Capitolo diciannovesimo.
Capovolgimento

 

 

Nel vero trionfo, comunque, non ci sono perdenti.

DEZHNEV SENIOR

 

 

86

 

Morrison sedeva nella stanza d’albergo che, per una quindicina di minuti, si era illuso di non rivedere mai più. Era prossimo alla disperazione... molto più vicino, gli sembrava, di quanto non fosse stato quando si era ritrovato solo e sperduto nel flusso cellulare del neurone.

Che senso aveva? Continuava a pensarlo, come se quella frase stesse riverberandosi in una camera a eco. Era un perdente. Era sempre stato un perdente.

Per un giorno o poco più, aveva pensato che Sophia Kaliinin fosse attratta da lui, il che naturalmente non era vero. Per lei non era stato altro che un’arma da usare contro Konev e quando Konev l’aveva chiamata, le aveva fatto un cenno, Sophia era tornata da Konev e non aveva più avuto bisogno delle sue armi, né di Morrison né dello storditore.

Morrison li guardò intontito. Erano insieme, in piedi, nel riflesso solare che si riversava attraverso la finestra... loro alla luce, lui nell’ombra, com’era suo destino.

Stavano bisbigliando, talmente assorti che la Kaliinin sembrava essersi dimenticata che impugnava ancora lo storditore. Per un attimo, piegò le ginocchia, quasi intendesse sbarazzarsi del peso dell’arma gettandola sul letto, ma poi Konev disse qualcosa e Sophia tornò a pendere dalle sue labbra e a ignorare l’esistenza dello storditore.

Morrison esclamò rauco: «Il vostro governo non tollererà questo gesto. Avete l’ordine di liberarmi!»

Konev alzò lo sguardo, gli occhi gli si ravvivarono leggermente, come se stesse persuadendosi, con difficoltà, a prestare attenzione al prigioniero. In fondo, non era che dovesse sorvegliare Morrison in senso fisico. La cameriera, Valeri Paleron, lo stava già facendo con estrema efficienza. Era a un metro da Morrison e i suoi occhi (piuttosto divertiti, come se le piacesse quel compito) non lo lasciavano un solo istante.

Konev disse: «Non preoccuparti del mio governo, Albert. Cambierà dea prestissimo.»

La Kaliinin alzò la sinistra come se intendesse obiettare, ma Konev gliela strinse.

«Stai tranquilla, Sophia. Le informazioni di cui disponevo sono state inviate a Mosca. Cominceranno a riflettere. Si metteranno in contatto con me entro breve tempo sulla mia lunghezza d’onda personale, e quando gli dirò che abbiamo catturato Morrison, entreranno in azione. Sono sicuro che riusciranno a far ragionare il Vecchio. Te lo prometto.»

La Kaliinin disse in tono preoccupato: «Albert!»

Morrison fece: «Stai per dirmi che ti dispiace di avermi cancellato dall’esistenza obbedendo all’uomo che apparentemente odiavi?»

La Kaliinin arrossì. «Non sei stato cancellato, Albert. Sarai trattato bene. Lavorerai come avresti lavorato in America, solo che qui sarai apprezzato sul serio.»

«Grazie» fece Morrison, trovando nel proprio animo una piccola riserva di sarcasmo. «Se sei felice per me, che importanza ha come mi sento io?»

La Paleron intervenne impaziente. «Compagno americano, parlate troppo. Perché non vi sedete?... Sedetevi.» (Lo spinse su una poltroncina.) «Tanto vale che aspettiate tranquillo, dato che non potete fare nient’altro.»

Poi si rivolse alla Kaliinin, che Konev cingeva con il braccio con fare protettivo. «E voi, piccola zarina, avete ancora intenzione di mettere fuori combattimento questo vostro bell’amante, dal momento che avete ancora in mano questo terribile storditore? Potrete abbracciarlo meglio con tutte e due le braccia libere.»

La Paleron allungò la mano verso lo storditore e la Kaliinin glielo consegnò senza una parola.

«Per la verità» osservò la Paleron, guardando incuriosita lo storditore «sono contenta di averlo io. Nella frenesia del vostro amore ritrovato avreste potuto sparare in tutte le direzioni. Non sarebbe prudente lasciarvelo, piccola mia.»

Tornò verso Morrison, continuando a studiare lo storditore e a rigirarlo.

Morrison si agitò inquieto. «Non puntatelo nella mia direzione. Potrebbe sparare.»

La Paleron lo guardò altezzosa. «Non sparerà se non voglio io, compagno americano. So usarlo.»

Sorrise in direzione di Konev e della Kaliinin. Liberatasi dell’arma, ora la Kaliinin aveva circondato con le braccia il collo di Konev e lo stava baciando con brevi e delicati tocchi delle labbra. La Paleron disse girandosi verso di loro, ma non rivolgendosi realmente a loro, perché non stavano ascoltando: «So come si usa. Così! E così!»

E, prima Konev, poi la Kaliinin, si accasciarono.

La Paleron disse a Morrison: «Adesso aiutami, idiota, dobbiamo sbrigarci.»

Lo disse in inglese.

 

 

87

 

Morrison non riusciva a capire. Rimase semplicemente a fissarla.

La Paleron lo spinse per le spalle come se stesse cercando di svegliarlo da un sonno profondo. «Forza. Prendigli i piedi.»

Morrison obbedì come un automa. Konev e la Kaliinin vennero issati sul letto, da cui la Paleron avevo tolto la coperta. La Paleron stese i corpi nello spazio angusto dell’unico materasso, poi perquisì la Kaliinin con gesti rapidi ed esperti.

«Ah» disse, fissando un foglio piegato che stando ai caratteri fitti era senz’altro un documento scritto in “governativo”. Lo infilò nella tasca della giacca bianca e continuò a cercare. Vennero alla luce altri oggetti... un paio di piccole chiavi, per esempio. Svelta, la donna si chinò su Konev, staccando un dischetto metallico dalla superficie interna del suo risvolto.

«La sua lunghezza d’onda personale» disse, e mise in tasca anche quello.

Infine recuperò un oggetto nero rettangolare. «Questo è tuo, vero?»

Morrison grugnì. Era il suo programma. Era tanto frastornato che non si era accorto che Konev glielo aveva preso. Lo strinse con frenesia.

La Paleron girò Konev e la Kaliinin di fianco in modo che si guardassero e si puntellassero a vicenda. Quindi sistemò il braccio di Konev attorno alla ragazza e li coprì con la coperta, infilandola bene sotto i corpi per aumentare la stabilità.

«Non fissarmi così, Morrison» disse quando ebbe finito. «Vieni.» Lo prese per un braccio.

Morrison fece resistenza. «Dove andiamo? Cosa sta succedendo?»

«Te lo dirò dopo. Niente chiacchiere adesso. Non c’è tempo da perdere. Nemmeno un minuto. Nemmeno un secondo.» Il tono era controllato ma rabbioso, e Morrison la seguì.

Uscirono dalla stanza, e la Paleron scese le scale il più adagio possibile (imitata da Morrison), poi percorsero il corridoio rivestito di moquette e sbucarono all’esterno presso la berlina.

La Paleron aprì la portiera anteriore destra con una delle chiavi trovate addosso alla Kaliinin e ordinò: «Sali.»

«Dove andiamo?»

«Sali.» E in pratica lo spinse in macchina.

Prese posto al volante e Morrison frenò l’impulso di chiederle se sapesse guidare. Finalmente la sua mente frastornata aveva capito che la Paleron non era una semplice cameriera.

Che avesse recitato la parte della cameriera, comunque, lo si capiva dal lieve odore di cipolla che le era rimasto addosso e che si mescolava in modo infelice con l’odore più pieno e piacevole dell’interno dell’auto.

La Paleron avviò il motore, guardò il parcheggio, che era deserto a parte un gatto che se ne andava per i fatti suoi, e attraversò uno spiazzo sabbioso raggiungendo il sentiero che portava alla strada vicina.

La berlina accelerò progressivamente e quando toccò i novantacinque chilometri orari stava percorrendo una strada a due corsie su cui, di tanto in tanto, si incrociava un’auto diretta nella direzione opposta. Morrison riuscì a pensare di nuovo in maniera normale.

Si girò subito a guardare dal lunotto. Un’auto, piuttosto lontana, stava svoltando a un incrocio che avevano oltrepassato alcuni attimi prima. Apparentemente, nessuno li stava seguendo.

Poi Morrison si voltò a guardare il profilo della Paleron. Aria capace, ma torva. Morrison si rese conto allora che oltre a non essere una vera cameriera molto probabilmente non era nemmeno una cittadina sovietica. Il suo inglese aveva un forte accento urbano che nessun europeo avrebbe potuto imparare a scuola o acquisire in modo tale da ingannare l’orecchio di Morrison.

«Stavi aspettando fuori dall’albergo, leggendo quel libro per vedere Sophia e me al nostro arrivo.»

«Esatto» confermò la Paleron.

«Sei un agente americano, vero?»

«Sempre più acuto.»

«Dove stiamo andando?»

«All’aeroporto prestabilito dove l’aereo svedese ti preleverà. Questi dettagli me li ha dati la Kaliinin.»

«E sai come arrivare là?»

«Certo. Sono a Malenkigrad da molto più tempo della tua Kaliinin... Ma, dimmi, perché le hai detto che quel tale, Konev, era innamorato di lei? Aspettava solo di sentirlo dire da una terza persona. Voleva una conferma e tu gliel’hai data. Così, hai passato il gioco in mano a Konev. Perché l’hai fatto?»

«Innanzitutto, era la verità» rispose Morrison.

«La verità?» La Paleron, confusa, scosse la testa. «Tu vivi fuori dal mondo. Garantito. Mi sorprende che nessuno ti abbia dato una botta in testa e ti abbia seppellito già da un pezzo... solo per il tuo bene. E poi, come fai a sapere che è la verità?»

«Lo so... Comunque, mi dispiaceva per lei. Mi ha salvato la vita, ieri. Ha salvato la vita a tutti, ieri. Se è per questo, anche Konev mi ha salvato la vita.»

«Vi siete salvati la vita l’un l’altro, tutti quanti, suppongo.»

«Sì, proprio.»

«Ma è successo ieri. Oggi è un altro giorno e non avresti dovuto lasciarti influenzare da ieri. La Kaliinin non si sarebbe mai rimessa con lui se non avessi detto quella stupidaggine. Konev avrebbe potuto sgolarsi e giurare e stragiurare che l’amava e tutte quelle altre idiozie, e lei non gli avrebbe creduto. Non osava. Essere presa ancora in giro? Mai! Lo avrebbe abbattuto con lo storditore nel giro di un minuto, e tu le hai detto: “Sì, certo, bambina mia, quel tizio ti ama”, e lei non chiedeva altro. Dammi retta, Morrison, non dovresti andare in giro non accompagnato.»

Morrison si agitò a disagio. «Come sai tutte queste cose?»

«Ero tra i sedili di quest’auto, pronta a venire con voi e a controllare che ti portasse a destinazione. E poi tu sei uscito con la tua trovata idiota. Non potevo far altro che afferrarti per impedire che ti colpissero con lo storditore, e riportarti in camera lontano da occhi indiscreti per cercare di prendere in qualche modo lo storditore.»

«Grazie.»

«Figurati... E ho fatto in modo che sembrino una coppia di innamorati. Se dovesse entrare qualcuno, chiederà scusa e se ne andrà in fretta... e noi guadagneremo tempo.»

«Quanto ci vorrà perché riprendano i sensi?»

«Non lo so. Dipende dalla precisione della mira e dalle condizioni mentali in cui erano e da chissà che altro. Ma quando si sveglieranno, impiegheranno un po’ di tempo per ricordare cos’è successo. Data la loro situazione, io spero che per prima cosa si ricordino di essere innamorati, così saranno impegnati per un po’. Poi quando si riprenderanno del tutto e si ricorderanno di te e dell’operazione in corso con Mosca, sarà troppo tardi.»

«Subiranno delle lesioni permanenti?»

La Paleron lanciò un’occhiata alla faccia seria di Morrison. «Sei preoccupato per loro, eh? Perché? Cosa rappresentano per te?»

«Be’... sono dei compagni di viaggio.»

La Paleron fece un verso poco elegante. «Immagino che si ristabiliranno alla perfezione. Magari una smussatura agli angoli più suscettibili e critici gli farebbe bene. Potranno mettersi assieme e formeranno una bella famiglia.»

«E a te cosa accadrà? Faresti meglio a salire anche tu sull’aereo.»

«Non essere stupido. Gli svedesi non mi prenderanno mai a bordo. Hanno l’ordine di imbarcare un tizio e controlleranno che sia tu la persona giusta. Avranno le tue impronte digitali e lo schema retinico, fomiti dagli archivi della Commissione della popolazione. Se prendessero la persona sbagliata o una persona in più, ci sarebbe un nuovo incidente, e gli svedesi sono troppo furbi per cascarci.»

«Ma allora a te cosa succederà?»

«Be’, per prima cosa, dirò che ti sei impossessato dello storditore e hai steso quei due, poi me l’hai puntato addosso e ti sei fatto portare all’aeroporto perché non conoscevi la posizione. Mi hai ordinato di fermarmi all’esterno, mi hai colpita e hai buttato lo storditore in macchina. Domani mattina, presto, tornerò a Malenkigrad fingendo di cominciare a smaltire gli effetti di uno stordimento.»

«Ma Konev e la Kaliinin smentiranno la tua versione.»

«Non stavano guardando me quando sono stati colpiti, e in ogni caso quasi nessuno ricorda il momento dello stordimento. Inoltre, il governo sovietico sa che ha ordinato la tua partenza, e se sarai partito Konev potrà dire quel che vuole ma non gli servirà a nulla. Il governo accetterà il fatto compiuto. Scommetto cento rubli contro cento copechi, o meglio cento dollari contro cento copechi, che preferiranno dimenticare tutta la faccenda... e io tornerò a fare la cameriera.»

«Ci saranno sicuramente dei sospetti su di te.»

«In tal caso, vedremo» disse la Paleron. «Nichevo! Sarà quel che sarà.» Sorrise debolmente.

Continuarono a viaggiare lungo la strada, e a un certo punto Morrison disse timidamente: «Non dovremmo accelerare un po’?»

«Nemmeno di un chilometro all’ora» rispose decisa la Paleron. «Siamo giusto al di sotto del limite di velocità, e i sovietici controllano col radar ogni centimetro di questa strada. Non hanno senso dell’umorismo quando si tratta del limite di velocità, e per arrivare all’aereo un quarto d’ora prima non intendo passare delle ore a dare spiegazioni in un posto di polizia.»

Era mezzogiorno passato e Morrison cominciava ad avvertire i deboli morsi premonitori della fame. «Secondo te, cos’ha detto Konev a Mosca sul mio conto?»

La Paleron scosse la testa. «Non lo so. Qualsiasi cosa fosse, ha ricevuto una risposta sulla sua lunghezza d’onda personale. Il segnale è arrivato una ventina di minuti fa. Non hai sentito?»

«No.»

«Non dureresti a lungo se facessi il mio mestiere... Naturalmente, Konev non ha risposto, quindi i contatti di Konev a Mosca cercheranno di scoprire il perché. troveranno quei due e capiranno che sei diretto all’aeroporto, e qualcuno ci darà la caccia per vedere se è possibile bloccarti. Come i carri del faraone.»

«Non abbiamo Mosè ad aprirci il Mar Rosso» mormorò Morrison.

«Se arriviamo all’aeroporto, avremo gli svedesi. Non ti cederanno a nessuno.»

«Cosa possono fare contro i militari sovietici?»

«Non saranno i militari sovietici. Sarà qualche funzionario, legato a un gruppo scissionista estremista, a cercare di ingannare gli svedesi. Ma abbiamo dei documenti ufficiali che ti affidano a loro, e gli svedesi non abboccheranno. Basta arrivare per primi.»

«E secondo te non dovremmo andare più forte?»

La Paleron scosse la testa con decisione.

Mezz’ora più tardi, la Paleron indicò e disse: «Ecco, siamo arrivati, e siamo fortunati. L’aereo svedese è già atterrato.»

Arrestò la berlina, premette un pulsante e la portiera sul lato di Morrison si aprì. «Vai da solo. Non voglio farmi vedere, ma ascolta...» Si chinò verso di lui. «Mi chiamo Ashby. Quando sarai a Washington, digli che se credono che per me sia ora di rientrare... sono pronta. Capito?»

«Capito.»

Morrison smontò dall’auto, battendo le palpebre nel chiarore del sole. In lontananza un uomo in divisa (non una divisa sovietica, per quel che poteva vedere Morrison) gli fece cenno di avanzare.

Morrison parti di corsa. Non c’erano limiti di velocità per chi correva a piedi, e anche se alle spalle non vedeva inseguitori si aspettava quasi di vedere sbucare dal terreno qualcuno intenzionato a fermarlo.

Si girò, agitò la mano un’ultima volta in direzione dell’auto, gli sembrò di cogliere un gesto di saluto, e continuò a correre.

L’uomo che gli aveva rivolto un cenno avanzò, prima camminando, poi correndo, e lo sorresse mentre lui per poco non ruzzolava in avanti. Morrison adesso notò che indossava un’uniforme della Federazione Europea.

«Potete dirmi il vostro nome, per favore?» chiese l’uomo in inglese. Il suo accento, con enorme sollievo di Morrison, era svedese.»

«Albert Jonas Morrison» rispose Morrison e insieme si incamminarono verso l’aereo e il gruppetto di persone incaricate di controllare l’identità del passeggero.

 

 

88

 

 

Morrison sedeva accanto al finestrino dell’aereo, teso ed esausto, fissando dall’alto la terra che scivolava a est. Un pranzo a base di aringhe e patate lesse aveva calmato lo stomaco, ma per la mente il discorso era ben diverso.

Il viaggio miniaturizzato nel flusso sanguigno e nel cervello avvenuto il giorno prima (solo ieri?) aveva deformato i suoi processi mentali in maniera tale da fargli provare una continua apprensione, il timore costante di una sciagura imminente? Un giorno sarebbe riuscito ad accettare ancora l’Universo come un’entità amica? Sarebbe riuscito a muoversi nell’Universo con la serena consapevolezza che nulla e nessuno gli era ostile?

O, semplicemente, non aveva avuto abbastanza tempo per riprendersi?

Certo, il buon senso gli diceva che aveva ragione a non sentirsi ancora completamente al sicuro. Sotto l’aereo, c’era ancora territorio sovietico.

L’alleato moscovita di Konev, chiunque fosse, avrebbe fatto in tempo a inviare degli aerei all’inseguimento degli svedesi? Era un alleato abbastanza potente da farlo? I carri del faraone si sarebbero librati in aria continuando la caccia?

Ebbe un tuffo al cuore quando vide proprio un aereo in lontananza... poi un altro.

Si girò verso la hostess, che sedeva di fianco a lui dalla parte opposta del corridoio. Non fu necessario formulare la domanda. Evidentemente la hostess aveva decifrato esattamente la sua espressione ansiosa.

«Aerei della Federazione» spiegò. «Come scorta. Abbiamo lasciato il territorio sovietico. Gli aerei hanno equipaggi svedesi.»

Poi, quando sorvolarono la Manica, degli aerei americani si unirono alla scorta. Morrison era al sicuro dai carri, in ogni caso.

Ma la mente non gli concedeva tregua. Missili? Qualcuno avrebbe addirittura commesso un atto di guerra? Cercò di calmarsi. Sicuramente, nessuno in Unione Sovietica, neppure il Presidente, avrebbe potuto compiere una mossa del genere senza una consultazione, e una consultazione avrebbe richiesto come mimmo delle ore, o forse giorni.

Era un’ipotesi da scartare.

Eppure, solo quando l’aereo atterrò nei sobborghi di Washington, Morrison riuscì a rendersi conto che era finita, che era tornato sano e salvo nel suo paese.