29.

Era passata mezzanotte e mi rigiravo ancora nel letto. La pioggia tamburellava lieve contro i vetri come tante dita e, sebbene in camera mia facesse caldo, ero intirizzita. Inoltre ero sfinita e morivo dal sonno. Le costole mi facevano ancora male e mi sentivo fiacca in tutto il corpo come mi capitava solo dopo un allenamento di nuoto intensivo.

Nonostante tutto non riuscivo a dormire. L’ansia per Zoe, la visita al club, l’incontro con Jessica e la conversazione con Sascha mi occupavano la mente. Ma soprattutto mi tormentava l’interrogativo sull’identità di chi aveva messo la droga nel cocktail di Zoe.

A quanto ne sapevo Zoe non aveva nemici. Ma anche se non me ne avesse parlato, me ne sarei accorta: dopotutto passavamo insieme gran parte del nostro tempo libero. Ogni tanto litigava a scuola, come tutti, ma erano i soliti bisticci, in genere con altre ragazze, solo di rado con i maschi.

Naturalmente c’era sempre qualcuno che voleva rimorchiarla, e ogni tanto la faccenda era davvero spiacevole, ma si trattava soprattutto di ragazzi per bene. Di uno di loro – Ben, diminutivo di Benjamin, trasferitosi in Canada all’incirca da un anno con i genitori – Zoe aveva addirittura detto che era un peccato che non fosse una ragazza. Le piaceva per davvero.

In effetti Zoe era una bellezza da sogno che faceva colpo sui ragazzi, e di sicuro non tutti incassavano un rifiuto con la stessa comprensione di Ben. Tuttavia nessuno di loro mi dava l’idea di volersi vendicare di Zoe o di essere in grado di fare una cosa del genere. Nessuno insomma era uno psicopatico.

Di questo Zoe mi avrebbe parlato sicuramente.

Chiunque fosse il responsabile, non apparteneva al nostro ambiente. Inoltre doveva essere o del tutto imbecille o del tutto spietato. In fin dei conti aveva rischiato di far morire la mia amica.

Mi domandai se non fosse stata quella la sua vera intenzione.

Quasi sicuramente no, giusto?

In ogni caso speravo che se la fosse fatta sotto per la paura vedendo l’effetto che aveva avuto su di me la sua droga di merda. Che cosa gli era passato per la testa quando si era accorto che avevo rischiato di crepare per colpa sua? Ero pronta a scommettere che se ne fosse reso conto.

Ma allora, quali erano state le sue vere intenzioni?

Se avesse voluto mettere fuori gioco Zoe per farle chissà cosa, avrebbe dovuto seguirla dopo averle dato il cocktail. Dopotutto non poteva sapere quando lei lo avrebbe bevuto e quando la droga avrebbe fatto effetto.

Ma in questo caso non avrei dovuto notare la sua presenza?

Frugai tra i ricordi per l’ennesima volta, senza trovare niente. Ero stata distratta dal tipo con la maschera di Pinhead, e quando Zoe era venuta da me e si era sentita male, ero stata troppo preoccupata per lei per badare alle persone intorno a noi.

Di sicuro potevo escludere Pinhead, dato che era stato con me per tutto il tempo.

E quello zombi?

Se Pinhead non aveva mentito, e secondo me era stato troppo ubriaco per riuscirci, anche quel Rob era escluso dai sospettati, visto che in quel momento stava avendo un tête-à-tête con un cesso.

E allora? C’era stato qualcun altro?

No, nessuno mi era sembrato sospetto.

Maledizione!

Ero in un vicolo cieco e questo mi rendeva ancora più furiosa.

Fui assalita da un altro brivido di freddo e mi tirai la coperta fin sotto il mento. Il lampione davanti alla finestra proiettava l’ombra della pioggia sul soffitto. Erano come grosse lacrime che lo percorrevano. Ma all’improvviso si aggiunse un’altra ombra, e stavolta compresi subito che cosa fosse. Anzi, più precisamente chi fosse.

Balzai a sedere, accesi l’abat-jour e guardai verso il soffitto. Tuta di pelle indietreggiò strisciando e si portò un braccio davanti al viso. Dovevo averlo accecato.

Ben gli sta, pensai rabbiosa. Questo non è posto per te.

A ogni apparizione il suo aspetto peggiorava. La faccia maciullata era ricoperta da una crosta rossiccia. Sembrava fango rappreso su un teschio. Era anche dimagrito e la tuta di pelle gli pendeva dal corpo. Persino i guanti sembravano di una taglia troppo grandi.

Si sta disfacendo, pensai e provai un conato di vomito che repressi con fatica.

Ma anche se la sua vista era raccapricciante, non mi faceva più paura. Se avesse avuto davvero intenzione di farmi qualcosa, lo avrebbe fatto già da tempo. La sua presenza mi innervosiva e basta.

«Non puoi lasciarmi in pace una buona volta?» gli chiesi spazientita, parlando a bassa voce per non svegliare Ella. La sua camera era proprio sotto la mia. «Vattene. Ho già abbastanza problemi di mio.»

Lui abbassò il braccio, mi fissò dal suo unico occhio e scrollò il capo. In quel poco che restava della sua faccia, colsi qualcosa che non mi aspettavo assolutamente: rammarico.

Sembrava quasi che gli dispiacesse essere lì.

«Non vieni da me di tua volontà, vero?»

Lui scosse di nuovo la testa.

«Allora dipende dal fatto che ci siamo... incontrati dall’altra parte?»

Annuì e a me tornò in mente ciò che Cordelia aveva detto sulle fotografie e i ricordi, sui souvenir e in un certo senso anche su di lui.

«Quindi sono stata io a portarti qui da laggiù?»

Parve pensarci per un attimo, poi si strinse nelle spalle.

«Ho capito.» Feci un profondo sospiro, scostai la coperta e mi misi seduta sul ciglio del letto. «Se ti aiuterò, scomparirai?»

Lui annuì.

«Promesso?»

Annuì in maniera più energica e io non potei fare altro che credergli.

«D’accordo, allora dimmi che cosa vuoi.»

Si spostò qua e là per il soffitto, inquieto e indeciso. Poi si passò un dito sul collo e indicò la propria bocca senza labbra.

Conoscevo quel gesto. Kamil, il fruttivendolo dove spesso andavamo a fare la spesa Ella e io, lo faceva tutte le volte che qualche nuovo cliente cercava di chiacchierare con lui.

«Sei muto?»

Un altro cenno affermativo.

«Ma nel tunnel mi hai parlato.»

Alzò le mani, quasi a scusarsi, poi si indicò la gola.

Avvertii un sapore acidulo in bocca quando compresi. Le sue corde vocali stavano subendo la stessa sorte del suo corpo. Anch’esse si stavano seccando e deteriorando. Dopotutto avevo di fronte un morto, per quanto potesse sembrare un’idea assurda.

Tuta di pelle strisciò verso di me, poi si fermò e protese le braccia. A causa del suo stato, somigliava a una goffa pantomima e non avevo la più pallida idea di che cosa volesse mostrarmi.

«Scusa, ma cosa significa?»

Dovette ripetere il gesto più volte, finché mi si accese una lampadina.

«Andare in motocicletta?»

Annuì con foga. Poi disegnò una forma nell’aria che riconobbi subito, o quasi, perché quando dissi «casa» scosse la testa.

«Senti, a me sembra una casa» dissi.

Lui ripeté il gesto, con più enfasi.

«Scusa, ma per me resta sempre una casa.»

Si strinse le spalle rassegnato, come se non gli venisse in mente nessun’altra idea per farsi capire.

Mi sembrava di essere tornata bambina, quando Ella e io giocavamo a indovinare le parole. Non ero mai stata brava in quel gioco. «È una casa particolare?»

Tuta di pelle annuì e indicò se stesso.

«È casa tua

Un altro cenno affermativo, questa volta energico, poi cominciò a battere il dito velocemente sul soffitto. Lo aveva fatto già la volta precedente e quella prima ancora.

Voleva comunicarmi qualcosa. Ma che cosa?

Mi tornò in mente ciò che mi aveva detto nel tunnel. «Devi cambiare prospettiva

Alla fine credetti di capire. Nel tunnel aveva cercato di spiegarmi che eravamo dall’altra parte, in un luogo dove potevano andare solo i morti, e che ciò che fino ad allora io avevo ritenuto normale, in quel posto non valeva più.

E se fosse stato così anche adesso? Se anche adesso la sua prospettiva fosse stata diversa da quella dei vivi? A me poteva sembrare che fosse appeso a quattro zampe al soffitto, mentre per lui era l’esatto contrario. Dal suo punto di vista ero io quella seduta su un letto sul soffitto che guardava in basso verso di lui.

«Si tratta di qualcosa sul pavimento? Dal tuo punto di vista, cioè?»

Con l’indice e il pollice fece il segno di okay che conoscevo dal corso di immersione. Mi sembrò di scorgere un sorriso soddisfatto sul suo viso, un vero sorriso che non derivava solo dalla dentatura scoperta, ma che raggiungeva anche l’occhio superstite.

Poi cominciò a gesticolare con l’indice, lo strusciò sul soffitto, come se scrivesse qualcosa.

Osservai con attenzione i suoi movimenti. Continuava a ripetere tre segni.

«La prima è una G?»

Lui scosse la testa e batté con impazienza il punto davanti a sé. Per un istante ebbi paura che Ella potesse sentirlo, poi mi resi conto che non era possibile. Dopotutto potevo vederlo soltanto io.

«Va bene, va bene, ho capito. Non è una G. Fammela vedere di nuovo, stavolta più lentamente.»

Lui lo fece, più volte, e alla fine riconobbi i segni. Non erano lettere, bensì numeri.

«Sei, zero, tre» dissi, e lui confermò esaltato con un altro okay.

Mi alzai dal letto, mi portai una mano alle costole doloranti e corsi alla scrivania. Con mani tremanti staccai un post-it dal blocco e ci scrissi i numeri. Poi tornai a guardare l’uomo sul soffitto.

«Che cosa significano?»

Lui tornò a indicare se stesso, ma questo non mi aiutava molto. Sapevo soltanto che quei tre numeri erano importanti per lui.

Maledizione, se solo potesse parlare!

Fissai costernata il foglietto giallo e mi sforzai di trovare una risposta, ma invano. L’unico risultato fu che tutto a un tratto mi venne una micidiale emicrania.

«Sei, zero, tre» mormorai massaggiandomi le tempie doloranti. «Sei, zero, tre. Oppure è seicentotré?»

Ti rendi conto di quello che stai facendo?

Mi voltai spaventata. Per un attimo credetti che ci fosse davvero qualcuno alle mie spalle, che mi stava parlando. Invece quella che avevo sentito era stata la mia voce, non dietro di me, ma dentro.

Ti rendi conto che hai scritto qualcosa che ti ha comunicato un morto? proseguì imperterrita la mia voce interiore. Qualcuno che non è qui.

Il dolore alle tempie aumentò e all’improvviso fui assalita dalla nausea, come dopo una brutta sbronza. Tornai a guardare il soffitto. Tuta di pelle era scomparso e non c’era più nemmeno la sua ombra nell’angolo.

Non vedi la sua ombra perché lui non è lì, mi spiegò la voce. E non c’è mai stato. Non esiste, né l’ombra, né Tuta di pelle.

Il cranio minacciava di esplodermi. Avevo una gran confusione in testa. Mi sembrava di essermi appena svegliata da un sogno assurdo e di essermi scoperta sonnambula. Oppure di aver fatto da ubriaca qualcosa che normalmente non avrei mai fatto e di essere tornata di colpo sobria.

Mi tremavano le labbra e avevo gli occhi umidi.

E sai perché pensi di vedere quel Tuta di pelle?

Fissai il foglietto che tenevo nella mano tremante, i tre numeri che avevo scarabocchiato in fretta e furia per non dimenticarli. Fino a un attimo prima mi erano sembrati così importanti! Ma adesso... mi mettevano paura.

«Sì» bisbigliai. «Sì, credo di sapere perché lo vedo.»

Allora dillo, insistette la voce. Dillo a voce alta!

«Lo vedo perché...» Feci un profondo respiro e deglutii con forza. Mi bruciavano gli occhi ed ero scossa da un violento tremito. Poi pronunciai con voce bassa e tremante il mio peggior timore. «Lo vedo perché sono allo stremo. Mi immagino tutto perché... sono sul punto di perdere la ragione.»

Il mio io interiore non rispose, ma compresi che era d’accordo, ovvero io ero d’accordo con me stessa.

Mi lasciai cadere sul letto e nascosi il viso tra le mani. Fui sopraffatta da un’ondata di disperazione e scoppiai a piangere.

Che cosa mi stava succedendo, per la miseria?

Era questo ciò che si provava quando si impazziva?

Sapevo che a volte succedeva tutto d’un tratto, repentinamente e senza alcun preavviso. Perché avevo già sperimentato la stessa cosa una volta.

Presenza oscura
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