Capitolo
tredicesimo.
Cellula
Un muro che dica “Benvenuto, straniero” non è mai stato costruito.
DEZHNEV SENIOR
55
Le narici della Boranova si dilatarono leggermente, le sue sopracciglia scure si aggrottarono, ma la voce rimase calma.
«Arkady, procederai per quanto possibile in linea retta. Curverai solo se indispensabile, possibilmente alternando una virata a sinistra e una a destra... E dal momento che siamo in una condizione di tridimensionalità, alternerai anche salite e discese.»
«Sarà una bella confusione, Natasha.»
«Certo. Forse però non ci confonderemo del tutto. Magari non riusciremo ad andare dritto, ma può darsi che evitiamo di girare in tondo o a spirale. E prima o poi dovremmo raggiungere una cellula.»
«Forse, se deminiaturizzassi un po’ la nave...» tentò Dezhnev.
«No» rispose la Boranova.
«Aspetta, Natasha. Pensaci. Deminiaturizzandoci, la distanza da percorrere diminuirà, lo spazio tra il vaso sanguigno e il neurone diminuirà.» Dezhnev accompagnò la spiegazione con gesti eloquenti. «Capito?»
«Capito. Ma più ci ingrandiamo, Arkady, più faticheremo a passare tra le fibre. I neuroni del cervello sono ben protetti. Il cervello è l’unico organo a essere completamente racchiuso da una struttura ossea e i neuroni stessi, che sono i più irregolari del corpo, hanno una buona imbottitura di sostanza intercellulare, come puoi vedere. Solo mantenendo le dimensioni di una molecola di glucosio possiamo muoverci tra il collagene senza provocare danni apprezzabili al cervello.»
A questo punto, fatto insolito, Konev si girò sul sedile, sorvolando con lo sguardo la Kaliinin prima di guardare in faccia la Boranova. «Non penso che dobbiamo muoverci completamente alla cieca.»
«Che altro possiamo fare, Yuri?» chiese la Boranova.
«Sicuramente, i neuroni rivelano la loro presenza. Ognuno è percorso periodicamente a intervalli brevissimi da impulsi nervosi. Si potrebbero captare.»
Morrison corrugò la fronte. «I neuroni sono isolati.»
«Gli assoni, non il corpo cellulare vero e proprio.»
«Ma è negli assoni che l’impulso nervoso è più forte.»
«No, nelle sinapsi può raggiungere la massima intensità, e nemmeno quelle sono isolate. Dovrebbero essere uno sfolgorio continuo di impulsi, e tu dovresti essere in grado di captarli.»
«Nel capillare non è stato possibile» osservò Morrison.
«Allora eravamo sul lato sbagliato della parete del capillare... Senti, Albert, perché stai a discutere? Ti sto chiedendo di provare a captare le onde cerebrali. Sei qui per questo, no?»
«Sono stato rapito» sbottò con veemenza Morrison. «Ecco perché sono qui!»
La Boranova si sporse in avanti. «Albert, indipendentemente dai motivi, ora sei qui e il suggerimento di Yuri mi pare sensato... E tu, Yuri, devi sempre essere così polemico?»
Morrison si ritrovò a fremere di rabbia, e per un attimo non capì perché. Il suggerimento di Yuri in effetti era sensato.
Poi si rese conto che gli stavano chiedendo di verificare le sue teorie in condizioni che non gli avrebbero concesso alcuna scappatoia. Era nei pressi di una cellula cerebrale, che adesso rispetto a lui era grande quanto una montagna. Tra poco forse gli avrebbero chiesto di ripetere la prova all’interno... proprio dentro quella cellula. E se l’avesse fatto e avesse fallito, che scuse avrebbe potuto trovare per negare che le sue teorie erano sbagliate ed erano sempre state sbagliate?
Sì, era arrabbiato, non con Konev in particolare... era arrabbiato perché le circostanze lo avevano sbattuto in quell’angolo tutt’altro che comodo.
La Boranova stava aspettando che dicesse qualcosa, mentre Konev continuava a lanciargli occhiate incandescenti.
Morrison disse: «Se capterò dei segnali, li capterò da tutte le direzioni. A parte il capillare che abbiamo appena lasciato, siamo circondati da un numero incredibile di neuroni.»
«Ma alcuni sono più vicini degli altri» disse Konev. «E un paio dovrebbero essere vicinissimi. Non puoi individuare la direzione da cui provengono i segnali più forti? Ci dirigeremo verso quei segnali.»
«Il mio ricevitore non è direzionale.»
«Ah! Anche gli americani usano apparecchiature destinate a scopi specifici e non considerano gli impieghi d’emergenza. Non sono solo i sovietici ignoranti a...»
«Yuri!» intervenne severa la Boranova.
Konev deglutì. «Adesso mi accuserai ancora di essere polemico... Be’, Natalya, allora diglielo tu di escogitare qualcosa che gli permetta di stabilire da che direzione arrivano i segnali più forti.»
«Per favore, Albert, prova» disse la Boranova. «Se non ci riuscirai, pazienza, dovremo avanzare alla cieca in questa giungla di collagene sperando di trovare qualcosa entro breve tempo.»
«Stiamo avanzando anche adesso» osservò Dezhnev, il tono quasi allegro «ma io continuo a non vedere niente.»
Ancora arrabbiato, Morrison attivò il computer, inserendo la ricezione. Lo schermo tremolò, ma era solo rumore indistinto... anche se più intenso di quanto non fosse stato nel capillare.
Finora, Morrison aveva sempre usato dei cavi da microposizionare all’interno dei nervi. Dove poteva inserirli, adesso? Non aveva nervi in cui inserirli, o meglio, era all’interno di un cervello, il che rendeva anomala l’intera procedura di posizionamento... Forse, però, se avesse lasciato che i cavi (irrigiditi il più possibile) galleggiassero nell’aria, separati come antenne... sì, forse a qualcosa sarebbero serviti, malgrado la loro apertura minuscola date le dimensioni attuali...
Piegò e ripiegò i cavi, che rimasero ritti come le antenne di un insetto (la parola antenna aveva proprio quell’origine). Poi, nei limiti del possibile, regolò la ricezione, e all’improvviso il tremolio sullo schermo si trasformò in onde profonde e strette... ma solo per un attimo. Involontariamente, Morrison si lasciò sfuggire un grido.
«Cos’è successo?» chiese allarmata la Boranova.
«Ho captato qualcosa. Solo uno sprazzo... Già sparito.»
«Prova ancora.»
Morrison alzò lo sguardo. «Ascoltate... tutti quanti. State zitti. Non è facile usare questa apparecchiatura, e ci riesco meglio se dispongo della massima concentrazione. Capito? Niente rumori. Niente.»
«Cos’hai captato?» domandò sottovoce Konev.
«Cosa?»
«Lo sprazzo... Io sprazzo che hai ricevuto. Possiamo sapere cos’era?»
«No. Non lo so. Voglio ascoltare ancora.» Morrison si girò. «Natalya, io non posso dare ordini, tu sì. Non devo essere disturbato da nessuno, soprattutto da Yuri.»
«Staremo tutti in silenzio, Albert. Procedi pure... Yuri, non una parola.»
Morrison guardò alla propria sinistra, perché si era sentito toccare la mano. Sophia lo stava fissando, con un lieve sorriso sul volto, e, accentuando il movimento della labbra perché lui capisse quel mormorio impercettibile, disse: «Non badare a lui. Fagli vedere! Dagli una dimostrazione!»
Gli occhi le scintillavano. Morrison non poté fare a meno di rispondere con un sorriso caloroso. Forse il comportamento di Sophia era totalmente condizionato dal suo desiderio di vendetta nei confronti dell’uomo che l’aveva abbandonata, ma a Morrison piaceva la sua espressione rassicurante e fiduciosa.
Da quanto tempo una donna non lo guardava orgogliosa e fiduciosa nelle sue capacità? Da quanti anni Brenda aveva perso orgoglio e fiducia?
Fu scosso da uno spasmo di autocommiserazione, e dovette aspettare un istante.
Tornò a concentrarsi sulla sua apparecchiatura. Cercò di escludere il mondo esterno, di dimenticare la sua situazione, di pensare solo al computer, alle lievi fluttuazioni del campo elettromagnetico prodotte dallo scambio di ioni di sodio e potassio attraverso la membrana neuronica.
Lo schermo guizzò ancora, si stabilizzò, mostrò una serie di picchi e di avvallamenti. Con estrema cautela, non osando quasi toccare i tasti, Morrison inserì un comando di espansione. I picchi e gli avvallamenti s’ingigantirono, uscirono dallo schermo. Sull’unico picco e sull’unico avvallamento che rimasero c’era una vibrazione sfocata di ampiezza minore.
“Sta registrando le onde” pensò Morrison. Non voleva dirlo, aveva paura... non voleva nemmeno pensarlo con troppa intensità, per timore che il minimo effetto fisico o mentale bastasse a cancellare tutto.
La minuscola vibrazione... le onde scettiche, come le chiamava lui... andava e veniva, non appariva mai stabile e nitida.
Niente di sorprendente. Forse stava captando i campi di diverse cellule che non corrispondevano esattamente. C’era anche l’effetto isolante dello scafo di plastica della nave. C’era la scossa continua del moto browniano. Forse c’era anche un’interferenza causata dalla carica dei gruppi di atomi all’esterno del campo di miniaturizzazione.
Era sorprendente che avesse captato delle onde, se mai.
Lentamente, toccò l’antenna... fece scivolare le dita su e giù... prima una mano, poi l’altra, poi contemporaneamente, poi in direzioni opposte. Quindi, piegò adagio l’antenna, da una parte, dall’altra. Le onde scettiche apparivano più intense, poi sfocate, ma Morrison non sapeva di preciso cosa stesse facendo perché si intensificassero.
A un certo punto, le minuscole oscillazioni s’intensificarono in modo netto. Un lieve spostamento in un paio di direzioni creava dei disturbi, ma in una particolare direzione erano chiare. Morrison fece uno sforzo per impedire che le sue mani tremassero.
«Arkady?»
«Sì, mio mago americano?» fece Dezhnev.
«Curva a sinistra e sali un poco verso l’alto. Non voglio parlare troppo.»
«Dovrò curvare attorno alle fibre.»
«Curva adagio. Se vai troppo veloce perderò la sintonia.»
Morrison represse l’impulso di spostare lo sguardo a sinistra, verso la Kaliinin. Una sola occhiata a quel viso e avrebbe pensato inevitabilmente alla sua bellezza... una distrazione sufficiente a offuscare lo schermo. Perfino il pensiero della distrazione creò un disturbo abbastanza forte da far tremolare l’onda.
Dezhnev stava virando descrivendo il solito arco ampio consentitogli dall’eccentricità dei motori, e Morrison seguì il movimento della nave spostando piano l’antenna. Di tanto in tanto mormorava una breve istruzione: «In alto, a destra. Giù. Un po’ a sinistra.»
Infine disse con voce soffocata: «Avanti dritto.»
“Dovrebbe diventare più facile, man mano che ci avviciniamo” rifletté, ma non poteva rilassarsi finché non avessero visto effettivamente un neurone. E, in quella macchia folta di collagene, probabilmente lo avrebbero visto soltanto quando si fossero trovati in pratica addosso al neurone.
Concentrarsi su un’unica cosa era faticoso come contrarre un muscolo e tenerlo contratto. Morrison doveva introdurre una lieve variazione, almeno. Doveva pensare a qualcos’altro, ma a qualcosa di neutro, che gli permettesse di rilassare la mente per un po’. Così pensò alla famiglia distrutta... perché aveva pensato ai familiari così spesso che ormai si trattava di un’immagine sbiadita che non suscitava più alcuna sensazione in lui. Era una fotografia sempre più grigia e logora, e Morrison poteva escluderla in una frazione di secondo e tornare a contemplare unicamente le onde scettiche.
Poi, senza preavviso, di prepotenza, un altro pensiero invase la sua mente. Era una nitida immagine mentale di Sophia Kaliinin, più giovane, più bella, e più felice di quanto non gli fosse sembrata nel breve periodo successivo al loro incontro. E l’immagine era accompagnata da un vortice caotico d’amore, di frustrazione e di gelosia che lo frastornò.
Erano sentimenti che Morrison non aveva percepito a livello conscio, ma chissà quali pensieri e sentimenti inconsci potevano celarsi nelle sue cellule cerebrali? La Kaliinin? Provava quell’insieme di cose per lei? Dopo così poco tempo? O era stata la tensione abnorme di quel fantastico viaggio nel cervello a provocare reazioni abnormi?
Fu solo allora che notò che il segnale sullo schermo era completamente sfocato. Stava per lanciare un grido di avvertimento a Dezhnev e chiedergli di spegnere i motori per tentare di captare di nuovo le onde quando la voce di Dezhnev risuonò.
«Eccola, Albert. Ci hai guidato dritti alla cellula come un segugio. Complimenti!»
«Complimenti anche a Yuri» disse la Boranova, osservando l’espressione cupa di Konev «che ha avuto questa idea e ha convinto Albert a provare.»
Il volto di Konev si rilassò, e Dezhnev disse: «Ma adesso, come facciamo a entrare?»
56
Morrison osservò interessato il panorama che aveva di fronte. Vide una parete corrugata che si estendeva in tutte le direzioni, fin dove arrivava il fascio di luce della nave. I crinali erano spezzettati in tante cupole e, osservando attentamente, la parete sembrava quasi una scacchiera con le caselle in rilievo. Tra i rigonfiamenti spuntavano delle appendici sfilacciate, specie di funi corte e spesse, che conferivano alla parete un’aria lacera.
Morrison, con un certo sforzo, tenne conto della propria miniaturizzazione e capì che i rigonfiamenti erano le estremità delle molecole (fosfolipidiche, immaginò) che formavano la membrana della cellula. Capì anche, con sgomento, cosa significasse avere le dimensioni di una molecola di glucosio. La cellula era un corpo enorme... rispetto alle dimensioni attuali della nave doveva avere un’estensione di parecchi chilometri.
Pure Konev stava fissando la membrana cellulare, ma interruppe la contemplazione prima di Morrison.
Disse: «Non sono sicuro che questa sia una cellula cerebrale... o, almeno, un neurone.»
«Che altro può essere?» fece Dezhnev. «Siamo nel cervello, e questa è una cellula.»
Konev non si curò minimamente di reprimere il disgusto che gli si leggeva in faccia. «Non c’è un solo tipo di cellula cerebrale. Il neurone è la cellula importante, l’agente principale della mente. Nel cervello umano ci sono dieci miliardi di neuroni. Ci sono anche circa cento miliardi di cellule gliali di diversi generi, che svolgono funzioni ausiliarie e di supporto. Sono molto più piccole dei neuroni. Dunque, ci sono dieci probabilità contro una che questa sia una glia. Le onde cerebrali sono nei neuroni.»
La Boranova disse: «Non possiamo affidarci soltanto al caso, Yuri. Non puoi stabilire con precisione se siamo di fronte a una glia o a un neurone lasciando perdere la statistica?»
«Guardando e basta? No. Da queste dimensioni, vedo solo una piccola parte di membrana cellulare, e a questo livello tutte le cellule sembrano uguali. Dovremo ingrandirci, per avere una panoramica più ampia... Immagino che adesso possiamo espanderci, Natalya. In fin dei conti, abbiamo superato la giungla di collagene, come è stata chiamata.»
«Possiamo deminiaturizzarci, se necessario» disse la Boranova «ma l’espansione è più noiosa e rischiosa della riduzione. L’espansione genera calore, e va fatta lentamente. Non c’è altra soluzione?»
Konev rispose acido: «Potremmo provare ancora con lo strumento di Albert... Albert, sai dirci se le onde scettiche che ricevi provengono da qui di fronte o da una direzione leggermente diversa?»
Morrison esitò. Prima di perdere il contatto l’attimo precedente all’avvistamento della cellula, c’era stata quella visione della Kaliinin, e lui non voleva che tornasse. Era troppo imbarazzante, troppo sconvolgente. Se la sua mente sopprimeva e nascondeva dei sentimenti, significava che era meglio relegarli nell’inconscio.
Disse incerto: «Non sono sicuro di...»
«Prova» insisté Konev.
I quattro sovietici lo stavano guardando intensamente. Stringendosi nelle spalle, Morrison mise in funzione il computer. Dopo avere eseguito qualche controllo, disse: «Ricevo le onde, Yuri, ma non sono forti come durante la fase di avvicinamento.»
«Aumentano d’intensità in un’altra direzione?»
«Un po’, da un’angolazione più alta... ma torno a ripetervi che la direzionalità del mio impianto è molto rudimentale.»
«Già, come la nave di cui ti lamenti... Ecco cos’è successo secondo me, Natalya. Venendo qui, siamo riusciti a captare un neurone direttamente sopra la sommità di una glia posta proprio davanti al neurone. Vedendo la glia, ovvio, Arkady si è diretto da questa parte... e adesso la massa della cellula nasconde il neurone e le onde che riceviamo sono più deboli.»
«In tal caso» disse la Boranova «dobbiamo superare la glia e raggiungeremo il neurone.
«E in tal caso» fece Konev «sostengo ancora che dobbiamo deminiaturizzarci. Alle nostre dimensioni attuali, la distanza da percorrere per scavalcare la glia potrebbe essere di cento o centocinquanta chilometri. Decuplicandoci, portandoci, diciamo, alle dimensioni di una piccola molecola proteica, ridurremmo quella distanza a soli dieci o quindici chilometri.»
In tono assente, come se dovesse dire qualcosa che non aveva alcun legame con quanto era appena stato detto, la Kaliinin commentò: «Dovremo avere le dimensioni che abbiamo ora per entrare nel neurone, Natalya.»
Dopo una breve pausa, quasi a evitare che potesse sembrare una risposta diretta all’osservazione, Konev disse: «Certo. Una volta raggiunto il neurone modificheremo le nostre dimensioni nel modo che riterremo più opportuno.»
La Boranova sospirò, apparentemente immersa nei propri pensieri.
Con insolita gentilezza, Konev disse: «Natalya, dovremo espanderci prima o poi. Non possiamo rimanere grandi quanto una molecola di glucosio in eterno.»
«Detesto l’idea di deminiaturizzarci più spesso del dovuto» fece la Boranova.
«Ma in questo caso dobbiamo, Natalya. Non possiamo perdere ore intere a viaggiare lungo una membrana cellulare. E a questo stadio una deminiaturizzazione decupla comporta una variazione energetica bassissima.»
Morrison intervenne. «Non è che avviato il processo potrebbe innescarsi una deminiaturizzazione continua, incontrollata ed esplosiva?»
«Un’intuizione corretta, la tua, Albert» osservò la Boranova. «Senza conoscere alcun aspetto teorico della miniaturizzazione, riesci a cogliere i punti essenziali. Una volta iniziata la deminiaturizzazione, è più prudente lasciare che il processo continui. Interromperlo comporta qualche rischio.»
«Si rischia anche conservando le dimensioni di una molecola di glucosio per più ore del necessario» commentò Konev.
«È vero» annuì la Boranova.
Dezhnev propose: «Dobbiamo fare una votazione e decidere democraticamente?»
Al che, la Boranova drizzò il capo di scatto e i suoi occhi scuri parvero sprizzare lampi. Sporgendo il mento in una posa risoluta, disse: «No Arkady. La responsabilità della decisione spetta a me... e aumenterò le dimensioni della nave.» Poi abbandonando l’atteggiamento autoritario soggiunse: «Naturalmente potete augurarmi buona fortuna.»
«Perché no?» fece Dezhnev. «È come augurare buona fortuna a tutti quanti.»
La Boranova si chinò sulle sue apparecchiature. Morrison provò a osservarla, ma si stancò presto. Tanto non vedeva bene cosa stesse facendo, e anche se avesse visto bene non avrebbe capito, e poi il collo cominciava a fargli male per lo sforzo di rimanere girato. Guardò di fronte a sé, allora, e scoprì che Konev si era parzialmente voltato e sbirciava nella sua direzione.
«A proposito delle onde scettiche captate» disse Konev.
«Sì?» fece Morrison.
«Quando stavamo raggiungendo questa cellula attraversando la giungla di collagene...»
«Sì sì, allora?»
«Hai percepito delle... delle immagini?»
Morrison ricordò la visione sconvolgente di Sophia Kaliinin. Adesso nella sua mente non c’era più niente del genere. Anche se ci pensava, la visione non suscitava alcuna reazione in lui. Chissà cos’era quella cosa che si celava nella sua mente? Morrison sapeva solo che, stando alle apparenze, era emersa soltanto in seguito alla massiccia stimolazione da parte delle onde scettiche concentrate. E, fosse quel che fosse, Morrison non intendeva raccontare l’accaduto a Konev... né a nessun altro.
Temporeggiò. «Perché avrei dovuto percepire delle immagini?»
«Perché a volte le hai percepite, analizzando le onde scettiche a intensità normale.»
«Dunque, secondo te l’analisi durante la miniaturizzazione dovrebbe produrre un’intensità maggiore o essere più efficace per quanto riguarda la creazione di immagini...»
«È un’ipotesi ragionevole. Ma le hai percepite o no? La mia non è una domanda teorica. La mia domanda riguarda un’osservazione diretta. Hai percepito delle immagini?»
Morrison, con un sospiro interiore, rispose: «No.»
Konev continuò a fissarlo, e Morrison cominciò a sentirsi un po’ a disagio e abbastanza arrabbiato, quindi disse sottovoce: «Io, sì.»
«Davvero?» Morrison spalancò gli occhi, sorpreso. «Cos’hai percepito?» chiese poi, circospetto.
«Non molto... Però tu avresti dovuto percepire tutto con maggior chiarezza, secondo me. Vicino alla tua apparecchiatura c’eri tu, la manovravi tu, e probabilmente è più in sintonia col tuo cervello.»
«Insomma, cos’hai percepito? Puoi descriverlo?»
«Una specie di guizzo, qualcosa che oscillava tra il conscio e l’inconscio. Mi è sembrato di vedere tre figure umane... una più grande delle altre.»
«E cos’hai dedotto?»
«Be’, Shapirov ha una figlia, che adora... e la figlia ha due bambini, che Shapirov adora... Immagino che nel suo stato comatoso possa avere pensato a loro, o abbia creduto di vederli. Chi può dire cosa avviene quando uno è in coma?»
«Conosci sua figlia e i bambini? Li hai riconosciuti?»
«Vedevo tutto... come attraverso un vetro semitrasparente, in una luce crepuscolare. Sono riuscito solo a distinguere tre figure.» Konev sembrava deluso. «Speravo che tu avessi visto l’immagine in modo più nitido.»
«Non ho visto né percepito niente del genere» disse Morrison.
«Certo, all’interno di un neurone le cose dovrebbero essere più chiare» fece Konev. «Comunque, non dobbiamo percepire delle immagini. A noi interessa sentire delle parole.»
«Mai sentito parole.» Morrison scosse la testa.
«Naturale» disse Konev. «Hai studiato degli animali che non usano le parole.»
«Vero» ammise Morrison. «Ma una volta sono riuscito a fare qualche esperimento con un essere umano, anche se non ho mai rivelato la cosa. Non ho percepito né parole né immagini.»
Konev si strinse nelle spalle.
Morrison disse: «Sai, date le circostanze, forse è naturale che la mente di Shapirov sia rivolta alla famiglia... se accettiamo la tua interpretazione di quel che credi di avere percepito. Mi pare poco probabile che possa pensare a qualche ampliamento esoterico degli aspetti matematici della miniaturizzazione.»
«Shapirov era un fisico. Perfino la sua famiglia passava in secondo piano rispetto a questo. Se da quelle onde scettiche riusciremo a ricevere delle parole, saranno parole riguardanti la fisica.»
«Lo pensi proprio, eh?»
«Ne sono certissimo.»
I due stettero zitti, e per alcuni minuti a bordo della nave regnò il silenzio. Poi la Boranova annunciò: «Ho deminiaturizzato la nave portandola a livello proteico, e ho interrotto il processo.»
Un attimo dopo, la voce stranamente tesa, Dezhnev chiese: «Tutto a posto, Natasha?»
«Il semplice fatto che tu possa rivolgermi questa domanda, Arkady, è una risposta affermativa. La deminiaturizzazione si è interrotta senza incidenti.»
La Boranova sorrise, ma sulla sua fronte si notava benissimo il luccichio di un velo di sudore.
57
La superficie della cellula gliale si estendeva ancora a perdita d’occhio nell’oscurità oltre la luce della nave, ma era cambiata. Le cupole e i crinali erano quasi scomparsi e formavano una trama fine. Le funi tra le cupole erano diventati fili che era quasi impossibile vedere, mentre la nave avanzava spedita lungo la superficie.
Morrison teneva d’occhio per lo più il computer, per controllare che l’intensità delle onde scettiche non diminuisse, ma ogni tanto non poteva fare a meno di distrarsi e guardare il panorama esterno.
Occasionalmente, dalla superficie della cellula emergevano le tipiche appendici dendritiche di una cellula nervosa, perfino se si trattava di una glia con funzioni puramente sussidiarie. Affioravano dalla membrana e si ramificavano, e le ramificazioni si ramificavano a loro volta, come un albero spoglio.
Malgrado le nuove dimensioni della nave, i dendriti erano grossi quando emergevano dalla cellula. Erano come tronchi d’albero, che comunque si restringevano rapidamente ed erano flessibili. Non possedendo la rigidità delle fibre cartilaginee, ondeggiavano nei mulinelli provocati dallo spostamento della nave nel fluido extracellulare. Ondeggiavano parecchio all’avvicinarsi della nave, ed era raro che Dezhnev dovesse fare qualcosa per evitarli. Si ritraevano, piegandosi, e lo scafo li superava senza danni.
Le fibre di collagene erano meno numerose nelle immediate vicinanze della cellula e, grazie alle maggiori dimensioni della nave, erano molto più sottili e fragili. Una volta, o Dezhnev non vide la fibra che si profilava di fronte allo scafo, o non se ne curò. Lo scafo strisciò contro la fibra all’altezza del sedile di Morrison, e Morrison sussultò nell’attimo stridente della collisione, la nave però non subì alcun danno. Fu la fibra di collagene a piegarsi, a spezzarsi, e a penzolare recisa.
Morrison si girò e seguì con lo sguardo la fibra spezzata per il brevissimo tempo in cui rimase visibile.
Anche la Boranova doveva aver visto la scena e osservato la reazione di Morrison, perché disse: «Non c’è motivo di preoccuparsi. Ci sono trilioni di fibre simili sparse nel cervello, quindi una in più o una in meno non fa una gran differenza. E poi, si rimarginano... anche in un cervello leso come quello del povero Shapirov.»
«Sarà» disse Morrison «tuttavia non posso fare a meno di pensare che stiamo irrompendo senza alcun diritto in un meccanismo infinitamente delicato non destinato all’invasione tecnologica.»
«Apprezzo i tuoi sentimenti» disse la Boranova. «Ma al mondo, a quanto pare, quasi nulla è stato creato dai processi geologici e biologici in previsione dell’interferenza umana. L’umanità fa parecchi torti alla Terra e alla vita, in parte consapevolmente... Tra parentesi, io ho sete. Tu?»
«Altroché» rispose Morrison.
«Troverai una tazza nel piccolo scomparto sotto il bracciolo destro. Passamela.»
La Boranova distribuì l’acqua a tutti, dicendo spiccia: «L’acqua non scarseggia, quindi se ne volete ancora, ditelo.»
Dezhnev guardò la propria tazza disgustato, tenendo una mano sui comandi. L’annusò, poi disse: «Mio padre diceva sempre: “L’acqua pura è una bevanda senza eguali, a patto che sia stata depurata con alcool”.»
«Sì, Arkady» fece la Boranova. «Sicuramente tuo padre depurava spesso la sua acqua, ma qui a bordo, dato che hai le mani sui comandi, dovrai accontentarti di acqua non depurata.»
«Dobbiamo tutti privarci di qualcosa di tanto in tanto.» Dezhnev mandò giù la sua acqua e fece una smorfia.
Forse era colpa dell’acqua... fatto sta che la Kaliinin cominciò ad armeggiare tra le gambe. Morrison si rese conto che era arrivato anche per lei il momento di orinare, e si girò a guardare fuori per vedere se avrebbero spezzato qualche altra fibra di collagene.
La Boranova osservò: «A rigor di logica sarebbe ora di pranzo, ma possiamo farne a meno. Tuttavia...»
«Tuttavia, cosa?» chiese Dezhnev. «C’è un bel piatto caldo di borscht con panna acida?»
«No. In barba ai regolamenti, ho portato a bordo del cioccolato... ipercalorico, e niente fibre residue.»
La Kaliinin, che aveva gettato la salviettina umida e stava scuotendo le mani per asciugarle, disse: «Ci carierà i denti.»
«Non subito» disse la Boranova. «E puoi sciacquarti la bocca con un po’ d’acqua per eliminare in parte lo zucchero: Chi ne vuole?»
Quattro mani si alzarono, e quella della Kaliinin non fu l’ultima. Morrison gradì il suo pezzetto. Il cioccolato gli piaceva, e lo succhiò per farlo durare il più possibile. Quel gusto gli ricordava in maniera acuta la sua fanciullezza nei sobborghi di Muncie.
Il cioccolato si era ormai sciolto quando Konev gli disse sottovoce: «Non hai percepito nulla mentre costeggiavamo la cellula gliale?»
«No» rispose Morrison. Era vero. «E tu?»
«Mi è sembrato di sì. L’espressione “campi verdi” mi ha attraversato la mente.»
«Hmmm» non poté fare a meno di dire Morrison, e per un po’ si immerse nei propri pensieri.
«Be’?» fece Konev.
Morrison si strinse nelle spalle. «La nostra mente è attraversata di continuo da espressioni verbali. Senti qualcosa con la coda dell’orecchio, per così dire, e a volte dopo un po’ affiora a livello di coscienza; o una serie di pensieri e associazioni ti invade la mente, e qualcosa resta; o puoi avere un’allucinazione uditiva.»
«Mi ha attraversato la mente quando stavo guardando il tuo strumento e mi stavo concentrando.»
«Volevi percepire qualcosa, immagino, e qualcosa ti ha accontentato subito guizzandoti nella mente come reazione. Succede lo stesso nei sogni.»
«No. Era reale, non un sogno.»
«Come puoi dirlo, Yuri? Io non ho avvertito niente del genere. Qualcun altro ha avuto questa percezione, secondo te?»
«Impossibile. Nessun altro stava concentrandosi sulla tua apparecchiatura. Forse nessun altro a bordo ha un cervello abbastanza uguale al tuo da percepire sulla tua lunghezza d’onda, per così dire.»
«Sono solo supposizioni. E poi, cosa significano quelle parole?»
«Campi verdi? Shapirov aveva una casa in campagna. Normale che ricordi i campi verdi.»
«Può darsi che lui ti abbia fornito soltanto l’immagine, e che le parole le abbia aggiunte tu.»
Konev corrugò la fronte, esitò un attimo, quindi con chiara ostilità disse: «Perché sei così contrario alla possibilità di ricevere un messaggio?»
Con pari ostilità, Morrison rispose: «Perché parlando di percezioni del genere mi sono rovinato. Sono stato ridicolizzato abbastanza, e sono diventato prudente. L’immagine di una donna e due bambini non ci dice nulla. E neppure un’espressione come “campi verdi”. Prima di fare delle dichiarazioni ufficiali dovresti essere in grado di stabilire di preciso se si tratta o meno di immagini o espressioni prodotte da te... Ascolta, Yuri, un’indicazione per essere utile deve ricollegarsi, anche se in modo vago e indiretto, al rapporto teoria quantistica-relatività. In tal caso potremo riferire. Qualsiasi altra cosa non sarà abbastanza convincente, non verrà creduta. Ci danneggerà e basta. Parlo per esperienza.»
Konev disse: «E se tu riuscissi a sentire qualcosa di importantissimo, qualcosa collegato al nostro progetto? Lo terresti per te magari?»
«Perché dovrei? Se percepissi dei dati di fisica riguardanti la miniaturizzazione, mi mancherebbero le basi per capirli e tenendoli per me non concluderei nulla. Se metteremo in comune eventuali risultati utili, ricorda che questo computer rimane sempre la mia macchina e funziona in base alle mie teorie. La parte di merito maggiore toccherà a me. No, non terrò nulla per me, Yuri. Il mio interesse personale e il mio onore di scienziato non me lo consentono... Tu, piuttosto?»
«È naturale che dividerò con gli altri quel che percepisco. L’ho appena fatto.»
«Non parlo di “campi verdi”. Quelle sono sciocchezze. Se tu percepissi qualcosa di importante, e io non la percepissi, non potresti considerarlo un segreto di Stato, proprio come la miniaturizzazione? Mi metteresti al corrente, rischiando di attirare su di te l’ira del Comitato centrale di coordinamento?»
Avevano parlato a voce bassissima, con le teste che quasi si toccavano, ma le orecchie della Boranova captarono la parola chiave. «Politica, signori?» chiese glaciale la comandante.
Konev disse: «Stiamo discutendo degli usi possibili dell’apparecchiatura di Albert, Natalya. Albert pensa che, se dovessi scoprire dati importanti grazie alle onde scettiche di Shapirov, non glieli rivelerei adducendo come scusa il segreto di Stato.»
La Boranova osservò: «Potrebbero benissimo essere un segreto di Stato.»
«La collaborazione di Albert ci serve» osservò pacato Konev. «L’apparecchiatura e il programma sono suoi, e sicuramente sa come non sfruttarne al massimo l’efficienza. Se non gli garantiamo la nostra onestà e la nostra buona fede, può darsi che faccia in modo di non lasciarci percepire nulla. Io sono pronto a dividere tutto quello che percepisco, se lui farà altrettanto.»
«Il Comitato potrebbe disapprovare, come ha osservato Albert stesso» disse la Boranova.
«Disapprovi pure. Non mi interessa» replicò Konev.
«Ti dimostrerò che ti voglio bene, Yuri» intervenne Dezhnev ridacchiando. «Non citerò questa tua frase.»
«Natalya» disse la Kaliinin «sono d’accordo che dovremmo essere onesti con Albert. dato che dobbiamo chiedergli di essere onesto con noi. Usando la sua apparecchiatura, con cui ha esperienza, è molto più probabile che sia lui a ottenere qualcosa di utile. Una politica di scambio sarà indubbiamente più vantaggiosa per noi che per lui... Vero, Albert?»
Morrison annuì. «Proprio quello che stavo pensando, e lo avrei accennato se mi aveste detto che la politica governativa non prevedeva un atteggiamento onesto nei miei confronti.»
La Boranova disse: «Be’, aspettiamo il corso degli eventi.» La tensione si spense.
Morrison rimase assorto nei propri pensieri, guardando il computer solo distrattamente.
Poi Dezhnev annunciò: «C’è un’altra cellula di fronte... a circa un paio di chilometri. Sembra più grande di quella che abbiamo superato. È un neurone, Yuri?»
Konev, che aveva assunto un atteggiamento meditabondo, si fece subito attentissimo. «Albert, cosa dice il tuo computer? È un neurone?»
Morrison stava già controllando col computer. «Dev’essere proprio un neurone» rispose. «Non ho mai visto le onde scettiche così marcate.»
«Bene!» esclamò Dezhnev. «E adesso?»
58
La Kaliinin osservò pensierosa la superficie della cellula sottostante. «Natalya, dovremo miniaturizzarci di nuovo alle dimensioni di una molecola di glucosio. Arkady, passa tra i dendriti e scendi sulla superficie del corpo cellulare.»
Anche Morrison osservò la superficie. I dendriti erano molto più elaborati di quelli della glia. Il più vicino si ramificava in continuazione fino a trasformarsi in una specie di fronda sfocata che si perdeva al di là della luce della nave. Altri, più in là, erano più sfocati e più piccoli.
Morrison sospettava che la sfocatura fosse almeno in parte una conseguenza del moto browniano... anche se in effetti non poteva essere tanto forte. Probabilmente ogni filo finale delle ramificazioni, ogni rametto, incontrava un rametto simile o qualche neurone limitrofo formando quel quasi-contatto intimo chiamato sinapsi. L’ondeggiamento del rametto dunque non poteva essere abbastanza forte da interrompere il contatto, o il cervello non avrebbe potuto svolgere il proprio compito.
Dezhnev guidò la nave verso la superficie del corpo cellulare, scivolando lentamente oltre il dendrite più vicino – stava imparando ad adoperare la spinta sbilanciata dei motori individuali con una certa maestria, rifletté Morrison – e, man mano che lo scafo si avvicinava, a Morrison sembrò che la superficie del neurone stesse cambiando configurazione. Be’, doveva essere per forza così, dal momento che la nave si stava ancora miniaturizzando. I corrugamenti sulla superficie cellulare stavano diventando più pronunciati e si stavano dividendo in tante cupole. Tra le cupole fosfolipidiche i filamenti stavano ispessendosi. Recettori, pensò Morrison. Ognuno di essi era destinato a unirsi a una particolare molecola utile al neurone, e certamente il glucosio era la più utile di tali molecole.
La riduzione era molto più rapida dell’espansione. Assorbire energia era semplice, mentre lo sprigionamento energetico della deminiaturizzazione era pericoloso. Ormai, questo Morrison lo capiva bene.
Aggrottando le ciglia preoccupata, la Kaliinin disse: «Non so quali siano i recettori del glucosio, ma buona parte di questi dovrebbero esserlo... Sfiorali lentamente, Arkady... molto lentamente. Se ci catturano, non voglio che ci stacchiamo... e non voglio nemmeno che li strappiamo.»
«Nessun problema, piccola Sophia» rispose Dezhnev. «Se spengo i motori, la nave si ferma subito. Non è facile avanzare tra gli atomi giganti che ci circondano. Troppa viscosità. Quindi alla nave do solo un pizzico di energia, sufficiente a farci largo tra le molecole d’acqua... e vedrai che passeremo tra i recettori in punta di piedi.»
«Tra i tulipani» disse Morrison guardando Konev.
«Cosa?» fece Konev, l’espressione seccata e perplessa.
«È una frase che mi ha attraversato la mente. C’è un vecchio motivo intitolato Vieni in punta di piedi tra i tulipani con me. Le parole in inglese sono...»
«Che sciocchezze stai dicendo?» scattò Konev.
«Sto cercando di spiegare che ogni volta che qualcuno mi dice “in punta di piedi”, io automaticamente sento nella testa le parole “tra i tulipani”. Se mi stessi concentrando sul computer e qualcuno dicesse “in punta di piedi”, mentalmente sentirei ugualmente quelle parole ma non proverrebbero dalle onde scettiche del computer. Capisci cosa intendo dire?»
«Stai parlando a vuoto» disse Konev. «Lasciami in pace.»
Però sembrava scosso. Aveva capito, pensò Morrison.
Adesso procedevano paralleli alla superficie del neurone. I recettori si muovevano adagio, e Morrison si rese conto di non riuscire a distinguere quali fossero vuoti e quali si fossero fissati ad alcune delle molecole che scorrevano nel fluido extracellulare.
Provò a concentrarsi su quelle molecole. Sembrava che ci fossero dei luccichii nel fluido... forse erano le molecole che riflettevano il fascio luminoso della nave, però non ce n’era nemmeno una che risaltasse bene. Perfino la superficie della membrana cellulare non era proprio chiara se la si osservava attentamente. Più che una vera superficie era l’impressione surreale di una superficie... I fotoni riflessi erano troppo pochi, e a loro ne arrivavano pochissimi date le loro dimensioni ultraridotte.
Tuttavia, nel luccichio, Morrison scorse una specie di granulosità nel fluido che stavano attraversando... molecole d’acqua, certamente, e tra le molecole, di tanto in tanto, c’era qualcosa di vermicolare... che si contorceva, girava, si chiudeva, e poi si riapriva. Le immediate vicinanze della nave, naturalmente, erano all’interno del campo di miniaturizzazione, così gli atomi e le molecole del mondo normale si riducevano di continuo entrando nel campo e si espandevano di nuovo uscendone. Il numero di atomi coinvolti nel processo doveva essere enorme ma la variazione energetica conseguente, anche moltiplicata per quel numero, era abbastanza limitata da non consumare in modo percettibile le riserve della nave, e da non provocare la deminiaturizzazione spontanea o altri danni... Almeno, sembrava che non provocasse alcun danno.
Morrison cercò di non pensarci.
La Boranova disse: «Non intendo mettere in dubbio le tue capacità, Sophia... ma, per favore, controlla che la nave abbia la struttura elettrica del glucosio.»
«Ti assicuro che ce l’ha» rispose la Kaliinin.
E, quasi a confermare la veridicità dell’affermazione, la nave parve rovesciarsi mentre procedeva nel fluido, a giudicare dal cambiamento improvviso del panorama attraverso le pareti.
In condizioni normali, una torsione del genere avrebbe proiettato con violenza tutte le persone a bordo contro la parete o i braccioli dei sedili. Massa e inerzia, però, erano in pratica inesistenti, e ci fu solo un lieve ondeggiamento, quasi identico all’oscillazione che ormai collegavano con il moto browniano.
La Kaliinin annunciò: «Ci siamo fissati a un recettore del glucosio.»
«Bene» disse Dezhnev. «Ho spento il motore. Adesso che facciamo?»
«Nulla» rispose la Kaliinin. «Lasceremo che la cellula faccia il suo lavoro e aspetteremo.»
Il recettore non entrò in contatto vero e proprio con la nave. Era meglio così, perché se si fosse avvicinato ulteriormente sarebbe entrato nel campo di miniaturizzazione e la sua estremità si sarebbe spezzata. Invece, ci fu solo un incontro ravvicinato di campi elettrici, negativo-positivo e positivo-negativo. Non era un’attrazione forte di tipo ionico, bensì una che assomigliava al legame d’idrogeno. Era sufficiente a trattenere, ma abbastanza debole da consentire alla nave di rimanere un po’ staccata... come se fosse collegata al recettore mediante degli elastici e non con dei grappini.
Il recettore si estendeva per tutta la lunghezza della nave, e il suo contorno era irregolare, come se sullo scafo di plastica che stava inglobando ci fosse una serie di protuberanze. Lo scafo appariva perfettamente liscio, certo... ma Morrison era sicurissimo che ci fosse un campo elettrico sporgente proprio nei punti dei gruppi ossidrilici della struttura glucopiranosica, che le protuberanze avessero proprio la forma che avrebbero avuto nella molecola naturale.
Guardò ancora fuori. Il recettore ostruiva in pratica la visuale sul lato della nave lungo il quale,si era posato. Oltre il recettore, però, Morrison riuscì a scorgere un tratto ulteriore della superficie del neurone, apparentemente sconfinato, perché si perdeva in lontananza al di là della luce della nave.
Sembrava che la superficie neuronica ondeggiasse leggermente, e Morrison poté cogliere maggiori dettagli. Tra le cupole regolari della schiera di molecole fosfolipidiche, di tanto in tanto si intravedeva una massa irregolare, che a giudizio di Morrison doveva essere una molecola proteica che attraversava lo spessore della membrana cellulare. I recettori erano attaccati a quelle molecole, il che non sorprese Morrison. Sapeva che i recettori dovevano essere peptidi, catene di amminoacidi. Facevano parte di un’ossatura proteica, sporgevano, e ogni recettore era composto di amminoacidi differenti in un ordine preciso così da possedere una struttura di campo elettrico che si adattasse (come forma fisica e polarità opposte) a quella della molecola che doveva catturare.
E, mentre osservava, ebbe l’impressione che i recettori stessero muovendosi verso di lui. Ora riusciva a vederne un numero maggiore, e il numero aumentava sempre più. Sembrava che i recettori e le molecole proteiche a cui erano attaccati stéssero nuotando tra le molecole fosfolipidiche (con un sottile strato di molecole di colesterolo al di Sono, rifletté Morrison), che si aprivano e si richiudevano.
«Sta accadendo qualcosa» disse Morrison, e sentì il movimento della nave nella lievissima spinta dell’inerzia che rimaneva ai loro corpi di massa ormai insignificante.
59
Konev disse: «La superficie ci sta raccogliendo.»
Dezhnev annuì. «Pare proprio che stia facendo così.» E alzò una mano grossa e callosa, chiudendola a coppa.
«Esatto» disse Konev. «Si invaginerà, formerà una sacca sempre più profonda, l’imboccatura si restringerà e alla fine si chiuderà. e saremo all’interno della cellula.» Sembrava calmissimo all’idea.
Anche Morrison. Volevano entrare nella cellula, e per entrare si faceva così.
I recettori continuarono a unirsi. Lungo ognuno di loro c’era qualche molecola... qualche molecola vera, e in mezzo a quelle c’era la finta molecola della nave. La superficie della cellula, come la mano a coppa di Dezhnev, si chiuse interamente e li attirò all’interno.
«E adesso?» chiese Dezhnev.
«Siamo in una vescicola dentro la cellula» disse la Kaliinin. «L’acidità aumenterà e il recettore si staccherà da noi, ritornando con tutti gli altri recettori alla membrana cellulare.»
«E noi?» insisté Dezhnev.
«Dal momento che in base al nostro campo elettrico riconosce in noi una molecola di glucosio» spiegò la Kaliinin «la cellula cercherà di metabolizzarci... di romperci in frammenti più piccoli e di estrarre da noi dell’energia.»
Mentre parlava, il recettore peptidico si staccò, svolgendosi.
«È una buona idea, farci metabolizzare?» domandò Dezhnev.
«Non ci metabolizzerà» disse Morrison. «Ci uniremo a una molecola enzimatica appropriata, che scoprirà che non reagiamo nel modo previsto. Non prenderemo un gruppo fosfatico, quindi la molecola non saprà che fare e probabilmente ci lascerà andare. Non siamo una molecola di glucosio, in realtà.»
«Ma se la molecola enzimatica ci lascerà andare, non si attaccherà a noi un’altra molecola dello stesso tipo per provare di nuovo... e così via all’infinito?»
«Ora che lo dici... può darsi che la prima molecola non ci lasci andare se non ci comporteremo nel modo previsto» fece Morrison sfregandosi il mento e prendendo atto di sfuggita della peluria ispida cresciuta dopo la rasatura mattutina.
«Bella situazione» commentò Dezhnev indignato, passando al suo vernacolo russo, un dialetto che adottava sempre quando si scaldava, e che Morrison seguiva sempre con una certa difficoltà. «Il meglio che possiamo aspettarci è che una molecola enzimatica ci tenga stretti in eterno da sola o che cominci una staffetta passandoci a un’altra molecola che poi ci-passerà a un’altra ancora, e avanti all’infinito... Mio padre diceva: “Quando a salvarti dalle fauci di un lupo è un orso affamato non hai motivo di essere tanto riconoscente”.»
«Vi faccio notare che nessuna molecola enzimatica si è attaccata a noi» intervenne la Kaliinin.
«Perché mai?» chiese Morrison, che in effetti se n’era accorto.
«Per via di un lieve cambiamento della struttura di carica elettrica. Dovevamo imitare una molecola di glucosio per entrare nella cellula, ma una volta dentro, non è più necessario mantenere il travestimento. Infatti dobbiamo imitare qualcos’altro.»
La Boranova si sporse in avanti. «Ma qualsiasi molecola imitiamo non sarà soggetta al cambiamento metabolico, Sophia?»
«Per la verità, no, Natalya. Il glucosio, o qualunque altro zucchero semplice presente nel corpo, appartiene a una precisa configurazione molecolare, che noi chiamiamo D-glucosio. Io ho semplicemente alterato la struttura trasformandolo nella sua immagine speculare. Siamo diventati L-glucosio, e adesso nessun enzima ci toccherà, proprio come noi non infileremmo mai apposta il piede sinistro nella scarpa destra... Possiamo muoverci liberamente, ora.»
La vescicola formatasi al loro ingresso nell’interno della cellula si era disgregata, e Morrison giudicò vano ogni tentativo di seguire quel che stava accadendo. Attorno allo scafo c’erano dei frammenti che venivano catturati da molecole enzimatiche molto più grandi, che li stringevano e poi sembravano rilassarsi. Presumibilmente, le vittime alterate della stretta enzimatica venivano liberate per essere catturate di nuovo da altri enzimi.
Tutto avveniva contemporaneamente, e Morrison sapeva che quella era solo la parte anaerobica del processo (in cui non veniva impiegato l’ossigeno molecolare). Il processo sarebbe terminato con la frammentazione della molecola di glucosio, coi suoi sei atomi di carbonio, in due frammenti di tre atomi.
In questo modo si sarebbe prodotta un po’ di energia, e i frammenti sarebbero stati inviati ai mitocondri per il completamento del processo con l’impiego di ossigeno; un processo in cui la molecola universale addetta al trasferimento energetico, l’adenosintrifosfato (o ATP), sarebbe stata investita per avviare il fenomeno e, alla fine, sarebbe stata prodotta di nuovo in quantità nettamente superiori all’investimento.
Morrison provò l’impulso di mollare tutto e di cercare di entrare in un mitocondrio, la piccola fabbrica di energia della cellula. In fin dei conti, i particolari dei processi relativi ai mitocondri non erano ancora noti... Poi però scacciò quell’idea quasi con rabbia. Le onde scettiche avevano la precedenza. Lo gridò a se stesso, come se volesse imporre delle priorità a un cervello troppo curioso che minacciava di disperdere i propri interessi.
Apparentemente, Konev pensò la stessa cosa, poiché disse: «Siamo nel neurone, finalmente. Non facciamo i turisti. Come sono le onde scettiche, adesso?»