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Ci volle un po’, per fermarsi.

Morrison, piuttosto sorpreso, notò che Dezhnev si comportava come se la cosa non lo riguardasse. Stava controllando i suoi strumenti, però non muoveva un dito per controllare i movimenti della nave.

Era la Kaliinin a essere impegnata, adesso. Morrison si girò, studiandola mentre era china sul suo strumento, coi capelli che le ricadevano in avanti ma non erano abbastanza lunghi da intralciarla, lo sguardo assorto, le dita sottili che accarezzavano i tasti del computer. I grafici sullo schermo che stava osservando non avevano alcun senso per Morrison, naturalmente.

«Arkady» disse Sophia «vai avanti ancora un po’.»

La debole corrente dei capillari agitava appena la nave. Dezhnev inserì la propulsione per un attimo. (Morrison sentì che il suo corpo quasi privo di massa arretrava leggermente, dato che non c’era abbastanza inerzia da imprimergli un vero scossone.)

Il globulo rosso più vicino tra lo scafo e la parete del capillare scivolò indietro.

«Ferma, ferma» disse la Kaliinin. «Basta.»

«Non posso fermarmi» spiegò Dezhnev. «Posso solo spegnere i motori, e l’ho fatto.

«Va bene» disse la Kaliinin. «L’ho trovato» e, quasi inevitabile, aggiunse a titolo cautelativo «penso.»...Poi: «Sì, ci siamo proprio.»

Morrison si sentì ondeggiare impercettibilmente in avanti. Poi notò che i globuli rossi vicini, e l’occasionale piastrina, scorrevano pigramente oltre la prua.

Inoltre, si rese conto che era cessato del tutto il moto browniano, quel tremolio a cui si era ormai abituato, tanto da riuscire a ignorarlo. Adesso era scomparso, e la sua assenza produsse in Morrison lo stesso effetto della cessazione di un ronzio basso e continuo. Si agitò inquieto. Era come se il suo cuore avesse smesso di battere, anche se Morrison sapeva che batteva ancora.

Chiese: «Che fine ha fatto il moto browniano, Sophia?»

«Siamo attaccati alla parete del capillare, Albert.»

Morrison annuì. Se la nave formava un tutt’uno col capillare, per così dire, le molecole d’acqua che col loro bombardamento producevano il moto browniano perdevano il loro effetto. A subire la miriade di impatti era un intero settore di parete relativamente inerte, non una navicella grande quanto una piastrina. Logico che il tremito cessasse.

«Come hai fatto ad attaccare la nave, Sophia?» chiese Morrison.

«Le solite forze elettriche. La parete del capillare è in parte proteica e in parte fosfolipidica. Ci sono gruppi a carica positiva e negativa qui e là. Ho dovuto individuare una struttura sufficientemente compatta, quindi produrre uno schema complementare per lo scafo, negativo dove la parete è positiva e viceversa. Il guaio è che la nave avanza con la corrente, così bisogna individuare il punto in anticipo e produrre lo schema complementare prima di oltrepassarlo. Ho fallito tre volte, poi abbiamo incontrato una zona dove non c’era una sola struttura elettromagnetica adatta, così ho detto ad Arkady di andare avanti un po’ in cerca di una zona migliore... Ma alla fine ce l’ho fatta.»

«Se la nave avesse una retromarcia, non ci sarebbe stato nessun problema, vero?» osservò Morrison.

«Vero» annuì la Kaliinin «e la prossima nave l’avrà. Ma intanto dobbiamo accontentarci di quel che abbiamo.»

«Esatto» intervenne Dezhnev. «Come diceva mio padre: “Col banchetto di domani, oggi si può morire di fame”.»

«D’altro canto» continuò la Kaliinin «se avessimo un motore in grado di fare tutto, saremmo tentati di usarlo in modo eccessivo, il che potrebbe essere dannoso per il povero Shapirov. E poi sarebbe dispendioso. Adesso invece abbiamo usato un campo elettrico che consuma meno energia di un motore, ed è bastato solo un po’ di lavoro da parte mia... quindi, poca cosa, no?»

Morrison era certo che non stesse parlando per lui. «Sei sempre così filosofa?» disse.

Per un attimo, Sophia spalancò gli occhi e tese le narici... ma solo per un attimo. Poi si rilassò e abbozzando un sorrisetto rispose: «No, sarebbe impossibile per chiunque. Però ci provo.»

La Boranova intervenne spazientita. «Basta chiacchiere, Sophia... Arkady, è chiaro che sei in contatto con la Grotta. Qual è il motivo di questi indugi?»

Arkady alzò una mano, girandosi a metà per rivolgere il palmo alla Boranova. «Pazienza, comandante. Vogliono che rimaniamo esattamente dove siamo per due ragioni. Primo, sto inviando un’onda portante in tre direzioni. Stanno captando i segnali e li usano per localizzarci e vedere se la posizione calcolata da loro quadra con il punto stimato di Yuri.»

«Quanto ci vorrà?»

«Chi può dirlo? Qualche minuto, senz’altro. Ma i miei segnali non sono molto forti e la posizione deve essere precisa, quindi può darsi che debbano ripetere i rilevamenti parecchie volte, fare una media e calcolare i limiti di errore. Sai, non devono sbagliare, perché come diceva mio padre: “Quasi giusto equivale a sbagliato”.»

«Sì, sì, Arkady, ma questo dipende dalla natura del problema. Qual è il secondo motivo per cui stiamo aspettando?»

«Stanno eseguendo dei controlli su Pyotr Shapirov. Il suo battito cardiaco è diventato leggermente irregolare.»

Konev alzò lo sguardo, aprendo la bocca, e le sue guance sembravano scarne e scavate sotto gli zigomi sporgenti. «Cosa! Dicono che dipende da noi

«No» rispose Dezhnev. «Non fare il tragico. Non hanno detto niente del genere. Cosa possiamo fare noi a Shapirov? Siamo solo un globulo rosso tra i miliardi di globuli rossi del suo flusso sanguigno.»

«Be’, allora cosa c’è che non va?»

«È che ne so?» fece Dezhnev irritato. «Lo vengono a dire a me? Sono un medico? Io manovro solo questa nave, e per loro sono solo un paio di mani ai comandi.»

La Kaliinin disse con una sfumatura di tristezza: «In ogni caso l’accademico Shapirov è attaccato alla vita da un filo sottile. È un miracolo che le sue condizioni siano rimaste stabili così a lungo.»

La Boranova annuì. «Hai ragione, Sophia.»

Konev disse rabbiosamente: «Ma deve continuare a rimanere stabile. Non può mollare adesso. Non adesso. Non abbiamo ancora ottenuto i nostri dati.»

«Li avremo» disse la Boranova. «Un battito irregolare non è la fine del mondo, nemmeno per un uomo in coma.»

Konev pestò il pugno sul bracciolo del sedile. «Non voglio perdere un solo istante... Albert, cominciamo.»

Morrison sussultò. «Cosa si può fare qui, nel flusso sanguigno?»

«Si può avvertire un effetto neurale immediatamente all’esterno della cellula nervosa.»

«Assolutamente. Perché i neuroni avrebbero gli assoni e i dendriti per incanalare l’impulso, se questo dovesse poi disperdersi e indebolirsi nello spazio esterno alla cellula? Le locomotive si spostano lungo i binari, i messaggi telefonici lungo i cavi, gli impulsi neurali...»

«Non discutere, Albert. Non arrendiamoci basandoci solo su qualche processo di ragionamento. Verifichiamo. Vedi se riesci a captare delle onde cerebrali e se puoi analizzarle nella maniera dovuta.»

«Ci proverò» disse Morrison. «Ma non darmi ordini usando quel tono prepotente.»

«Mi spiace» disse Konev, che non sembrava affatto dispiaciuto. «Voglio osservare quello che fai.» Sganciò la cintura, si girò sul sedile e si tenne aggrappato, borbottando: «Dobbiamo avere più spazio la prossima volta.»

«Un transatlantico, certo» commentò Dezhnev. «La prossima volta.»

«Innanzitutto» spiegò Morrison «dobbiamo scoprire se riusciamo a captare qualcosa. Il guaio è che siamo circondati da campi elettromagnetici. I muscoli sono ricchi di campi elettromagnetici, e quasi ogni molecola è il punto d’origine di...»

«Salta pure tutto quanto. È risaputo.»

«Sto soltanto ingannando l’attesa mentre eseguo alcune regolazioni necessarie. Il campo neurale presenta parecchie caratteristiche, e regolando il computer in modo tale da eliminare i campi senza quelle caratteristiche, lascio solo quello che i neuroni producono. Sopprimiamo tutti i microcampi così, e deviamo i campi musco- lari in questa maniera...»

«In che maniera?» chiese Konev.

«È descritto nei miei studi.»

«Ma non ho visto cos’hai fatto.

In silenzio, Morrison ripeté l’operazione lentamente.

«Oh» fece Konev.

«E a questo punto dovremmo captare solo le onde neurali ammesso che ci siano... e non ci sono.»

Konev serrò il pugno. «Sei sicuro?»

«Lo schermo mostra una linea orizzontale. Nient’altro».

«Vibra.»

«Rumore. Probabilmente proviene dal campo elettrico della nave, che è complesso e leggermente diverso dai campi naturali del corpo. Non ho mai dovuto regolare un computer per filtrare un campo artificiale.»

«Be’, allora dobbiamo proseguire... Arkady, di’ a quelli della Grotta che non possiamo aspettare oltre.»

«Non posso farlo, Yuri, a meno che non sia Natasha a dirmelo. È lei il comandante. O te l’eri dimenticato?»

«Grazie, Arkady» disse gelida la Boranova. «Tu, almeno, non l’hai dimenticato. Perdoneremo questo sbaglio di Konev attribuendolo a un eccesso di zelo nello svolgimento del suo compito... I miei ordini sono di non muoversi finché non avremo il benestare della Grotta. Se questa missione fallirà a causa di qualche inconveniente fisico di Shapirov, nessuno deve poter dire che è successo perché noi non abbiamo eseguito gli ordini.»

«E se succederà qualche disgrazia proprio perché avremo eseguito gli ordini? Può accadere anche questo.» Il tono di Konev era quasi isterico.

La Boranova rispose: «La colpa sarà di chi ha impartito gli ordini.»

«La distribuzione della colpa mi lascia completamente indifferente... a me o a qualsiasi altro, non m’importa. È il risultato che conta.»

«Sono d’accordo» disse la Boranova «a livello di teoria astratta. Ma se vuoi continuare a lavorare a questo progetto al di là di una possibile catastrofe, scoprirai che la ripartizione delle colpe è estremamente importante.»

«Be’... allora...» disse Konev, balbettando un po’ nella foga «digli che si sbrighino e ci lascino proseguire il più presto possibile, così noi... noi...»

«Sì?» fece la Boranova.

«Così noi entreremo nella cellula. Dobbiamo.»