, non c’erano finestre e la luce sul soffitto era spenta. Nella penombra mi accolse il consueto suono dei macchinari e il soffio del ventilatore meccanico. Da lì partiva un grosso tubo trasparente che arrivava a qualcuno sdraiato sul letto. Mi avvicinai e scorsi un uomo con la testa fasciata come una mummia. Tuttavia mi sembrò di capire che avesse un solo occhio e che quasi tutta la pelle del viso fosse stata strappata via.
Tuta di pelle! Lo avevo trovato.
Il cuore accelerò i battiti; alzai la testa e vidi l’ombra nell’angolo. Stavolta era chiarissima e nitida e non lasciava spazio a dubbi. Era la sagoma di un uomo alto.
Era dietro il comodino e sembrava indicare con una mano una foto incorniciata lì sopra. Raffigurava un uomo giovane – sicuramente il paziente sul letto – che sorrideva in giardino abbracciando una donna e un bambino piccolo.
Le due persone sulla foto mi risultavano familiari e dopo un attimo mi tornò in mente dove le avessi già viste. Ci eravamo incontrati al pianterreno e poi eravamo saliti insieme in ascensore. Il bambino aveva cercato di consolare la mamma che piangeva e adesso sapevo anche perché. Inoltre lessi anche il nome di Tuta di pelle. Era scritto su una lavagna appesa al letto.
Malte Schuster, nato il 4 agosto 1986.
«Che cosa vuoi da me?» bisbigliai all’ombra. «Perché mi hai fatta venire qui?»
«Ah, eccoti!»
Mi voltai spaventata verso l’infermiera Ramona.
«Scusa, non volevo spaventarti» disse, poi indicò verso il letto. «Non sapevo che conoscessi il signor Schuster.»
«Solo di vista.» Speravo non mi chiedesse altri particolari. «Che cosa gli è successo?»
L’infermiera gettò un’occhiata compassionevole al paziente bendato. «È stato coinvolto in un maxitamponamento in autostrada. Pioveva forte, lui era in moto e non si è accorto dell’incidente che si era verificato poco più avanti. Un vero macello, con diverse vittime. Quattro, a quanto ne so.»
«Quando è stato?»
L’infermiera aggrottò la fronte. «Fammi pensare. Mercoledì sera, sì. Poco prima del tuo arrivo.»
Pensai a ciò che mi aveva detto il dottor Mehra. Che a causa di un incidente sull’autostrada gran parte dei mezzi erano già stati allertati. Per questo era passato tanto tempo prima che i soccorritori arrivassero da me.
«Quando è stato ricoverato indossava una tuta da motociclista nera?»
L’infermiera Ramona si strinse nelle spalle. «Non saprei. È arrivato qui dalla chirurgia d’urgenza. I vestiti glieli tolgono prima. Perché me lo chiedi?»
«Così.»
Tornai a guardare il letto, poi la foto sul comodino e l’ombra lì dietro. Non era un’allucinazione e nemmeno una coincidenza.
«Tieni» disse l’infermiera porgendomi un biglietto da visita. «Ecco l’indirizzo del dottor Forstner. Digli pure che ti mandiamo noi, e vedrai che ti darà un appuntamento in fretta.»
«Grazie.»
Mi infilai il biglietto in tasca e d’istinto cercai il cellulare che ovviamente non c’era.
«Potrebbe farmi un altro piacere, infermiera? Una cosa da poco.»
«Certo, di che cosa si tratta?»
«Ce l’avete ancora un elenco telefonico?»