19.

Avrei voluto dare subito la buona notizia a Ella, ma non avevo più il cellulare e non mi ero procurata nemmeno una carta telefonica per chiamare dalla mia camera. Babsi era al telefono da un sacco di tempo, a quanto pareva con una sua amica del gruppo della dieta, e ai pazienti era vietato usare il telefono delle infermiere. Quindi mi toccò chiedere all’accettazione nell’atrio.

L’impiegata allo sportello mi guardò come se fossi uscita da una macchina del tempo. Non aveva mai incontrato una sedicenne senza cellulare, almeno non in questo millennio.

Dopo averle promesso che avrei fatto in fretta, chiamai Ella perché venisse a prendermi. Poi decisi di sfruttare il tempo che mi mancava per tornare a trovare Cordelia.

L’anziana signora mi era simpatica e volevo parlare un’ultima volta con lei. Volevo raccontarle del mio incontro della notte precedente e dell’angolo buio nella mia camera. Era bello sapere che almeno una persona mi credeva.

Di fianco all’ascensore c’erano una signora con il figlioletto. Il bambino stava attaccato alla mamma e le teneva stretti i fianchi con entrambe le braccia. Avevano un’aria spaventosamente affranta.

Quando salimmo insieme in ascensore, la donna mi voltò le spalle e la vidi sussultare.

«Non piangere, mamma» bisbigliò il bambino che continuava a stare avvinghiato a lei. «Per favore, non piangere più.»

La donna lo cinse con un braccio e lo strinse ancora di più a sé. «Passa subito» mormorò con voce rotta.

Mi venne in mente Ella, quando per settimane eravamo venuti a trovare mio nonno ogni giorno in quell’ospedale. Finché un mattino se n’era andato.

Arrivati al quinto piano, scesi e mi voltai un’ultima volta verso di loro. La signora non fece caso a me, ma il bambino mi rivolse una breve occhiata. Aveva un’espressione triste e sperduta.

Avrei voluto parlargli della luce che aspettava dall’altra parte la persona che avevano perso o stavano per perdere. Ma rimasi in silenzio, poi le porte dell’ascensore si richiusero.

Mi diressi verso il reparto di degenza privata e trovai la porta della camera di Cordelia spalancata. Notai con stupore che i suoi oggetti personali non c’erano più. La cornice con la foto di nozze non era più sul comodino, il libro che stava leggendo il giorno prima era sparito e il vaso sul tavolo era vuoto.

«Cerchi qualcosa?» domandò una delle due infermiere che stavano rifacendo il letto.

«Vorrei parlare con la signora Gerlach.»

«Sei una sua parente?»

«No, soltanto una...» Ero stata sul punto di dire amica, ma in realtà non conoscevo Cordelia fino a quel punto. Perciò mi limitai a rispondere «una conoscente».

«Sì, ti ho vista anche ieri» disse la seconda infermiera, chiaramente più giovane della collega. «Sei la ragazza di Sascha, vero?»

Rinunciai a precisare che non lo ero e mi limitai ad annuire.

L’infermiera più giovane posò da una parte la federa e mi guardò con compassione. «Lei non ve l’ha detto?»

«No. Che cosa?»

«È stata trasferita all’hospice stamattina.»

Deglutii e fissai il letto vuoto. Una struttura per malati terminali, pensai mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime. Ecco che cosa aveva voluto dire ieri, accennando che presto sarebbe stata di nuovo insieme al marito.

«Mi spiace che tu debba saperlo in questo modo.» Il viso dell’infermiera rifletteva una sincera costernazione. «Evidentemente non voleva che lo sapeste. Ma è così. D’altronde è molto anziana.»

Mi tornò in mente la definizione che Cordelia aveva dato di se stessa. Una vecchia che ha goduto la vita a piene mani.

«Sì» bisbigliai e mi asciugai le lacrime. «È vero.»

Era proprio come aveva detto Cordelia. Chi prima, chi dopo. Ma il fatto di esserne consapevoli non rendeva la cosa meno dolorosa.

Prima di andare via, guardai un’ultima volta nell’angolo della stanza dove era stata in attesa l’oscura presenza.

L’ombra era scomparsa.

Presenza oscura
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