60.

Il mattino successivo mi recai in autobus all’appuntamento con il dottor Mehra. Di fronte a me c’erano due signore anziane che parlavano animatamente. Una di loro teneva una grande valigia accanto a sé e raccontava alla sua vicina di posto di essere diretta all’aeroporto.

«Heiner e io avremmo sempre voluto andare a Venezia» disse in tono esaltato. «Abbiamo sempre rimandato, finché è stato troppo tardi. Adesso però ci voglio andare almeno da sola. Dopotutto nessuno può sapere quanto tempo gli rimane.»

Avrei sottoscritto volentieri la cosa.

All’ospedale fui visitata in diversi reparti. Mi fu fatto un prelievo del sangue, una radiografia, una risonanza magnetica.

Per fortuna l’emicrania era sparita di primo mattino lasciandomi solo un lieve pulsare alle tempie del tutto sopportabile. Altrimenti non avrei resistito per l’intero chek-up che durò quasi due ore.

«Bene, sembra tutto a posto» annunciò il dottor Mehra dopo aver studiato i referti. «Hai ancora la pressione un po’ bassa, ma con un po’ di sport e sufficiente idratazione non avrai problemi.»

«Mi manca il nuoto» dissi. Prima dell’incidente andavo all’allenamento molto spesso: e mi era sempre servito a contrastare ogni tipo di stress. In questo momento mi avrebbe fatto bene.

«Credo che tra una o due settimane le tue costole si saranno consolidate abbastanza da poter ricominciare gradualmente» disse il dottore, poi consultò di nuovo la mia cartella. «Ci sono due punti che vorrei discutere con te. Prima di tutto la perdita di peso. Dall’ultima visita sei dimagrita di quattro chilogrammi, che alla luce del tuo peso già scarso, è molto. Mangi abbastanza?»

«Mangio» risposi laconica.

«Evidentemente troppo poco. Hai appetito?»

«Non sempre, ma ogni tanto mi viene anche una fame da lupi.»

«Di cibi dolci?»

Annuii.

«E il sonno come va?»

Pensai alla notte prima e a quelle precedenti. «Ecco, diciamo che al momento non siamo grandi amici.»

Lui annotò la cosa. «E le allucinazioni di cui soffrivi durante il ricovero? Continui a vedere cose che non ci sono?»

Sì, pensai. Per esempio l’ombra sul muro dietro la sua scrivania.

Me lo tenni per me. Invece dissi: «Quasi mai».

Lui mi guardò con espressione critica. «E come ti senti da un punto di vista psicologico, Nikka?»

«Sto bene. Perché me lo chiede?»

«Vedi, allucinazioni, problemi di insonnia e inappetenza alternata ad attacchi di fame possono essere sintomi di depressione.»

«Non sono depressa» replicai. Ma lo dissi troppo precipitosamente e lui non parve del tutto convinto.

«L’infermiera mi ha riferito che di recente ti sei fatta dare l’indirizzo del dottor Forstner. Hai già parlato con lui?»

«Non ancora.»

«Come mai?»

«Perché prima volevo vedere se riuscivo a cavarmela anche senza strizzacervelli. Mi sono successe tante cose e non ho ancora ritrovato la tranquillità, tutto qui.»

«Mi fa piacere che tu abbia tirato fuori questo tema.» Indicò il monitor del suo computer dove si vedeva la familiare porzione arancione e rossa della mia testa. «È la seconda cosa di cui vorrei parlarti.»

«La mia esagerata attività cerebrale.»

Annuì. «Dalla cartella del dottor Sander so che questo stato perdura fin dalla visita precedente.»

«Lui l’ha trovato interessante» dissi per sminuire la cosa, ma il dottor Mehra non reagì alla battuta.

«Attualmente non vedo cause organiche che possano scatenare una tale attività cerebrale» disse, con una nota leggermente preoccupata nella voce. «Tuttavia potrebbe trattarsi di un ulteriore sintomo di uno stato depressivo. Hai pensieri ossessivi?»

Mi strinsi nelle spalle. «Nella mia situazione lei non ne avrebbe?»

«Naturalmente, Nikka, non era questo che intendevo. Ma c’è una differenza tra un’ideazione normale e una compulsiva.»

«Compulsiva?»

«Si tratta di quando i pensieri ruotano esclusivamente intorno a un unico tema. È così per te?»

Evitai il suo sguardo e valutai quanto potessi raccontargli. Non avrebbe creduto a gran parte di ciò che avrei potuto dirgli. Né alla storia di Tuta di pelle, né a ciò che avevo scoperto di Vanessa. E sicuramente non avrebbe ritenuto vera la mia oscura presenza sebbene fosse proprio dietro di lui, nebulosa, le braccia sempre protese verso di me.

«Sì, penso molto» dissi infine. «Soprattutto a chi possa avermi fatto questo e perché. Ma trovo che sia del tutto naturale. Di sicuro non è compulsivo, vero?»

Lui mi scrutò di nuovo in silenzio per un po’. «Sì, è naturale. Ma devi stare attenta che non diventi un’ossessione. È improbabile che tu possa trovare tutte le risposte che cerchi, purtroppo. È un fenomeno che ho riscontrato spesso nei casi come il tuo. Per questo ti consiglio di rivolgerti a un professionista. Che ti accompagni e ti aiuti a rielaborare quello che ti è accaduto.»

Un’altra presenza ad accompagnarmi.

«Ci penserò» promisi, sforzandomi di sembrare credibile.

Evidentemente c’ero riuscita, perché il dottor Mehra mi rivolse un sorriso e chiuse la cartella. «Bene, allora ci vediamo tra quattro settimane. Se dovesse succedere qualcosa prima, fammelo sapere, va bene?»

«D’accordo.»

«Una cosa ancora» disse, mentre io mi ero già alzata per andare verso la porta. «Finché non troveremo la causa della tua elevata attività cerebrale, dovresti prenderti particolare cura di te stessa. Niente stress, niente agitazioni. Se ti senti in ansia, fai qualche respiro profondo e cerca di rilassarti. Inoltre dovresti mangiare abbastanza e assumere soprattutto carboidrati.»

Di fronte alla mia espressione stupita, spiegò: «Lo so che ai giorni nostri pasta e pane non sono molto di moda, ma il cervello ha bisogno di glucosio e il glucosio si trova principalmente nei carboidrati. Uno dei motivi della tua perdita di peso e della voglia di cibi dolci potrebbe dipendere proprio dalla tua iperattività cerebrale.»

«D’accordo, lo farò.»

Pensai involontariamente alla mamma di Zoe. Se non avessimo litigato, di sicuro in quel momento mi avrebbe consigliato di cambiare medico.

Il mio sguardo tornò a posarsi sulla parete alle sue spalle. Sull’ombra che nel frattempo era talmente fioca da costringermi a guardare con la massima attenzione per riuscire a distinguerla.

«Lei crede alla vita dopo la morte?»

La domanda mi era sgorgata spontaneamente e mi fece sentire molto stupida. Come una bambina piccola che chiede a un adulto se esiste veramente Babbo Natale.

Mi sentii avvampare, ma il dottor Mehra mi guardò con i suoi occhi scuri e amichevoli come se fosse la domanda più normale del mondo. Come se avesse capito per quale motivo mi tormentasse.

«Ecco, sono stato cresciuto nella fede indù» rispose. «Mi hanno insegnato che la vita e la morte formano un ciclo ininterrotto. Si muore e si rinasce e ogni nuova vita è un esame da superare. A un certo punto si arriva all’illuminazione definitiva che ci rende liberi.»

«E lei ci crede?»

Abbozzò un sorriso. «In tutta sincerità io sono agnostico. Non credo né a dei né a un aldilà. Ma al contrario degli atei non metto in discussione che possa esserci qualcosa del genere. Chi lo sa, forse un giorno ci sarà davvero la prova di una vita ultraterrena.»

Mentre queste parole si depositavano dentro di me, pensai alla mia personale esperienza. «Che genere di prova la potrebbe convincere?»

«Ottima domanda, alla quale pensa in particolare chi svolge la mia professione» disse. «Ci sono stati diversi medici che hanno cercato una prova scientifica dell’esistenza dell’anima. Perché se l’anima esiste, deve esserci necessariamente un luogo in cui va dopo la morte del nostro guscio mortale. Da un punto di vista metafisico, chiaramente. Ovvero qualcosa di diverso di un luogo fisico come lo immaginiamo.»

«E come volevano dimostrarlo?»

«L’esempio più famoso credo sia l’esperimento del dottor Duncan MacDougall, un medico americano che si è occupato di studi sulla morte all’inizio del secolo scorso. Voleva scoprire se esistesse una vera psicostasia, ovvero una separazione dell’anima dal corpo dopo la morte.»

«In che modo?»

«In maniera molto semplice» rispose il dottor Mehra. «Un calcolo puramente fisico. Pesando i pazienti subito prima della morte e subito dopo. Secondo lui la differenza di peso avrebbe dovuto essere il peso dell’anima. E in effetti trovò una differenza. In media di ventun grammi.»

Ventuno, pensai con un brivido. Quel numero mi avrebbe perseguitato per sempre.

«Secondo lei è così?» domandai. «Esiste davvero un’anima che è possibile addirittura pesare?»

Lui si strinse nelle spalle. «È una questione dibattuta, forse proprio per la semplicità dell’esperimento. Si potrebbe suffragarla con la stessa semplicità di poter misurare la consistenza del fumo, pesando prima il sigaro e poi la cenere. Ma come ho detto, io sono agnostico. Non sostengo né che sia vero, né che non lo sia. Almeno finché non avrò altre prove. Ma di sicuro prima o poi arriveremo a saperlo. Fino ad allora, però, per noi deve contare soltanto la vita. E tu sei ancora giovane, hai tantissimo tempo davanti a te.»

Chi può dirlo, pensai gettando un’altra occhiata all’ombra. Dopotutto qualcuno mi aveva già rubato la vita.

Presenza oscura
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