7.
Ella venne a trovarmi a mezzogiorno. Aveva un’aria un po’ più riposata della sera precedente, ma era comunque piuttosto sconvolta. Ciononostante si sforzò di apparire serena e disinvolta, e di darmi la sensazione che tutto fosse a posto. Vederla in quello stato mi straziò il cuore.
Mi resi conto di sentirmi in colpa. In colpa perché stavo così male, perché Zoe e io avevamo commesso un grave errore. Se non fossimo andate alla festa, non sarebbe accaduto nulla.
Era un’idiozia, però. Non era la festa il colpevole. Non era Zoe e nemmeno io lo ero.
Tornai a provare una violenta collera. Se solo avessi potuto mettere le mani addosso a quel porco! Si rendeva conto di quanta sofferenza stava provocando a me e a Zoe e alle nostre famiglie? Probabilmente non gliene fregava niente.
«Guarda che cosa ti ho portato.» Ella tirò fuori dalla borsa una confezione di praline. «Sono quelle ripiene all’arancia che ti piacciono tanto. Il dottore ha detto che puoi mangiarle.»
«Grazie.» Mi sforzai di sorridere. «Che pensiero gentile, Ella. Magari più tardi.»
«D’accordo, però promettimi che le mangerai, va bene? Tutte le volte te ne porterò delle altre. Sei così pallida e smagrita.»
«Promesso.» Cercai di nuovo di sorridere.
Lei posò la scatola di cioccolatini sul comodino accanto a tutto quello che mi aveva già portato: un crocifisso e le immagini incorniciate di padre Pio e della Madonna. Sapevo che lo aveva fatto a fin di bene, ma la loro vista mi rendeva ancora più furibonda.
Se quei tre esistevano davvero, perché non mi avevano protetto? Dov’era il buon Dio, al quale Ella credeva con tanta convinzione, o gli angeli custodi di cui mi parlava sempre quand’ero piccola?
Avrei voluto raccontarle che cosa ci aspettava in realtà dall’altra parte. Che lì non avevo visto né il buon Dio né Gesù Cristo, bensì qualcosa che mi aveva messo una paura tremenda. Qualcosa a cui non volevo mai, mai, mai più pensare.
Ma sarebbe stato ingiusto sfogare la rabbia su di lei. Ella non c’entrava proprio niente.
L’ingresso dell’infermiera nella camera mi strappò ai miei pensieri.
«Ecco il pranzo» disse sorridendo. Mi augurò buon appetito e se ne andò.
Tolsi il coperchio dal vassoio. C’era una specie di purè, probabilmente perché deglutivo ancora a fatica. Sembrava che il cuoco avesse vomitato sul mio piatto. Quando l’odore del cibo mi arrivò nel naso, rischiai di fare lo stesso anch’io.
Non riuscii a mandare giù neppure un boccone, ma Ella mi costrinse a mangiare almeno il dessert. Facendo un grande sforzo su me stessa presi una cucchiaiata di gelatina dolce e appiccicosa.
Una ventina di minuti più tardi l’infermiera mi liberò dal tormento portandomi a fare degli esami. Mi condusse nel reparto di neurologia dove mi avrebbero sottoposto ad alcuni test.
Il neurologo si chiamava dottor Sander. Era un nerd sulla quarantina. «Interessante» sembrava essere uno dei suoi commenti preferiti. Immaginavo che fosse stato uno di quelli che a scuola durante l’ora di biologia non vedevano l’ora di sezionare occhi di mucca o rospi e di cincischiarli per ore.
Dapprima controllò la mia reattività e i miei riflessi che trovò costantemente «interessanti». Lo stesso fu per le mie onde cerebrali, per misurare le quali mi fece indossare una specie di cuffia piena di cavi collegati a un computer. Dopo mi sottopose a una risonanza magnetica dell’encefalo infilandomi in una specie di tubo che riproduceva sezioni cerebrali variamente orientate. Quando venivano trasmesse sul monitor del dottor Sander, sembravano un videoclip colorato. Anche questo risultato fu giudicato «interessante».
«Che cosa vuol dire di preciso?» gli chiesi facendolo sussultare. Si girò verso di me come se si fosse reso conto solo in quell’istante che al cervello sul suo monitor era collegato un essere umano.
«Vediamo» disse togliendosi gli occhiali e strofinandoli con un fazzoletto di carta. «Non hai nessun danno neurologico. I riflessi e le reazioni sono nella norma.»
«Quindi è tutto a posto, giusto?»
«Sì certo» balbettò il dottore inforcando di nuovo gli occhiali. «È un risultato un po’ insolito quando un cervello rimane senza ossigeno per più di dieci minuti. Voglio dire, nel tuo caso si è trattato di un intervallo di tempo doppio. Ma il tuo soccorritore ha fatto proprio tutto come si deve. Il massaggio cardiaco ha assicurato la giusta irrorazione di sangue al cervello. E nel tuo sangue probabilmente c’era ancora una quantità di ossigeno sufficiente. In genere è tra il venti e il trenta per cento, ma nel tuo organismo deve essere stato di più. Pratichi qualche sport?»
«Nuoto.»
«Regolarmente?»
Annuii.
«A livello amatoriale o agonistico?»
«Ho ottenuto il brevetto d’argento e vorrei partecipare ai campionati regionali.»
«Ah» commentò il dottor Sander. «Interessante. Di sicuro come nuotatrice hai imparato a utilizzare in maniera più efficiente le riserve di ossigeno rispetto a chi non pratica alcuno sport. E questo anche quando sei in uno stato di incoscienza. È qualcosa che diventa automatico dopo un po’. Potrebbe dipendere da questo. E di certo anche dal fatto che il tuo cervello è stato raffreddato.»
Lo guardai perplessa. «Raffreddato?»
«Esatto. Messo sotto ghiaccio, per così dire.» Fece un sorrisetto che stava a significare chiaramente io-so-qualcosa-che-tu-non-sai, e questo lo rese ancora più insopportabile. «Il dottor Mehra non te l’ha detto?»
«No, che cosa?»
«Il ragazzo che ti ha rianimato era un vero professionista. Ti ha avvolto la testa nel ghiaccio portando così il tuo cervello a una temperatura inferiore a 32 gradi. In questo modo il decadimento dei neuroni è stato rallentato. Nel tuo caso è riuscito a bloccare completamente la necrosi. Interessante, non trovi?»
«Sì» mormorai. «Molto interessante.»
«Lo dicevo io» commentò raggiante. «Ma c’è una cosa ancora più interessante.»
Tornò a spingere la sedia verso il monitor e indicò le immagini colorate che rappresentavano una sezione trasversale della mia testa. Erano ancora in movimento e sembrava che il mio cervello sbocciasse e poi si richiudesse su se stesso come un fiore in modalità accelerata. A guardare meglio riconobbi la forma esterna del mio cranio e i globi oculari simili a palline da ping-pong cave in mezzo al triangolo sporgente del naso. E ovviamente riconobbi il mio cervello.
Mi venne da pensare che in quell’organo risiedeva tutta la mia personalità. Ogni pensiero, ogni ricordo, ogni emozione che avessi mai provato. Amore, gioia, dolore, sofferenza, privazione, in una parola: tutto.
E pensare che quell’immagine era abbastanza anonima. Sembrava l’interno di una noce con la differenza che i due emisferi cerebrali sul monitor erano a colori.
«Questa è l’immagine della tua testa» spiegò il dottor Sander, come se non lo avessi già capito da sola. «Le zone colorate evidenziano l’attività cerebrale. Più il colore è freddo, più le funzioni sono basse. Nel caso di morte cerebrale l’immagine naturalmente sarebbe nera, mentre in un paziente in coma, per esempio, i due emisferi sarebbero prevalentemente blu e viola.» Si girò di nuovo verso di me. «Fin qui è tutto chiaro?»
Io sospirai spazientita e indicai il monitor. «Nel mio cervello invece prevale giallo, rosso e arancione.»
«Appunto» ribatté con un sorriso. «Soprattutto molto arancione. In certi punti persino un livello insolito di rosso. Ed è proprio questa la cosa interessante.»
«Ma perché? Se ho capito bene, è del tutto normale, giusto?»
Il suo sorriso assunse una lieve sfumatura di biasimo. «Normale sarebbe meno rosso e arancione e più giallo. Quello che voglio dire è che dimostri una attività cerebrale superiore alla norma.»
«Ho capito» mormorai, tornando a guardare le immagini. «Ed è positivo o negativo?»
«È interessante» rispose il dottor Sander. «Evidentemente l’incidente ha stimolato l’encefalo. Non è dannoso, se è questo che vuoi sapere. È solo che non mi capita spesso di trovare pazienti con un’attività cerebrale tanto elevata. In ogni caso, non compiendo dei test in condizioni normali. I tuoi livelli sono quelli di chi sta cercando di risolvere un calcolo complesso mentre si tiene in equilibrio su una fune. Tutti i tuoi sensi risultano attivi e in misura superiore alla media.»
«Però io non mi sento affatto così» dissi. «Mi sento del tutto normale, come sempre. Certo, date le circostanze.»
Il neurologo mi guardò come se all’improvviso mi fossero spuntate le antenne sulla testa o mi fosse venuto un terzo occhio.
«Interessante» mormorò, quasi parlando tra sé. «Peccato non avere esami precedenti da confrontare.»
La mia rabbia continuava a crescere. Per lui ero semplicemente un’interessante cavia da laboratorio.
«E questo che cosa significa? È tutto a posto oppure no?»
«Sì.» Alzò le mani in un gesto di resa. «Tutto a posto, sì. Anzi, ritengo che tu abbia avuto un’enorme fortuna. Se nei prossimi giorni dovessi notare qualcosa di insolito, informami subito. Mi piacerebbe esaminarti ancora.»
«Perché trova il mio cervello interessante» ribattei sarcastica.
«Esatto. Vorrei sapere che cosa lo stimola tanto.»
Sbuffai di collera. «Forse il fatto che ero morta e che la mia amica del cuore è stata rapita. Questo le è chiaro?»
«Certo, e mi dispiace molto» disse, anche se il suo tono era tutt’altro che comprensivo. Continuava invece a osservarmi con aria critica. «Ma credo che ci sia anche qualcos’altro. Forse qualcosa di inconscio?»
Avrei potuto dirglielo, ma in quel caso mi avrebbe subito rinchiuso in manicomio.