48.
Per parecchio tempo restammo seduti in silenzio. Ora credevo di capire meglio Sascha. Il motivo per cui era diventato infermiere di pronto soccorso, perché volesse aiutare tutti e perché l’armonia sembrasse così importante per lui.
Dopo un’esperienza del genere, era naturale che fosse così maturo. Perché d’un tratto tutto perdeva rilevanza. Aveva imparato che cosa fosse importante nella vita.
Il suo racconto però mi aveva fatto capire anche un’altra cosa, che decisi di esprimere ad alta voce: «Adesso capisco perché hai fatto amicizia con Cordelia e con me. Perché ti interessava tanto sapere che cosa avessimo vissuto».
Mi guardò incerto. «Che cosa vuoi dire?»
«Sii onesto con te stesso. Dici di non credere alla vita dopo la morte, perché pensi di avere la prova che un aldilà non esista. Però continui a interessartene. E il motivo è molto semplice. La speranza.»
«Speranza di che cosa?»
«Che magari sia possibile. Che il tuo amico non se ne sia andato, ma che continui a esistere in qualche maniera.»
«Certo che continua a esistere» ribatté piccato. «Ma solo nel mio ricordo. Nikka, nel frattempo ho letto tantissime cose sul cervello e sui fenomeni neurologici. E gran parte di quello che mi hai raccontato oggi può essere spiegato facilmente.»
«Davvero? Per esempio che cosa?»
«Prendiamo la storia dell’uomo con la tuta di pelle» disse, sporgendosi verso di me. «Hai detto che ti ha mostrato il numero della sua camera e che in questo modo hai scoperto il suo nome e la sua famiglia. In realtà si trattava semplicemente di un ricordo. Hai sentito che lui era ricoverato nella camera accanto alla tua dopo un grave incidente in moto. Per questo nella tua immaginazione è apparso con quelle terribili ferite da trauma.»
«E come avrei fatto a sentirlo? Quando è stato portato in terapia intensiva io ero ancora in coma.»
«Sono sicuro che avrai sentito parlare delle percezioni inconsce. Anche se non riesci a ricordarlo, è probabile che tu abbia recepito le conversazioni delle infermiere e dei medici vicini a te. E quando hai ripreso conoscenza, l’inconscio si è fatto vivo e ti ha mostrato una qualche immagine di un uomo con una tuta di pelle. Non è niente di nuovo, capita spesso alle persone che si risvegliano dal coma.»
«Secondo te è tutto così semplice?» Lo guardai con aria di sfida. «E come avrei fatto a sapere della motocicletta per bambini? Del regalo speciale che aveva fatto al figlio e che per lui era così importante?»
Sascha scrollò il capo. «Tu non lo sapevi, Nikka. Sei andata a casa sua, dalla famiglia che avevi visto in foto, e tutto il resto è accaduto per caso. Hai fatto due più due, hai tratto una semplice conclusione, nient’altro.»
«Ma perché proprio lui?» insistetti io. «Al reparto di terapia intensiva ci sono diverse camere e sicuramente tutte le persone che lottano tra la vita e la morte hanno qualcosa di non finito che le trattiene e impedisce loro di andarsene.»
«Nikka» replicò guardandomi negli occhi. «La sua camera era proprio accanto alla tua. Probabilmente è per questo che hai avuto più informazioni.»
«Oppure dipende dal fatto che l’ho incontrato veramente» ribattei con convinzione. «Perché eravamo nello stesso luogo nello stesso momento.»
Sascha non rispose e per un po’ ci fissammo in silenzio. Era come se ci trovassimo sulle rive opposte di un fiume. Lui dalla sua parte, io dalla mia, il fiume era la verità che scorreva tra di noi.
«In ogni caso adesso capisco perché non hai mai ottenuto un segno dal tuo amico» dissi alzandomi. «Hai fatto esattamente ciò da cui ti aveva messo in guardia tuo padre: lo hai cercato con troppa intensità, per questo non hai visto niente.»
Si alzò anche lui. «Che cosa vorresti dire?»
«Hai cercato delle spiegazioni, Sascha, delle prove logiche. Probabilmente era del tutto naturale, perché non sei mai stato ancora dove sono stata io. Anch’io prima avrei liquidato tutto come un mucchio di stupidaggini. Ma dopo ciò che ho visto lì, so che non è così. C’è un dopo, forse bisogna viverlo prima per riuscire a concepirlo. Però non voglio importunarti oltre con questa storia. Ti ringrazio di avermi ascoltata e ti ringrazio di aver condiviso con me la tua storia. Sono sicura che da qualche parte esiste ancora qualcosa del tuo amico.»
Detto questo andai alla porta, ma lui mi raggiunse e mi trattenne. «Aspetta, non volevo darti della bugiarda. Non volevo offenderti.»
«Non mi hai offeso, Sascha. Mi hai solo spiegato il tuo punto di vista, e ho capito.»
Stando vicino alla porta sentivo la musica che proveniva da fuori. Bassi ritmati e canto. La voce era molto acuta, non avrei saputo dire se si trattasse di un uomo o di una donna. Non conoscevo il pezzo, ma conoscevo il testo cantato dalla voce.
«Ha, ha, ha, ha, stayin’ alive, stayin’ alive» bisbigliai, pensando con un brivido alla voce che avevo sentito nel tunnel, poco prima di essere strappata con forza dall’altro luogo. «Che canzone è?»
Sascha mi guardò perplesso. «È un pezzo vecchissimo, dei Bee Gees. Di solito lo mettiamo alle feste anni Ottanta. Perché me lo chiedi?»
«Lo cantavi mentre mi rianimavi» dissi. «Te lo ricordi?»
Sgranò gli occhi e sbiancò in viso. «Non puoi saperlo, tu.»
«Invece lo so.»
«Non è... possibile» balbettò. «È del tutto impossibile!»
«E perché?»
Fece qualche passo all’indietro e si appoggiò al tavolo. Intanto continuava a fissarmi con gli occhi spalancati, come se avesse paura di me.
«Che canzone è?» chiesi di nuovo. «Perché la cantavi?»
Lui mi guardò incredulo mentre il pomo d’Adamo gli saliva e scendeva ritmicamente. «Ce lo hanno insegnato durante il corso. Il ritornello ha esattamente il ritmo necessario durante un massaggio cardiaco. Ma...» S’interruppe e scosse la testa.
«Ma cosa?»
«La cantavo quando pensavo di non farcela più. Erano passati almeno quindici minuti ed ero allo stremo. Il ritmo mi ha aiutato a resistere.»
«Quindi significa che io non avrei dovuto sentirla, giusto?»
«Non la metterei proprio così» mi contraddisse, ma non ne era troppo sicuro. «Probabilmente l’hai riconosciuta perché mi hai visto in quel video di YouTube.»
«Non credo proprio» ribattei. «Cantavi sottovoce e nel video non si sente. E non può essere stato nemmeno il mio subconscio a registrarlo, perché il mio cervello era in modalità sopravvivenza. Forse dopo un quarto d’ora si era spento del tutto. Di sicuro non percepivo più stimoli esterni, perché ero morta. Me lo hai spiegato tu stesso, giusto?»
Lui annuì e continuò a fissarmi come se fossi scesa da un ufo. In un certo senso era proprio così. Ero tornata da un altro mondo e nello sguardo di Sascha lessi l’incertezza verso le sue stesse controargomentazioni. Una parte di lui continuava a non voler accettare la cosa, ma non era più convinto al cento per cento del contrario.
«Stanotte ho visto Zoe» ripetei lentamente, dando enfasi a ogni parola. «La vera Zoe. È in pericolo e ho bisogno del tuo aiuto. Devo scoprire che cosa sta succedendo. Che fai, sei dalla mia parte oppure no?»
In quel momento la porta fu spalancata. Toni entrò di slancio e rischiò di travolgermi.
«Ehi, piccioncini, fate una pausa! Ho bisogno del dj alla sua postazione. Tra un’ora si aprono le danze qui.»
«D’accordo» disse Sascha, e io non ero sicura se fosse riferito a Toni oppure a me. Prima di uscire dallo sgabuzzino, mi guardò ancora una volta. «Ti aiuterò, non so ancora come, ma troverò un modo. In ogni caso chiamami prima di fare qualsiasi cosa. Devi promettermelo!»
Io lo accontentai, senza tuttavia sapere se sarei stata in grado di mantenere la promessa.