63

 

La nave continuò a percorrere la distesa smisurata dell’assone, e Konev dettò legge sempre più spesso.

«Qualsiasi cosa riceviate, comunicatela. Non importa se ha senso o no, se è una parola o un paragrafo. Se è un’immagine, descrivetela. Anche se credete che possa essere un pensiero vostro, riferitelo se avete il minimo dubbio.»

«Avrai un mucchio di chiacchiere senza senso» fece Dezhnev, che in apparenza era tuttora seccato per la sordità del proprio cervello.

«Certo, però due o tre indicazioni significative saranno già un ottimo risultato. E per sapere cos’è significativo dobbiamo prima esaminare tutto.»

Dezhnev chiese: «Se sento qualcosa che secondo me non è mio, devo dirlo?»

«Certo, soprattutto tu» rispose Konev. «Se sei insensibile come credi di essere, qualunque cosa tu riceva potrebbe essere particolarmente importante... Adesso, per favore, basta chiacchiere. Ogni attimo di conversazione può significare la perdita di qualche dato.»

E iniziò un periodo di frasi slegate da cui, a giudizio di Morrison, era impossibile ricavare un senso.

Ci fu una certa sorpresa quando la Kaliinin esclamò all’improvviso: «“Premio Nobel”!»

Konev alzò lo sguardo e parve sul punto di replicare, poi rendendosi evidentemente conto che era stata lei a parlare, rinunciò.

Cercando di non usare un tono beffardo, Morrison chiese: «L’hai sentito anche tu, Yuri?»

Konev annuì. «Quasi contemporaneamente.»

«È la prima ricezione multipla di un uomo e una donna» osservò Morrison. «Immagino che Shapirov stesse pensando al premio per via del suo ampliamento della teoria della miniaturizzazione.»

«Senza dubbio. Ma poteva contare sul Nobel per quello che aveva già fatto nel campo della miniaturizzazione.»

«Che è materiale segreto e quindi sconosciuto.»

«Sì. Però quando avremo perfezionato il processo non sarà più sconosciuto.»

«Speriamo» fece Morrison sardonico.

Konev sbottò brusco: «Non siamo più riservati di voi americani.»

«D’accordo. Non voglio fare discussioni.» Ma Morrison rivolse un ampio sorriso a Konev, che si era girato a guardarlo, e quel sorriso sembrò irritare ulteriormente il giovane russo.

A un certo punto, Dezhnev disse: «“Hawking”.»

«Che c’è, Arkady?» disse la Boranova, contrariata.

«Ho detto “Hawking”» fece Dezhnev sulla difensiva. «Mi è entrato in testa all’improvviso. Non dovevo dire tutto?»

«È una parola inglese che significa “sputare”» disse la Boranova.

«O “vendere”» aggiunse Morrison allegro.

Dezhnev disse: «Col mio inglese non potevo saperlo. Pensavo che fosse il nome di qualcuno.

«Infatti» intervenne Konev a disagio. «Stephen Hawking. Era un grande fisico teorico inglese di oltre un secolo fa. Anch’io pensavo a lui, però credevo che fosse un pensiero mio.»

Morrison disse: «Bravo, Arkady. Potrebbe essere utile.»

Dezhnev sorrise. «Allora, anch’io servo a qualcosa. Come diceva mio padre: “Se le parole di un saggio sono poche, vale comunque la pena di ascoltarle”.»

Dopo una mezz’ora interminabile, Morrison disse: «Stiamo concludendo qualcosa? Mi pare che la maggior parte delle frasi e delle immagini non ci dicano nulla. “Premio Nobel”, logicamente, ci fa capire che Shapirov pensava di vincerlo; ma è una cosa scontata. “Hawking” ci dice che il lavoro di quel fisico, forse, era importante per il perfezionamento della miniaturizzazione, però non ci dice il perché.»

Non fu Konev a intervenire in difesa di quel che stavano facendo, contrariamente a quanto si sarebbe aspettato Morrison, bensì la Boranova. Konev, che forse si accingeva a ribattere, in questa circostanza parve disposto a lasciare quell’incombenza al comandante.

La Boranova disse: «Siamo di fronte a un enorme crittogramma, Albert. Shapirov è in coma e il suo cervello non pensa in modo ordinato e disciplinato. Le parti rimaste integre emettono scariche sconnesse, forse a casaccio. Noi ora raccogliamo tutto senza distinzione, e poi i dati verranno studiati da chi di noi possiede una conoscenza approfondita della teoria della miniaturizzazione. Queste persone potrebbero cogliere un significato là dove tu non ne vedi alcuno. E uno sprazzo di significato, in un angolo del settore, potrebbe espandersi progressivamente e illuminare poi tutto quanto. Quello che stiamo facendo è giusto e logico.»

Konev aggiunse: «E poi, Albert, possiamo fare un altro tentativo. Ci stiamo avvicinando a una sinapsi. Questo assone terminerà e si dividerà in molte fibre, ognuna delle quali si avvicinerà ma non si unirà al dendrite di un neurone adiacente.»

«Lo so» fece Morrison impaziente.

«L’impulso nervoso, comprese le onde scettiche, dovrà attraversare la minuscola spaccatura della sinapsi e, nel farlo, i pensieri dominanti saranno meno attenuati degli altri. In breve, se anche noi attraverseremo la sinapsi, raggiungeremo una regione dove, almeno per un po’, forse potremo captare quello che ci interessa con minori interferenze e disturbi di fondo.»

«Davvero?» chiese Morrison, l’espressione furbesca. «Questa teoria dell’attenuazione differenziale mi è nuova.»

«È il risultato di accurati studi sovietici in questo settore.»

«Ah!»

Konev si inalberò subito. «Cosa significa “Ah!”? Intendi sminuire la validità degli studi?»

«No, no.»

«Certo. Se sono studi sovietici, non contano.»

«Intendevo semplicemente dire che non ho mai sentito niente e non ho mai letto niente a questo proposito.»

«Sono studi della Nastiaspenskaya. Avrai sentito parlare di lei, immagino?»

«Sì.»

«Ma non leggi quel che pubblica, vero?»

«Yuri, non riesco nemmeno a seguire tutte le pubblicazioni scientifiche in lingua inglese, figuriamoci se...»

«Be’, quando avremo finito, ti farò avere una raccolta delle sue pubblicazioni così potrai istruirti.»

«Grazie... però posso almeno dire che così a prima vista mi sembra una conclusione inverosimile. Se alcuni tipi di attività mentale superano il passaggio di una sinapsi meglio degli altri, considerando che nel cervello ci sono centinaia di miliardi di sinapsi continuamente in funzione, come risultato finale avremo che solo una piccola parte dei pensieri sopravviverà a questa azione di filtraggio.»

«Non è così semplice» disse Konev. «I pensieri secondari non vengono cancellati. Continuano a esistere a un livello di intensità minore, e non si indeboliscono illimitatamente. È solo che, nei pressi di una sinapsi, i pensieri importanti per un certo periodo subiscono un rafforzamento relativo.»

«Ci sono prove, o è solo un’ipotesi?»

«Ci sono, molto sottili. Un giorno, con gli esperimenti di miniaturizzazione, queste prove verranno consolidate, ne sono sicuro. In certe persone questo effetto sinaptico è molto più intenso rispetto alla media. Infatti gli individui creativi riescono a concentrarsi a fondo e a lungo pur essendo disturbati come gli altri da pensieri secondari, no? E i brillanti studiosi sono tipi tradizionalmente distratti, no?»

«Benissimo. Se troveremo qualcosa, non avrò nulla da eccepire sui fondamenti teorici.»

Dezhnev disse: «Ma che succede quando arriviamo alla fine dell’assone? La corrente che stiamo sfruttando farà un’inversione a “U” in quel punto, e ci riporterà indietro lungo la parete opposta dell’assone. Devo aprirmi un varco nella membrana?»

«No, assolutamente» rispose Konev. «Danneggeremo la cellula. Dovremo assumere la struttura di carica elettrica dell’acetilcolina. È la sostanza che trasporta l’impulso nervoso oltre la sinapsi.»

La Boranova chiese: «Sophia, puoi dare alla nave una struttura acetilcolinica, vero?»

«Certo... ma le molecole di acetilcolina non sono attive all’esterno della cellula?» fece la Kaliinin.

«Può darsi però che la cellula abbia un meccanismo per espellerle. Proveremo.»

E il viaggio lungo l’assone interminabile continuò.

 

 

64

 

All’improvviso, apparve il termine dell’assone. Senza alcun indizio, senza alcun segno premonitore.

Konev fu il primo ad accorgersene. Stava guardando e sapeva cosa stava cercando con lo sguardo, ma Morrison riconobbe che era stato abile. Anche Morrison stava guardando e sapeva cosa cercare con lo sguardo, eppure non lo vide quando arrivò.

Certo, Konev era sul sedile anteriore, e con la testa ostruiva un po’ la visuale di Morrison. Ma come scusa non era granché. Nel fascio di luce stranamente inefficace della nave, si notava una cavità di fronte, eppure la corrente iniziava a deviare, allontanandosi dalla cavità.

L’assone cominciava a dividersi in tanti rami, in tanti dendriti simili a quelli all’estremità opposta del neurone, dove si trovava il corpo nucleato della cellula. A questa estremità i dendriti erano meno numerosi e più sottili, ma erano sempre presenti. Indubbiamente, una parte della corrente cellulare si riversava in quella direzione, ma la nave si trovava nella corrente principale che si allontanava curvando, e loro non potevano correre rischi.

Dovevano immettersi nel primo dendrite incontrato... se fosse stato possibile.

«Là, Arkady, là!» strillò Konev, indicando, e solo allora gli altri si resero conto di aver raggiunto il termine dell’assone. «Usa i motori, Arkady, e buttati in là.»

Morrison sentì il pulsare sommesso della propulsione che spingeva la nave verso il margine della corrente. Il dendrite verso cui stavano puntando era un condotto che si diramava lateralmente, un condotto enorme date le loro dimensioni, talmente grande che si riusciva solo a vedere un arco della sua circonferenza.

Continuarono ad avvicinarsi, e Morrison si accorse che stava piegandosi nella direzione del dendrite, come se sperasse di migliorare la situazione aggiungendo la spinta del proprio corpo.

Ma non si trattava di raggiungere il condotto stesso, muovendosi semplicemente su un tratto di fluido turbinoso, un flusso di molecole d’acqua che si calmavano in lenti mulinelli e poi scivolavano in una nuova corrente che si ramificava in un’altra direzione...

La nave effettuò il passaggio e tutt’a un tratto si tuffò nell’apertura.

«Spegni i motori, Arkady» disse Konev eccitato.

«Non ancora» borbottò Dezhnev. «Potremmo essere troppo vicini alla controcorrente che esce da questo affare. Lascia che mi accosti ancora un po’ alla parete.

Lo fece, e non fu un’operazione lunga. Adesso si muovevano con la corrente a-favore, e Dezhnev finalmente spense i motori, si scostò dalla fronte i capelli sudati venati di grigio e, con un respiro profondo, disse: «Continuiamo a consumare tonnellate di energia. C’è un limite, Yuri, c’è un limite.»

«Di questo ci preoccuperemo più tardi» replicò impaziente Konev.

«Davvero? Mio padre diceva sempre: “Di solito, più tardi è troppo tardi”... Natalya, non lasciare le redini in mano a Yuri. Non mi piace l’atteggiamento che ha verso le nostre riserve di energia.»

«Calmati, Arkady. Se sarà necessario provvederò io a frenare Yuri... Yuri, il dendrite non è molto lungo, vero?»

«Arriveremo in fondo tra poco, Natalya.»

«In tal caso, Sophia, stai pronta a inserire la struttura dell’acetilcolina da un istante all’altro.»

«Mi darai tu il segnale?» chiese la Kaliinin.

«Non ce ne sarà bisogno, Sophia. Scommetto che Yuri schiamazzerà come un cosacco quando avvisteremo la fine del dendrite. Inserisci la struttura dell’acetilcolina in quel preciso istante.»

Continuarono a scivolare lungo l’ultima appendice tubolare del neurone in cui erano entrati parecchio tempo prima. Via via che il dendrite si restringeva, Morrison aveva l’impressione di riuscire a vedere l’arco di parete sovrastante... ma era un’illusione. Il buon senso gli diceva che, anche nel punto più stretto, rispetto alle loro dimensioni quel condotto doveva avere un diametro di parecchi chilometri.

Poi, come aveva previsto la Boranova, Konev alzò la voce in un grido, probabilmente senza rendersi conto di ciò che faceva. «La fine del dendrite è là di fronte. Presto! L’acetilcolina, prima che veniamo spinti indietro!»

Le dita della Kaliinin guizzarono sulla tastiera. All’interno della nave sembrava che nulla. fosse cambiato, ma in qualche punto davanti a loro c’era un recettore dell’acetilcolina (o, più probabilmente, centinaia di recettori) e le strutture elettriche si combinarono, positivo-negativo e negativo-positivo, e l’attrazione tra la nave e il recettore scattò forte e precisa.

Vennero strappati dalla corrente e penetrarono nella parete del dendrite. Per alcuni minuti continuarono a essere trascinati attraverso la sostanza intercellulare tra il dendrite del neurone che avevano appena lasciato e il dendrite del neurone vicino.

Morrison non vide quasi nulla. Sentiva che la nave stava scivolando lungo (o attraverso) una molecola proteica complessa, poi notò la formazione di una concavità, come quando la nave era entrata nel primo neurone.

Konev aveva sganciato la cintura per potersi alzare. (Evidentemente era troppo eccitato per rimanere seduto a questo punto.)

Incespicando quasi nelle parole, disse: «Ora, stando all’ipotesi della Nastiaspenskaya, il filtraggio dei pensieri importanti è più evidente subito dopo la sinapsi. Avvicinandosi al corpo cellulare, la differenza scompare. Quindi, non appena saremo nel dendrite adiacente, aprite bene le vostre menti. Dovete essere preparati a qualsiasi cosa. Dite ad alta voce tutto quello che sentite. Descrivete le immagini, se ne percepite. Registrerò tutto... Anche tu, Arkady. E tu, Albert... Siamo dentro, adesso. Cominciate!»