83

 

Morrison decise che la Kaliinin aveva ragione. Col passare dei minuti, il disagio di trovarsi a bordo dell’aliare diminuì e Morrison cominciò addirittura a provare un lieve piacere.

Vedeva perfettamente il suolo attraverso la struttura a traliccio dello chassis del velivolo. Era una trentina di metri sotto di lui (calcolò) e scorreva uniforme all’indietro.

La Kaliinin sedeva ai comandi, completamente assorta, anche se a Morrison non sembrava che avesse molto da fare. Probabilmente, era grazie all’abilità e all’osservazione paziente che riusciva a tenere in rotta l’aliare senza correzioni continue.

Le chiese: «Cosa succede se ti trovi ad affrontare un vento di prua?»

Senza staccare gli occhi dai comandi, Sophia rispose: «Be’, dovrei usare il motore e consumare carburante. Con un vento teso, non conviene usare un aliare. Fortunatamente, oggi le condizioni atmosferiche sono ideali.»

Morrison cominciò a provare qualcosa di molto vicino a un senso di benessere per la prima volta da quando aveva lasciato gli Stati Uniti... no, da un periodo di tempo molto più lungo. Cominciò a immaginarsi a casa; era la prima volta che osava farlo.

«E dopo essere arrivati all’albergo di Malenkigrad, che succede?» domandò.

«All’aeroporto in auto, poi ti imbarcherai su un aereo per l’America.»

«Quando?»

«Stanotte, secondo il programma. Cercherò di affrettare le cose.»

Morrison disse quasi allegramente: «Ansiosa di sbarazzarti di me?»

E con sua grande sorpresa, la risposta giunse subito. «Sì. Esattamente.»

Studiò il profilo della Kaliinin. L’espressione d’odio esagerato era sparita da un pezzo, ma adesso si notava un’ansia che lo fece rabbrividire. L’immagine di se stesso negli Stati Uniti cominciò a sbiadire.

«Qualcosa che non va, Sophia?» le chiese.

«No, adesso no. Solo che prevedo che lui ci inseguirà. Abbiamo il lupo alle calcagna, quindi devo spedirti via in fretta, se possibile.»

 

 

84

 

La città di Malenkigrad era sotto di loro, anche se non si trattava di una vera città. Piccola di nome, lo era anche di fatto, e si sfrangiava in tutte le direzioni nella campagna piatta.

Era il dormitorio della gente che lavorava al progetto di miniaturizzazione e durante il giorno, ora, sembrava quasi deserta. Si vedeva un veicolo in movimento qui e là, qualche pedone e, naturalmente, dei bambini che giocavano nelle strade polverose.

Morrison si rese conto di non sapere in che punto dell’enorme distesa di territorio dell’Unione Sovietica potessero essere Malenkigrad e la Grotta. Non erano nella fascia dei boschi di betulle, né nella tundra. L’inizio dell’estate era tiepido, e il terreno sembrava semiarido. Forse lui si trovava nell’Asia Centrale o nelle steppe vicino al lato europeo del Caspio. Chissà?

L’aliare stava scendendo, più delicato di un ascensore. Morrison stentava a credere che fosse possibile abbassarsi con tanta dolcezza. Poi le ruote toccarono il suolo e il velivolo si arrestò quasi subito. Erano sul retro dell’albergo, un albergo che dall’alto era apparso a Morrison in tutte le sue modeste dimensioni.

La Kaliinin smontò con un salto e fece un cenno a Morrison, che scese più compostamente.

«E l’aliare?» le domandò lui.

Lei rispose con noncuranza: «Lo riporterò al campo della Grotta al mio ritorno se il tempo non cambia. Su, raggiungiamo l’ingresso. Ti accompagnerò in camera tua, così riposerai un po’ e penseremo alla prossima mossa.»

«La camera coi soldati che mi sorvegliano, vuoi dire.»

La Kaliinin replicò impaziente: «Non ci saranno soldati a sorvegliarti. Adesso non abbiamo paura che cerchi di fuggire.» Poi, guardandosi rapidamente intorno, soggiunse: «Anche se, per la verità, preferirei che ci fossero, i soldati.»

Morrison si guardò attorno a sua volta, un po’ apprensivo, e decise che preferiva fare a meno dei soldati. Se Konev fosse venuto a riprenderlo come temeva Sophia, probabilmente sarebbe arrivato con una scorta di soldati.

Poi Morrison pensò: “Ma è davvero il caso di temere una cosa simile? Sophia ce l’ha a morte con Yuri. Lo crede capace di tutto”.

Il pensiero comunque non lo calmò.

Morrison non aveva visto l’albergo dall’esterno in pieno giorno; non aveva potuto osservarlo con calma in nessun modo. Probabilmente, rifletté, era usato solo dai funzionari in visita e dagli ospiti speciali... come lui, ammesso che potesse ambire a quel titolo. E probabilmente, malgrado le modeste dimensioni, non era mai pieno. Le due notti che aveva trascorso lì erano state fin troppo tranquille. Non ricordava alcun rumore nei corridoi e la sala da pranzo era quasi deserta.

Mentre pensava alla sala da pranzo si avvicinarono all’ingresso e lì, su un lato, seduta al sole e intenta a leggere un libro, c’era una donna grassoccia coi capelli castano rossiccio. Portava degli occhialini, bassi sul naso. (Morrison fu colpito da quell’arcaismo. Ormai era raro vedere degli occhiali, dal momento che la correzione oculare era all’ordine del giorno e la vista normale era diventata veramente normale.)

Gli occhiali e l’aria assorta la facevano sembrare diversa, e Morrison avrebbe anche potuto non riconoscerla. Forse non l’avrebbe riconosciuta se non avesse appena pensato alla sala da pranzo. La donna era la cameriera a cui aveva chiesto aiuto tre sere prima senza ottenerlo... Valeri Paleron.

Disse austero: «Buon giorno, compagna Paleron.» La sua voce era fredda, la sua espressione ostile.

Lei non parve curarsene. Alzò lo sguardo, tolse gli occhiali e disse: «Ah, compagno americano. Siete tornato sano e salvo. Complimenti.»

«Per cosa?»

«Ne parla tutta la città. C’è stato un esperimento che ha avuto un grande successo.»

La Kaliinin accigliata fece brusca: «Non dovrebbe parlarne tutta la città. Non ci piacciono le lingue lunghe.»

«Che lingue lunghe?» s’infervorò la cameriera. «Qui tutti lavorano alla Grotta o hanno un parente là. Perché non dovremmo saperlo e non dovremmo parlarne? E se lo sento che ci posso fare? Devo tapparmi le orecchie? Non posso portare un vassoio e mettermi le dita nelle orecchie.»

Si rivolse a Morrison. «Ho sentito dire che siete stato molto bravo e avete ricevuto molte lodi.»

Morrison si strinse nelle spalle.

«E quest’uomo» continuò la cameriera rivolgendosi a una Kaliinin imbronciata e sempre più impaziente «voleva andarsene prima di poter partecipare alla grande impresa. Ha chiesto aiuto a me per andarsene. A me, a una cameriera. Io naturalmente ho riferito subito, e lui non era contento. Anche adesso, vedete come mi guarda male?» Agitò il dito in direzione di Morrison. «Ma pensate al favore che vi ho fatto. Se non vi avessi impedito di realizzare il vostro piano, adesso non sareste il personaggio famoso che siete, il beniamino di Malenkigrad e forse perfino di Mosca. E la piccola zarina qui presente... scommetto che le piacete molto per questo.»

La Kaliinin disse: «Smettetela subito di essere sfacciata o vi denuncerò alle autorità.»

«Fate pure» replicò la Paleron, mettendo le mani sui fianchi e aggrottando le sopracciglia. «Io faccio il mio lavoro. Sono una buona cittadina, e non ho fatto niente di male. Cosa potete denunciare?... E c’è qui anche una macchina di lusso per voi.»

«Non vedo macchine di lusso» disse la Kaliinin.

«Non è nel parcheggio, ma sull’altro lato dell’albergo.»

«Cosa vi fa pensare che sia per me?»

«Siete le uniche persone importanti venute in albergo. Per chi dovrebbe essere. Per il facchino? Per l’impiegato dell’atrio?»

«Andiamo, Albert» disse la Kaliinin. «Stiamo perdendo tempo.» Oltrepassò la cameriera e, forse di proposito, le pestò un piede. Morrison la seguì mite.

«Odio quella donna» mormorò la Kaliinin mentre salivano verso la camera di Morrison al primo piano.

«Pensi che tenga d’occhio questo posto per conto del Comitato di coordinamento centrale?»

«Chissà? Ma c’è qualcosa che non va in lei. Ha un’impudenza diabolica. Non sa stare al suo posto.»

«Il suo posto? Dunque, ci sono distinzioni di classe in Unione Sovietica?»

«Non essere sarcastico, Albert. In teoria nemmeno negli Stati Uniti dovrebbero esserci, ma ci sono sicuramente. E ci sono anche qui. La conosco la teoria, ma non si può vivere di sola teoria. Se il padre di Arkady non l’ha detto, avrebbe dovuto dirlo.»

Salirono una rampa di scale e raggiunsero la camera occupata da Morrison all’inizio della settimana, che evidentemente era ancora destinata a lui. Morrison la osservò provando un lieve disgusto. Era una stanza priva di qualsiasi attrattiva. anche se la luce del sole la faceva sembrare meno tetra di quel che Morrison ricordava... e naturalmente la prospettiva di tornare a casa bastava a tingere tutto di rosa.

La Kaliinin sedette sulla migliore delle due poltroncine, accavallando le gambe e dondolando quella sopra. Morrison sedette sul bordo del letto e osservò le gambe di Sophia pensoso. Non aveva mai avuto occasione di ammirare la propria calma sotto pressione e gli sembrava piuttosto insolito osservare qualcuno più nervoso di lui.

«Sembri preoccupata, Sophia. Che c’è?»

«Te l’ho detto. Quella Paleron mi preoccupa.»

«Non può sconvolgerti tanto. Cosa c’è che non va?»

«Non mi piace aspettare. Le giornate sono lunghe adesso. Passeranno nove ore prima che ci sia buio.»

«È sorprendente che sia solo una questione di ore. Le manovre diplomatiche avrebbero potuto continuare per mesi.» Morrison lo disse scherzoso, ma il pensiero gli provocò un senso di freddo alla bocca dello stomaco.

«Non in un caso del genere. Ho già visto come vanno le cose, Albert. C’entrano gli svedesi. L’aereo che sta arrivando non è americano. L’atterraggio di un aereo americano in pieno territorio sovietico è qualcosa che il nostro governo preferisce ancora evitare. Gli svedesi invece... Be’, loro fungono da intermediari tra due nazioni consenzienti e tendono a lavorare sodo per scongiurare possibili attriti.»

«Negli Stati Uniti, gli svedesi nella migliore delle ipotesi sono considerati tiepidi nei nostri confronti. Credo che la Gran Bretagna sarebbe stata...»

«Oh, via, tanto vale che tu dica Texas. La Svezia sarà anche tiepida nei vostri confronti, ma verso di noi ha un atteggiamento molto più freddo. In ogni caso, arrivano gli svedesi, oggi, e il loro principio è sempre questo: se è necessario disinnescare una situazione è meglio farlo in fretta.»

«Mi sembra che abbiano fatto molto in fretta. Sono io quello che dovrebbe avere più fretta, dato che sono io il più ansioso di partire. Perché ti preoccupi per qualche ora?»

«Te l’ho detto. Lui ci dà la caccia» rispose la Kaliinin, pronunciando rabbiosa il pronome.

«Yuri? Cosa può fare? Se il vostro governo ha deciso di consegnarmi...»

«Nel governo ci sono degli elementi che potrebbero facilmente essere contrari alla tua consegna e il nostro amico ne conosce alcuni.»

Morrison si portò un dito alle labbra guardandosi attorno.

La Kaliinin disse: «Hai paura che ci siano delle microspie? Altro mito della letteratura spionistica americana. Oggigiorno è facilissimo individuare e neutralizzare le microspie... Io stessa ho un piccolo rivelatore di microspie e non ne ho mai scoperta una.»

Morrison si strinse nelle spalle. «Di’ quel che ti pare, allora.»

«Il nostro amico non è un estremista politico, però può servirsi degli estremisti che occupano cariche di vertice. Ci sono estremisti anche in America, immagino.»

«Quelli che credono che la nostra politica verso l’Unione Sovietica sia troppo blanda?» Morrison annuì. «Ne ho conosciuto qualcuno.»

«Bene, allora, hai capito. L’ambizione lo divora e se l’estremismo può favorire i suoi piani, lui è disposto a diventare estremista.»

«Non può certo organizzare un colpo di Stato a Mosca e insediare i reazionari al potere entro questa sera per impedirmi di tornare a casa.»

«Hai capito al contrano, Albert. Se riuscisse in qualche modo a impedirti di partire e a provocare una crisi, potrebbe persuadere qualche membro del governo a tenere duro e a rimandare il tuo ritorno a casa per parecchio tempo. Sa essere molto persuasivo, il nostro amico, quando è in preda alla sua mania. Sa smuovere perfino Natalya.»

La Kaliinin tacque e si morse un labbro, poi alzò lo sguardo e disse: «Non ha rinunciato a te e non lo farà. Ne sono sicura. Devo portarti via.»

Si alzò all’improvviso e percorse la stanza avanti e indietro con passetti svelti- sembrava che stesse cercando di costringere l’Universo a seguirla. Si fermò di fronte alla porta, ascoltò, poi la spalancò di colpo.

Valeri Paleron, l’espressione sorpresa, se ne stava all’esterno col pugno alzato, come se stesse per bussare.

«Cosa volete?» chiese brusca la Kaliinin.

«Io? Io non voglio nulla. Se mai dovete dirmelo voi. Sono venuta a chiedere se volete del tè.»

«Non abbiamo chiesto del tè.»

«Non ho detto che l’avete chiesto. Sono venuta per cortesia.»

«Allora per cortesia andatevene. E non tornate.»

La Paleron, arrossendo, guardò i due e mormorò tra i denti: «Forse ho interrotto uno scambio affettuoso.»

«Via!» La Kaliinin chiuse la porta, attese contando in silenzio fino a dieci, quindi spalancò la porta. Non c’era nessuno.

Chiuse a chiave, andò all’estremità opposta della stanza e disse sottovoce: «Probabilmente era là fuori da un po’. Ho sentito un fruscio di passi.»

Morrison disse: «Se lo spionaggio ad alta tecnologia è superato, suppongo che sia molto apprezzata la tecnica antiquata dell’origliare.»

«Ah, ma per chi?»

«Pensi che lavori per Yuri? Mi pare improbabile che abbia tanto denaro da assumere delle spie... o sbaglio?»

«Forse non occorre molto denaro. Una donna del genere potrebbe farlo anche per il piacere di farlo.»

Ci fu un attimo di silenzio, poi Morrison disse: «Se c’è la possibilità che tu sia circondata da spie, Sophia, perché non vieni in America con me?»

«Cosa?» Sembrava che non avesse sentito.

«Potresti trovarti nei guai per avermi fatto imbarcare.»

«Perché? Ho dei documenti ufficiali per il tuo imbarco. Sto eseguendo degli ordini.»

«Potresti rimetterci lo stesso se ci fosse bisogno di un capro espiatorio. Perché non sali sull’aereo con me e vieni in America, Sophia?»

«Così semplice, eh? E mia figlia?»

«La manderemo a prendere in seguito.»

«La manderemo a prendere? Cos’hai in mente?»

Morrison arrossì leggermente. «Non so di preciso. Possiamo essere amici, certo. Avrai bisogno di amici in un paese nuovo.»

«Ma è impossibile, Albert. Apprezzo la tua gentilezza e la tua preoccupazione... o compassione... ma è impossibile.»

«È possibile. Siamo nel ventunesimo secolo, non nel ventesimo. La gente può muoversi liberamente in ogni parte del mondo.»

«Caro Albert, sei troppo attaccato alla teoria. Sì, in teoria, la gente può muoversi, ma ogni nazione ha delle eccezioni. L’Unione Sovietica non permetterà a una scienziata di alto livello con esperienza in settori collegati alla miniaturizzazione di lasciare il paese. Pensaci e capirai che è normale. Se dovessi accompagnarti, ci sarà immediatamente una protesta sovietica in cui si parlerà di un caso di rapimento, e in ogni angolo del mondo chiederanno a gran voce di rimandarmi a casa per evitare una crisi. E la Svezia interverrà per me con la stessa rapidità dimostrata nel tuo caso.»

«Ma nel mio caso, io sono stato rapito

«Molti crederanno al mio rapimento, o preferiranno crederlo, e gli Stati Uniti mi manderanno a casa, come l’Unione Sovietica adesso ti sta mandando a casa. In questo modo abbiamo mascherato alla bell’e meglio decine di crisi negli ultimi sessant’anni... e non è meglio che la guerra?»

«Se tu dirai spesso e con decisione di voler restare negli Stati Uniti...»

«Non rivedrò più mia figlia, e inoltre la mia vita forse sarà in pericolo. E poi, io non voglio venire negli Stati Uniti.»

Morrison sembrò sorpreso.

La Kaliinin disse: «Stenti a crederci? Tu vuoi restare in Unione Sovietica?»

«Certo che no. Il mio paese...» Morrison s’interruppe. «Appunto. Parli in continuazione dell’umanità, dell’importanza di una visione globale, ma se scaviamo in profondità ecco che salta fuori il tuo paese. Anch’io ho un paese, una lingua, una letteratura, una cultura, un sistema di vita. Non voglio rinunciare a tutto questo.»

Morrison sospirò. «Come vuoi, Sophia.»

«Ma non sopporto più di stare in questa stanza, Albert. Inutile aspettare. Saliamo in auto e ti porterò fino all’aereo svedese.»

«Probabilmente non ci sarà.»

«Allora aspetteremo all’aeroporto, piuttosto che qui, e almeno saremo sicuri che non appena arriverà tu salirai a bordo. Voglio vederti partire senza intoppi, Albert, e poi voglio vedere la sua faccia.»

Sophia uscì dalla stanza e scese i gradini svelta. Morrison si affrettò a seguirla. A dire il vero, non gli dispiaceva affatto andarsene.

Percorsero un lungo corridoio rivestito di moquette e varcarono una porta che dava direttamente sul lato dell’albergo.

Parcheggiata accanto al muro c’era una grossa berlina nera scintillante.

Morrison, un po’ trafelato, disse «Certo che ci forniscono proprio dei mezzi di trasporto di lusso. Sei capace di guidare quell’affare?»

«Alla perfezione» rispose la Kaliinin sorridendo... poi si bloccò di colpo e il sorriso sparì.

Da dietro l’angolo dell’albergo era sbucato Konev. Anche lui si bloccò, e per diversi secondi entrambi rimasero immobili... quasi fossero due Gorgoni pietrificatesi a vicenda con lo sguardo.

 

 

85

 

Morrison fu il primo a parlare. Disse un po’ rauco: «Sei venuto a salutarmi, Yuri? In tal caso, addio. Sto partendo.»

Erano frasi che suonavano false alle stesse orecchie di Morrison, e il cuore gli batteva forte.

Gli occhi di Konev si spostarono un attimo verso di lui, poi si rivolsero nella direzione di prima.

Morrison disse: «Vieni, Sophia.»

Avrebbe potuto benissimo tacere. Quando finalmente parlò, Sophia si rivolse a Konev e gli chiese aspra: «Cosa vuoi?»

«L’americano» rispose Konev in un tono altrettanto duro.

«Lo sto portando via.»

«Non farlo. Ci serve. Ci ha ingannato.» La voce di Konev stava calmandosi.

«Questo lo dici tu. Ho i miei ordini. Devo accompagnarlo a un aereo e assicurarmi che salga a bordo. Non puoi averlo.»

«Non sono io che devo averlo. È la nazione.»

«Sentiamo. Continua. Di’ che la Santa Madre Russia ha bisogno di lui e ti riderò in faccia.»

«Non dirò una cosa simile. L’Unione Sovietica ha bisogno di lui.»

«Tu pensi solo a te stesso. Togliti dai piedi.»

Konev si piazzò tra i due e la vettura. «No. Non capisci quanto è importante che lui resti qui. Credimi. Il mio rapporto è già stato inviato a Mosca.»

«Non ne dubito e posso immaginare chi lo riceverà. Ma il vecchio mangiafuoco non potrà fare nulla. È uno spaccone, e lo sappiamo tutti. Non oserà dire una parola nel Presidium, e se lo farà, Albert sarà in viaggio da un pezzo.»

«No. Non partirà.»

Morrison disse: «Mi occupo io di lui, Sophia. Apri la portiera dell’auto.» Tremava leggermente. Konev non era un uomo massiccio, però sembrava robusto ed era chiaramente deciso a tutto. Morrison non si riteneva un abile gladiatore in nessuna circostanza, e nemmeno adesso.

La Kaliinin alzò una mano verso Morrison. «Resta dove sei, Albert.» Poi a Konev: «Come intendi fermarmi. Hai una pistola?»

Konev parve sorpreso. «No. Assolutamente. Portare armi è illegale.»

«Davvero? Ma io ne ho una.» La Kaliinin la estrasse dalla tasca della giacca. Era un oggetto minuscolo che le stava quasi nel pugno, con una piccola canna che scintillava tra le dita.

Konev indietreggiò spalancando gli occhi. «È uno storditore.»

«Certo. Peggio che una pistola, vero? Pensavo che forse ti saresti intromesso, quindi mi sono preparata.»

«Anche quello è illegale.»

«Allora denunciami, e io dirò che dovevo eseguire gli ordini e respingere la tua intromissione criminosa. Probabilmente riceverò un encomio.»

«No. Sophia...» Konev avanzò di un passo.

Lei arretrò di un passo. «Non avvicinarti. Sono pronta a sparare e potrei farlo anche se resti dove sei. Ricordati l’effetto di uno storditore. Confonde il cervello. Me l’hai detto proprio tu, una volta, no? Perderai i sensi e ti sveglierai con un’amnesia parziale e ci vorranno ore perché ti riprenda, forse giorni. Ho sentito addirittura che certa gente non si riprende mai del tutto. Pensa se il tuo eccezionale cervello non dovesse riacquistare la sua acutezza.»

«Sophia...»

Senza muovere quasi le labbra lei disse: «Perché usi il mio nome? L’ultima volta che l’hai usato hai detto: “Sophia, non a parleremo più, non ci guarderemo più”. Adesso mi parli e mi guardi. Vattene e mantieni la tua promessa, miserabile...» (Usò una parola russa che Morrison non capì.)

Konev, pallidissimo, disse una terza volta: «Sophia... Ascoltami. Sei libera di pensare che finora abbia detto solo bugie, però adesso ascoltami. Questo americano è una minaccia mortale per l’Unione Sovietica. Se ami il tuo paese...»

«Sono stanca di amare. Cosa ho ottenuto dall’amore?»

«E io cosa ho ottenuto?» mormorò Konev.

«Tu ami te stesso» fece amara la Kaliinin.

«No! Continuavi a dirlo, ma non è vero. Se ho un po’ di considerazione per me stesso ora, è perché solo io posso salvare il nostro paese.»

«Davvero? Ci credi davvero?» fece la Kaliinin allibita. «Sei pazzo.»

«Niente affatto. So quel che valgo. Non potevo permettere che qualcosa mi distraesse.. nemmeno che fossi tu a distrarmi. Per il nostro paese e il mio lavoro, ho dovuto rinunciare a te. Ho dovuto rinunciare alla mia bambina. Mi sono spaccato in due e ho gettato via la metà migliore di me.»

«La tua bambina? È un’ammissione di responsabilità?»

Konev piegò la testa. «Era l’unico modo per respingerti. Era l’unico modo per essere sicuro di lavorare senza intralci... Ti amo. Ti ho sempre amata. Ho sempre saputo che la bambina era mia e che non poteva essere di nessun altro.»

«Ti interessa a tal punto Albert?» Lo storditore era sempre puntato senza il minimo tremito. «Sei disposto a dire che è tura figlia, che mi ami, e credi che per questo ti consegni Albert, per poi sentire negare tutto di nuovo? Non hai una grande stima della mia intelligenza.»

Konev scosse la testa. «Come posso convincerti?... Be’, se ho gettato via tutto volutamente, non posso pretendere di riaverlo, vero? In tal caso, consegnami l’americano per il bene della nostra nazione e poi gettami via. Posso spiegarti perché abbiamo bisogno di lui?»

«Non crederò alle tue spiegazioni.» La Kaliinin lanciò un’occhiata in direzione di Morrison. «Hai sentito quest’uomo, Albert. Non sai con quanta crudeltà abbia accantonato mia figlia e me. E adesso pretende che creda che mi ha sempre amata.»

E Morrison si ritrovò a dire: «Questo è vero, Sophia. Ti ama e ti ha sempre amata... disperatamente.»

La Kaliinin raggelò un istante. La sua sinistra rivolse un gesto a Morrison mentre gli occhi continuavano a fissare Konev. «Come lo sai, Albert? Ha mentito anche a te?»

Ma Konev gridò eccitato: «Lo sa. Lo ammette. Non capisci? L’ha sentito col suo computer. Se mi lasci spiegare, capirai tutto.»

La Kaliinin chiese: «È vero, Albert? Confermi quello che ha detto Yuri?»

E Morrison, troppo tardi, serrò la bocca. Ma i suoi occhi lo tradirono.

Konev disse: «Il mio amore non è mai venuto meno. Sophia. Ho sofferto quanto te. Ma consegnami l’americano e le sofferenze saranno finite. Non mi sottrarrò più alle mie responsabilità per non avere intralci. Farò il mio lavoro e mi occuperò di te e della bambina, costi quel che costi e che sia maledetto se non riuscirò a fare entrambe le cose.»

La Kaliinin fissò Konev, e gli occhi le si riempirono improvvisamente di lacrime. «Voglio crederti» mormorò.

«Allora credimi. L’americano te l’ha detto.»

Quasi fosse una sonnambula, avanzò verso Konev porgendogli lo storditore.

Morrison urlò: «Gli ordini... all’aereo!» E si lanciò verso di loro. Ma mentre correva si scontrò con un altro corpo. Due braccia lo bloccarono e una voce all’orecchio gli disse: «Calma, compagno americano. Non aggredite due buoni cittadini sovietici.»

Era Valeri Paleron, che lo stringeva in una morsa inesorabile.

La Kaliinin era avvinghiata a Konev per uno scopo ben diverso, e lo storditore le penzolava ancora dalla destra.

La Paleron disse: «Accademico, dottoressa, potremmo dare nell’occhio qui. Andiamo nella stanza dell’americano. Venite, compagno americano, e state buono o sarò costretta a farvi male.»

Konev, incontrando lo sguardo di Morrison, fece un sorriso arcigno di trionfo. Aveva tutto... la sua donna, la sua bambina, e il suo americano... mentre il sogno di tornare in America di Morrison scoppiava come una bolla di sapone e si dissolveva.