73
I secondi passarono e Morrison non svenne. Si agitò un po’. Avrebbe dovuto essere morto, ormai, no? (“Possibile che ci sia una vita dopo la morte?” pensò inevitabilmente... Ma accantonò subito quella possibilità.)
Sentiva dei singhiozzi. No! Erano ansiti.
Aprì gli occhi (non si era accorto di averli chiusi) e si ritrovò a fissare la Kaliinin nel chiarore fioco. Dato che tutta l’energia disponibile era utilizzata per cercare di impedire alla nave di deminiaturizzarsi, la vedeva solo nel riflesso del suo computer. Distinse la testa china, i capelli scompigliati, il respiro che le usciva sibilando dalle labbra dischiuse.
Si guardò attorno e improvvisamente riprese a sperare, a pensare, a vivere. Le oscillazioni sembravano meno violente, stavano calmandosi, scemando, proprio in quegli attimi.
Poi, cauta, la Kaliinin si fermò e si girò a guardarlo e contrasse i lineamenti in un sorriso sofferente. «È fatta» mormorò rauca.
La luce all’interno della nave si fece a poco a poco più vivida, quasi esitante, e Dezhnev si abbandonò a un sospiro poderoso. «Se non sono morto adesso, spero di vivere ancora un pochino» esordì. «Come disse una volta mio padre: “La vita sarebbe insopportabile se la morte non fosse addirittura peggiore”... Grazie, Natasha. Sarai per sempre il mio comandante.»
«Non sono stata io.» La faccia della Boranova sembrava invecchiata... tanto che Morrison non sarebbe rimasto sorpreso se avesse visto delle striature bianche nei suoi capelli. «Non sono riuscita a immettere abbastanza energia nella nave... Sei stata tu a fare qualcosa, Sophia?»
La Kaliinin aveva chiuso gli occhi, e il suo petto ansimava ancora. Si agitò leggermente, quasi fosse restia a rispondere, quasi volesse soltanto assaporare la vita per un po’. Poi rispose: «Non lo so. Può darsi.»
La Boranova chiese: «Cos’hai fatto?»
«Non potevo aspettare la morte passiva. Ho trasformato lo scafo in una copia elettromagnetica di una molecola di D-glucosio, sperando che la cellula si comportasse normalmente e interagisse con una molecola di ATP... l’adenosin trifosfato. In questo modo, la nave ha preso un gruppo fosfato e dell’energia.
L’energia, speravo, avrebbe rinforzato il campo miniaturizzante. Poi ho neutralizzato la nave e il gruppo fosfato si è staccato. Di nuovo D-glucosio, altro acquisto di energia, neutralizzazione, e così via, di continuo.» La Kaliinin si interruppe per riprendere fiato. «In continuazione. Muovevo le dita così in fretta che non sapevo se stessi premendo i tasti giusti o no... ma devo aver premuto quelli giusti. E la nave ha assorbito abbastanza energia da stabilizzare il campo.»
La Boranova chiese: «Com’è che ti è venuto in mente di farlo? Che io sappia, nessuno ha mai suggerito che un sistema del...»
«Nemmeno io lo sapevo» disse la Kaliinin. «Ma questa mattina, prima di salire a bordo, mi sono domandata cosa avrei fatto, o cosa avrebbero potuto fare gli altri, se fosse iniziata una de miniaturizzazione spontanea. Avremmo avuto bisogno di energia, ma se la nave non fosse riuscita a fornirne abbastanza?... Ho pensato: “L’energia non potrebbe fornirla la cellula stessa?”. Se sì, non poteva essere che tramite l’ATP, che ogni cellula ha. Non sapevo se avrebbe funzionato. Dovevo consumare energia per modificare di continuo la struttura elettrica della nave, e sapevo che forse l’energia impiegata sarebbe stata superiore a quella assorbita dall’ATP... O magari l’ATP non avrebbe influito sulla nave in modo tale da contrastare la deminiaturizzazione. È stato un tale azzardo...»
Sottovoce, quasi parlasse tra sé, Dezhnev osservò: «Come direbbe mio padre: “Se non hai nulla da perdere rischia tranquillamente”.» Poi ravvivandosi aggiunse: «Grazie, piccola Sophia. La mia vita ti appartiene d’ora in poi. È tua, quando ne avrai bisogno. Anzi, andrò oltre... Posso addirittura sposarti, se ti va l’idea.»
«Un’offerta cavalleresca.» Sophia accennò un sorriso. «Ma non ti chiederò di sposarmi. La tua vita, in caso di bisogno, sarà più che sufficiente.»
Intanto la Boranova si era ripresa del tutto e disse: «Questo episodio comparirà in modo dettagliato nel rapporto finale. La tua prontezza mentale e la tua rapidità di intervento hanno salvato la missione.»
Morrison non se la sentiva di parlare. (Inspiegabilmente, era prossimo alle lacrime... Di gratitudine perché era vivo? Di ammirazione per la Kaliinin?) Riuscì solo a prendere la mano di Sophia e ad accostarla alle labbra, baciandola. Poi, schiaritosi la voce, disse con estrema dolcezza: «Grazie, Sophia.»
La Kaliinin sembrava imbarazzata, ma non ritrasse subito la mano. «Poteva non funzionare. Non pensavo che avrebbe funzionato.»
«Se non avesse funzionato» fece Dezhnev «saremmo morti e basta.»
Solo Konev finora non aveva aperto bocca, e Morrison si girò a guardarlo. Sedeva come al solito, rigido, e con gli occhi rivolti di fronte a sé.
Ritrovando di colpo la forza vocale, e la rabbia, Morrison sbottò: «Be’, Yuri, cos’hai da dire?»
Konev girò un attimo la testa. «Nulla.»
«Nulla? Sophia ha salvato la spedizione!»
Konev scrollò le spalle. «Ha fatto il suo lavoro.»
«Il suo lavoro? Ha fatto molto di più.» Morrison si piegò in avanti e afferrò Konev per le spalle. «Ha ideato la tecnica che ci ha salvato. E così ti ha salvato la vita, idiota. Se sei ancora vivo lo devi a lei. Potresti almeno ringraziarla.»
«Farò come mi pare» replicò Konev, e si divincolò, sottraendosi alla stretta dell’altro.
Le mani di Morrison scivolarono attorno al collo di Konev e strinsero disperatamente. «Miserabile, barbaro egoista. L’ami, anche se il tuo è un amore contorto, eppure non vuoi dirle una parola gentile... nemmeno una parola gentile, schifoso individuo.»
Konev si liberò ancora e i due cominciarono a picchiarsi in modo goffo. Erano semibloccati dai sedili, da cui si erano parzialmente alzati, e non riuscivano a compiere i movimenti giusti data l’assenza di gravità.
La Kaliinin strillò: «Non fargli male!»
“Non mi farà male” pensò Morrison, battendosi con foga. Era dall’età di sedici anni che non partecipava a uno scontro fisico del genere... e non aveva fatto grandi progressi, rifletté imbarazzato.
La voce della Boranova risuonò secca. «Basta. Tutti e due!»
E i due contendenti si fermarono.
La Boranova disse: «Albert, non sei qui per insegnare agli altri le buone maniere. E tu, Yuri, non è necessario che ti sforzi per essere un bifolco, è una dote naturale la tua. Se non vuoi riconoscere che Sophia...»
Compiendo uno sforzo evidente, la Kaliinin disse: «Non sto chiedendo grazie... a nessuno.»
«Grazie?» fece Konev rabbioso. «Diciamo grazie tutti. Prima che iniziasse la deminiaturizzazione, stavo cercando di convincere questo americano vigliacco a ringraziarci per averlo tratto in salvo. Non volevo un ringraziamento a parole. Questo non è un locale da ballo. Non dobbiamo inchinarci e fare la riverenza. Volevo che lui ci ringraziasse uscendo all’esterno e cercando di captare qualche pensiero di Shapirov. Ha rifiutato. E proprio lui dovrebbe insegnarmi come e quando dire grazie?»
«Prima della deminiaturizzazione ho detto che non l’avrei fatto, e adesso lo ripeto» disse Morrison.
Dezhnev intervenne. «Inutile insistere su questa storia. Abbiamo consumato le nostre riserve di energia come se fossero vodka a un matrimonio. Tra ricerche e deminiaturizzazioni, ci resta pochissima energia, sarà appena sufficiente per arrivare a deminiaturizzarci in condizioni controllate- Dobbiamo uscire subito.»
Konev non si arrese. «Basterà pochissima energia perché quest’uomo esca e rientri dopo un paio di minuti... Poi potremo lasciare il corpo.»
Per un attimo, Konev e Morrison si squadrarono in cagnesco, quindi in un tono che aveva perso in parte l’abituale vivacità Dezhnev prese la parola. «Il mio povero genitore diceva: “L’espressione più spaventosa della lingua russa è Che strano”.»
Konev si girò rabbioso. «Zitto, Arkady!»
Dezhnev proseguì: «L’ho detto solo perché per me adesso è venuto il momento di dirlo... Che strano...»
74
La Boranova scostò dalla fronte i capelli scuri (con un gesto un po’ stanco, rifletté Morrison, e notò che i capelli erano umidi di sudore). «Che strano, cosa, Arkady? Non giochiamo.»
«Il flusso cellulare sta rallentando.»
Un breve silenzio, poi la Boranova chiese: «Come lo sai?»
«Natasha, cara» sospirò Dezhnev «se fossi seduta qui al mio posto sapresti che ci sono delle fibre che intersecano la cellula...»
«Il citoscheletro» precisò Morrison.
«Grazie, Albert» disse Dezhnev, accompagnandosi con un ampio gesto della mano. «Mio padre diceva: “È più importante conoscere la cosa che il nome”. Comunque... Il come si chiama non arresta il flusso cellulare come non arresta la nave, e io lo vedo scorrere con uno scintillio. Be’, adesso lo scintillio scorre più lento. Immagino che le fibre non si muovano, per cui deduco che stiamo rallentando. E dato che non sto facendo nulla per far rallentare la nave, suppongo che in realtà sia il flusso intracellulare che sta rallentando... Questa si chiama logica, Albert, quindi non è necessario che tu mi istruisca in questo settore.»
Sottovoce, la Kaliinin disse: «Credo che abbiamo danneggiato la cellula.» Sembrava che si sentisse in colpa.»
Morrison interpretò così il suo tono, e disse: «Una cellula cerebrale in più o in meno, per Shapirov la situazione non cambierà, considerando le condizioni in cui si trova. Comunque, non mi sorprenderebbe se la cellula fosse rimasta lesa. In fin dei conti, la nave per cercarmi si è lanciata in una corsa furiosa, immagino... e vi ringrazio ancora per quello che avete fatto... e probabilmente vibrava in modo pauroso e deve avere trasmesso le vibrazioni a tutta la cellula.»
Konev commentò accigliato: «Assurdo. Abbiamo le dimensioni di una molecola, di una piccola molecola. Credi che coi nostri movimenti, quali che siano, possiamo danneggiare un’intera cellula?»
Morrison replicò: «È inutile stare a discutere, Yuri. È un fatto assodato. La corrente cellulare sta fermandosi e questo non è normale.»
«Innanzitutto, si tratta solo dell’impressione di Arkady, e lui non è un neurologo...»
«Bisogna essere neurologi per avere gli occhi?» ribatté Dezhnev infervorandosi, alzando un braccio come se intendesse colpire Konev.
Konev gli lanciò una breve occhiata, ma per il resto ignorò il commento. «Inoltre, da questo livello di osservazione non sappiamo cosa sia normale in una cellula cerebrale viva. Può darsi che nel flusso ci siano fasi alterne di ristagno, e che il fenomeno che vediamo sia solo temporaneo.»
«Tutte scuse per non ammettere che la situazione è seria» disse Morrison. «Il fatto è che non possiamo più usare questa cellula e che non abbiamo energia sufficiente per andarne a cercare un’altra.»
Konev digrignò i denti. «Deve esserci qualcosa che possiamo fare. Non possiamo rinunciare.»
Morrison disse: «Natalya decidi. Ha senso esaminare ulteriormente questa cellula? E, data la situazione, possiamo cercare un’altra cellula?»
La Boranova alzò una mano e piegò la testa per riflettere un attimo.
Gli altri si girarono a guardarla e Konev ne approfittò per afferrare il braccio di Albert e attirarlo a sé. La sua espressione era ostile. Mormorò: «Perché pensi che io sia innamorato di...» e con la testa fece un cenno in direzione della Kaliinin. «Cosa ti dà il diritto di pensarlo? Dimmelo.»
Morrison lo fissò con aria assente.
A quel punto, la Boranova parlò, ma non per rispondere alla domanda di Morrison. Chiese: «Arkady, cosa stai facendo?»
Dezhnev, chino sui comandi, drizzò la testa. «Sto rimettendo a posto i collegamenti. Sto riallacciando le comunicazioni.»
«Te l’ho detto io di farlo?» fece la Boranova.
«Me l’ha detto la necessità.»
Konev intervenne. «Ti rendi conto che sarà impossibile manovrare?»
Dezhnev grugnì e ribatté ironico: «E tu ti rendi conto che forse non ci sarà più nessuna manovra da fare?»
«Di quale necessità parli, Arkady?» domandò paziente la Boranova.
Dezhnev rispose: «Secondo me, non è soltanto questa cellula ad avere qualcosa che non va. La temperatura attorno a noi sta scendendo... Lentamente.»
Konev sogghignò sprezzante. «In base ai tuoi rilevamenti?»
«No. In base a quelli della nave. In base agli infrarossi ambientali che riceviamo.»
«In base a quello non si può stabilire nulla» disse Konev. «Alle nostre dimensioni, riceviamo pochissimi fotoni infrarossi. Il livello varia complessivamente.»
Dezhnev annuì. «Così.» E agitò la mano su e giù freneticamente. «Però, può fluttuare su e giù come una barca in pieno uragano, e farlo a un livello medio sempre più basso.» E abbassò progressivamente la mano, continuando a scuoterla.
La Boranova chiese: «Perché dovrebbe scendere la temperatura?»
Morrison sorrise torvo. «Via, Natalya. Secondo me, lo sai il perché. Yuri lo sa senz’altro. Arkady deve scoprirlo, e per questo ha deciso di ripristinare le comunicazioni.»
Scese un silenzio inquieto, interrotto solo dai brontolii e dalle imprecazioni soffocate di Dezhnev impegnato a sistemare i collegamenti.
Morrison guardò l’ambiente esterno, che poteva di nuovo vedere, come al solito in modo poco soddisfacente. ora che l’illuminazione della nave era ancora in funzione. C’era il solito luccichio di molecole, grandi e piccole, che viaggiavano insieme a loro. Ora che Dezhnev ne aveva parlato, vide di tanto in tanto il riflesso di una linea che si estendeva trasversalmente di fronte a loro e poi passava velocissima sopra (o sotto) lo scafo e rimaneva indietro. Erano senza dubbio fibre sottilissime di collagene che mantenevano la forma irregolare del neurone e impedivano che si trasformasse in una bolla grosso modo sferica per l’effetto della sua stessa tensione superficiale. Se fosse stato bene attento, le avrebbe notate prima.
Morrison si rese conto che Dezhnev, in qualità di pilota, doveva tenere d’occhio tutto... e che, data la situazione senza precedenti in cui si era trovata la nave, Dezhnev non aveva potuto contare su nessuna guida, nessun insegnamento, nessuna esperienza che gli dicesse a cosa stare attento. Sicuramente, dato il suo compito, Dezhnev era stato sottoposto a una tensione notevolissima, che gli altri non avevano considerato appieno.
E anche Morrison aveva dato per scontato che Dezhnev fosse il meno importante dei cinque membri dell’equipaggio. Non era giusto, pensò Morrison.
Dezhnev intanto si era drizzato. Aveva infilato un auricolare e annunciò: «Dovrei riuscire a mettermi in contatto, adesso... Mi sentite? Grotta... Grotta...»
Poi sorrise. «Sì. Finora, tutto bene. Mi spiace, ma come vi ho detto, se non avessimo smantellato le comunicazioni non avremmo potuto manovrare... E lì da voi, come procede?... Cosa? Ripetete, più lentamente... Sì, come pensavo.»
Si rivolse agli altri. «Compagni, l’accademico Pyotr Leonovich Shapirov è morto. Tredici minuti fa tutte le funzioni vitali sono cessate, e adesso dobbiamo lasciare il corpo.»