Capitolo dodicesimo.
Intercellulare

 

 

Nella vita, a differenza che negli scacchi, il gioco continua anche dopo lo scacco matto.

DEZHNEV SENIOR

 

 

50

 

Un silenzio greve scese sui cinque compagni di viaggio. Il silenzio di Konev era il più inquieto. Konev fremeva d’agitazione e non riusciva a tenere ferme le mani.

Morrison provò una vaga compassione per lui. Arrivare alla meta, secondo i piani, attraverso tante difficoltà, immaginarsi sul punto di afferrare il successo, e dover temere di vederselo sfuggire dalle dita tese avidamente proprio ora...

Era una sensazione che Morrison conosceva. Forse non era più viva come un tempo, adesso che era stato schiacciato e obnubilato dalla frustrazione, però ricordava le prime volte... Esperimenti che alimentavano la speranza, ma in qualche modo non erano mai decisivi. Colleghi che sorridevano e annuivano, ma non erano mai convinti.

Si sporse in avanti e disse: «Yuri, guarda i globuli rossi. Continuano a scorrere, uno dopo l’altro, regolarmente... il che significa che il cuore batte, e lo fa in modo abbastanza normale. Finché i globuli si muovono costantemente in avanti, siamo al sicuro.»

Dezhnev aggiunse: «E c’è anche la temperatura del sangue. La controllo sempre, e dovrà cominciare a scendere in modo lento ma deciso se Shapirov cede. Invece si mantiene sui valori massimi della norma.»

Konev sbuffò, quasi disprezzasse le consolazioni e le mettesse da parte, però a Morrison sembrò nettamente più tranquillo dopo quelle parole.

Morrison si abbandonò sul sedile e chiuse gli occhi. Aveva fame? No. Avvertiva un senso di pressione alla vescica? No, non lo avvertiva, però era un sollievo relativo. Il pasto si poteva rimandare per un periodo di tempo considerevole, ma quando si trattava di urinare non c’era la stessa flessibilità di scelta.

Di colpo si accorse che la Kaliinin gli si era rivolta, e lui non aveva ascoltato. «Scusa. Cosa hai detto?» fece voltandosi.

La Kaliinin parve sorpresa. Disse sottovoce: «Scusa. Ho interrotto i tuoi pensieri.»

«Valeva la pena di interromperli, Sophia. Sono io a chiederti scusa per la mia disattenzione.»

«Se è così, ti ho chiesto cos’è che fai nella tua analisi delle onde cerebrali. Mi spiego meglio... cos’è che fai di diverso dagli altri? Perché abbiamo dovuto...» Sophia s’interruppe, indecisa su come proseguire.

Morrison non ebbe difficoltà a terminare la frase. «Perché avete dovuto prelevarmi con la forza dal mio paese?»

«Ti ho fatto arrabbiare?»

«No. Immagino che non sia stata tu a suggerire questa azione.»

«Certo che no. Non ne sapevo nulla. È appunto per questo che ti sto facendo questa domanda. Non so nulla della tua materia... so solo che esistono delle onde elettroneurali e che l’elettroencefalografia è diventata uno studio complesso e importante.»

«Se vuoi sapere cos’abbiano di speciale le mie teorie, allora, temo di non potertelo dire.»

«È un segreto, eh? Lo sospettavo.»

«No, non è un segreto» fece Morrison aggrottando le ciglia. «Non ci sono segreti nella scienza, o non dovrebbero esserci... solo che ci sono lotte per la priorità, così a volte gli scienziati sono circospetti e stanno attenti a quel che dicono, e anch’io certe volte sono colpevole di questo. Ma prima parlavo in senso letterale. Non posso dirtelo perché ti mancano le basi per capire.»

La Kaliinin rifletté, stringendo le labbra quasi quel gesto favorisse la concentrazione. «Non puoi spiegarmi qualcosa?»

«Posso provare, se sei disposta a sentire delle affermazioni semplici. Non posso certo illustrarti l’intera materia... Quelle che chiamiamo onde cerebrali sono un insieme di attività neuroniche di ogni genere... percezioni sensoriali, stimoli muscolari e ghiandolari, meccanismi di eccitazione, coordinazioni, e così via. Confuse in mezzo a tutte queste onde ci sono quelle che controllano il pensiero costruttivo e creativo, o ne derivano. Isolare da tutto il resto queste onde scettiche, come le chiamo io, è un problema enorme. Il corpo lo fa senza difficoltà, ma noi poveri scienziati perlopiù siamo in imbarazzo.»

«Non sto facendo fatica a capire» sorrise la Kaliinin soddisfatta.

“È molto graziosa quando riesce a sbarazzarsi della sua aria malinconica” rifletté Morrison.

«Non sono ancora arrivato alla parte difficile» disse.

«Fallo, allora, per favore.»

«Circa vent’anni fa, è stato dimostrato che nelle onde c’era apparentemente una componente casuale che nessuno aveva mai rilevato perché gli strumenti usati fino ad allora non registravano quello che adesso chiamiamo “lo sfavillio”. È un’oscillazione rapidissima di ampiezza e intensità irregolari. Non l’ho fatta io questa scoperta, chiaro.»

La Kaliinin sorrise ancora. «Immagino che vent’anni fa fossi troppo giovane per fare questa scoperta.»

«Ero uno studente universitario, e stavo scoprendo che le ragazze non erano del tutto inavvicinabili, il che non è una scoperta da poco. Infatti, a mio avviso, può darsi che ognuno debba riscoprirlo di tanto in tanto... Ma lasciamo perdere. Alcuni ipotizzavano che lo sfavillio potesse rappresentare i processi di pensiero mentali, ma nessuno riuscì a isolarlo bene. Andava e veniva, a volte era percepibile altre no, e l’opinione generale era che si trattasse di un fenomeno spurio, cioè che si stesse lavorando con strumenti troppo delicati per quello che stavano misurando, e che quindi si finisse col captare fondamentalmente del rumore. Io ero di avviso contrario. Col tempo ho messo a punto un programma per computer che mi ha permesso di isolare lo sfavillio e dimostrare che era sempre presente nel cervello umano. Ho ottenuto qualche riconoscimento per questo, anche se erano pochi quelli capaci di ripetere i miei risultati. Ho usato degli animali per tipi di sperimentazione troppo pericolosi per gli esseri umani, e coi risultati ottenuti per perfezionare ulteriormente il mio programma di analisi. Ma più l’analisi era perfezionata, più credevo di avere conseguito risultati significativi, minori erano le conferme che gli altri erano in grado di dare, e i miei colleghi erano sempre più convinti che mi stessi lasciando ingannare dai miei esperimenti con gli animali. Perfino dopo avere isolato lo sfavillio ero ben lungi dall’aver dimostrato che si trattava di una rappresentazione del pensiero astratto. L’ho amplificato, l’ho intensificato, ho modificato il mio programma in continuazione e mi sono convinto di trovarmi di fronte al pensiero, alle onde scettiche. Eppure, nessuno riesce a confermare i punti cruciali del mio lavoro. In più di un’occasione, ho lasciato che qualcuno usasse il mio programma e il mio computer... la stessa apparecchiatura che sto usando adesso... ma immancabilmente è stato un fiasco.»

La Kaliinin stava ascoltando serissima. «Hai idea del perché nessuno riesca a confermare i risultati ottenuti da te?»

«La spiegazione più facile è che c’è qualcosa che non va in me, che devo essere un po’ strambo... per non dire pazzo. Secondo me, certi miei colleghi lo pensano.»

«E tu, pensi di essere pazzo?»

«No, Sophia, però anch’io tentenno a volte. Vedi, dopo avere isolato e amplificato le onde scettiche, il cervello umano stesso potrebbe diventare uno strumento ricevente. Può darsi che le onde trasferiscano i pensieri del soggetto che stai studiando direttamente a te. Il cervello sarebbe un ricevitore di incredibile sensibilità, però sarebbe anche incredibilmente individuale. Se ho perfezionato il mio programma per riuscire a percepire meglio i pensieri, di conseguenza devo averlo adattato al mio cervello. Dunque gli altri cervelli dovrebbero essere meno sensibili al mio programma. È come un quadro... Più un quadro è fatto a mia immagine e somiglianza, meno assomiglia agli altri. Più riesco a ottenere dal programma risultati compatibili e coerenti, meno ci riescono gli altri.»

«Hai davvero percepito il pensiero?»

«Non ne sono sicuro. A volte ho pensato di averlo percepito, ma ho sempre il dubbio che si tratti della mia immaginazione. Quel che è certo è che nessun altro l’ha percepito, con o senza il mio programma. Ho usato lo sfavillio per individuare i nodi scettici nel cervello degli scimpanzé, e da lì ho dedotto la posizione corrispondente nel cervello umano, ma nemmeno questo è stato accettato. Lo considerano il frutto dell’entusiasmo eccessivo di uno scienziato troppo attaccato alle sue inverosimili teorie. E anche allacciando dei fili ai nodi scettici... di animali, naturalmente... anche così, non ho potuto avere riscontri sicuri.»

«Difficile, trattandosi di animali. Hai divulgato ufficialmente queste... queste tue sensazioni?»

«Non ho osato» rispose Morrison scuotendo la testa. Nessuno accetterebbe dei risultati così soggettivi. Ne ho parlato incidentalmente con parecchie persone... che sciocco sono stato... si è sparsa la voce, e i miei colleghi si sono convinti ancora di più che devo essere, diciamo, instabile. Solo lo scorso sabato ho saputo da Natalya che Shapirov mi prendeva sul serio... ma anche Shapirov è considerato, almeno nel mio paese, un tipo instabile.»

«Non lo è» fece decisa la Kaliinin. «O almeno, non lo era.»

«Be’, certo, sarebbe bello che fosse come dici tu.»

Konev, senza voltarsi, esordì all’improvviso: «Sono state le tue sensazioni di pensiero a colpire Shapirov. Lo so! Ne ha discusso con me. Diverse volte ha detto che il tuo programma era un ritrasmettitore e che gli sarebbe piaciuto provarlo di persona. All’interno di un neurone, un neurone chiave del nodo scettico, le cose sarebbero cambiate, diceva. Si sarebbero percepiti i pensieri inequivocabilmente. Lo pensava Shapirov, e lo penso anch’io. Anzi, secondo Shapirov, poteva darsi che tu avessi percepito i pensieri in modo lampante, ma che esitassi a comunicare la notizia. È così?»

“Come insistevano sulla segretezza, tutti quanti”, rifletté Morrison. Poi colse l’espressione della Kaliinin. Aveva la bocca socchiusa, le sopracciglia aggrottate, un dito vicino alle labbra. Sembrava quasi che fosse allarmata, che volesse dirgli di stare zitto e non osasse farlo apertamente.

Ma Morrison fu distratto dalla voce allegra e rumorosa di Dezhnev. «Basta chiacchiere, ragazzi miei. Dalla Grotta ci hanno individuati e, con loro grande sorpresa, siamo esattamente dove diciamo di essere.»

Konev alzò di scatto le mani e con voce quasi puerile disse: «Esattamente dove io dico che siamo.»

Dezhnev replicò: «Siamo per la responsabilità di gruppo... Dove noi diciamo di essere.»

«No» intervenne la Boranova. «Ho ordinato a Konev di decidere assumendosi la responsabilità. Il merito è suo, dunque.»

Konev non si calmò. «Non saresti stato così svelto a parlare di responsabilità di gruppo se ci fossimo trovati nel capillare sbagliato, Arkady Vissarionovich» disse, usando il patronimico, che ormai era in disuso da tempo in Unione Sovietica tranne che tra i contadini, quasi a sottolineare che Dezhnev era figlio di un contadino.»

Il sorriso di Dezhnev s’incrinò e i suoi incisivi ingialliti morsero il labbro inferiore.

Reprimendo eventuali repliche di Dezhnev, la voce da contralto della Boranova chiese in tono autoritario: «E Shapirov? Che notizie ci sono?»

«Passato tutto» rispose Dezhnev. «Gli hanno stabilizzato le pulsazioni con una iniezione.

«Bene, allora siamo pronti a muoverci?» fece Konev.

«Sì» rispose la Boranova.

«In tal caso... lasciamo il flusso sanguigno, finalmente.»

 

 

51

 

La Boranova e la Kaliinin erano chine sui loro strumenti. Morrison le osservò alcuni istanti ma, naturalmente non sapeva cosa stesse accadendo. Si rivolse a Dezhnev, che sedeva rilassato (a differenza di Konev, teso in ogni suo muscolo), e domandò: «Cosa facciamo, Arkady? Non possiamo certo uscire sfondando un vaso sanguigno del cervello.»

«Sgusceremo fuori non appena saremo abbastanza piccoli. Ci stiamo ancora miniaturizzando. Guardati attorno.»

Sorpreso, Morrison guardò. Ogni volta che il mondo esterno sembrava stabilizzarsi, lui finiva col dare per scontato che sarebbe rimasto così e lo ignorava.

La corrente aveva acquistato velocità. O meglio... no. La nave era rimpicciolita per l’ennesima volta e gli oggetti che scorrevano accanto allo scafo impiegavano meno tempo a passare e la mente, insistendo sulle dimensioni immutate della nave, interpretava le immagini come una corrente più rapida.

Un globulo rosso passò, muovendosi apparentemente come nella carotide, ma nonostante la velocità ondeggiò in lontananza a lungo, come una balena tremolante che superasse una barca. Era quasi trasparente adesso e il suo bordo era sfocato, per le vibrazioni del moto browniano. Era una sagoma grigiastra offuscata, simile a un nembo minaccioso che solcasse il cielo. Ormai aveva perso gran parte del suo ossigeno, cedendolo alle avide cellule cerebrali che, senza muoversi o dare alcun segno di vita visibile, consumavano un quarto dell’ossigeno portato dal sangue ai vari organi del corpo. Malgrado sembrasse che il cervello stesse semplicemente seduto al suo posto, le attività sensoriali, reattive e intellettive (coordinate con una complessità di cui nessun computer umano avrebbe mai potuto eguagliare nemmeno la miliardesima parte a dir poco) erano dispendiose.

Per compensare l’espandersi dei globuli rossi, delle piastrine, e dei rari globuli bianchi che erano diventati mostri troppo grandi per riuscire a distinguerli, il plasma sanguigno stava diventando molto meno liquido e informe.

Aveva cominciato ad apparire granuloso e adesso i grani si stavano espandendo lentamente mentre sfrecciavano a velocità sempre più elevata. Morrison sapeva che stava guardando delle molecole proteiche e, dopo un po’, gli parve di scorgere in modo vago attraverso il loro turbinio le disposizioni elicoidali dei loro atomi. Alcune erano rivestite parzialmente da una foresta in miniatura di molecole lipidiche.

Morrison adesso avvertiva anche un movimento, non il tremolio del moto browniano, bensì un rollio sempre più marcato.

Si voltò verso la parete del capillare alla quale erano attaccati.

Le specie di mattonelle cellulari erano scomparse... o almeno, una mattonella (tanto valeva chiamarla cellula a questo punto) si era ingigantita ed era l’unica visibile. Alle loro spalle c’era il rigonfiamento del nucleo, grosso e spesso... sempre più grosso e più spesso.

La nave ondeggiò, si staccò in parte dalla parete, e ondeggiò di nuovo riaccostandosi alla parete.

«Che sta succedendo?» chiese Morrison. La Kaliinin scosse il capo, totalmente immersa nel proprio lavoro.

Dezhnev spiegò: «Sophia sta cercando di neutralizzare la carica elettrica della nave in vari punti, in modo che lo scafo si stacchi prima che la tensione danneggi la parete. E deve trovare nuove aree di contatto per evitare che ci stacchiamo completamente. Non è facile miniaturizzarsi e nel medesimo tempo rimanere attaccati.»

Morrison disse allarmato: «A che livello scenderemo?»

Le sue parole furono soffocate dal comando stridulo della Kaliinin. «Arkady, spostala avanti. Piano! Solo una lieve spinta.»

«Sì, Sophia... però dimmi quando devo fermarmi» rispose Dezhnev. E rivolto a Morrison: «Mio padre diceva: “Tra non abbastanza e troppo ci corre un pelo”.»

«Di più, di più» disse la Kaliinin. «Bene. Adesso proviamo.» La nave parve bloccarsi, poi d’un tratto scivolò in avanti e Morrison si sentì proiettato adagio contro lo schienale del sedile.

«Bene» disse la Kaliinin. «Un po’ meno adesso.»

La cellula terminò. Più in là c’era un’altra cellula. Cellule sottili, un velo di cellule unite assieme che formavano un tubicino, con la nave e i cinque membri dell’equipaggio attaccati alla superficie interna dalle minuscole attrazioni di cariche elettriche.

Lo spazio tra le cellule sembrava filamentoso; c’erano dei cavi che si estendevano dall’interno di una cellula a quella vicina. Non erano tutti intatti, si vedevano dei tronconi, simili ai resti di una foresta abbattuta. A Morrison sembrò che ci fossero delle strette aperture in quella foresta abbattuta, ma dal suo punto d’osservazione non aveva una visuale chiara.

Chiese ancora: «A che livello di miniaturizzazione scenderemo, Arkady?»

«Scenderemo alle dimensioni di una piccola molecola organica.»

«Ma a quel livello quante sono le probabilità di de miniaturizzazione spontanea?»

«Apprezzabili. Molto superiori rispetto a quando avevamo le dimensioni di un globulo rosso o di una piastrina.»

«Comunque non abbastanza da dovercene preoccupare, te lo assicuro» precisò la Boranova.

«Appunto» confermò Dezhnev, e incrociando le dita alzò leggermente la mano perché Morrison potesse vedere appena, ma non la Boranova che era più indietro. Era ormai un gesto universale e Morrison, conoscendone benissimo il significato, provò una sensazione di freddo interiore.

Dezhnev aveva lo sguardo fisso di fronte a sé, ma forse intuì la smorfia di Morrison o sentì il suo lieve brontolio. «Non preoccuparti, mio giovane Albert. È sempre consigliabile una preoccupazione alla volta, quindi adesso pensiamo a sgusciar fuori dal vaso sanguigno... Sophia, mia diletta...»

«Sì, Arkady?»

«Attenua il campo in coda, e quando mi muovo cercane uno di fronte.»

«D’accordo, Arkady. Per caso tuo padre non ha detto una volta: “È inutile cercare di insegnare a rubare a un ladro”?»

«Sì, l’ha detto. Ruba, dunque, ladruncola. Ruba!»

Morrison si chiese se Dezhnev e la Kaliinin avessero assunto volontariamente quell’atteggiamento scherzoso di fronte alla possibilità di una morte improvvisa proprio per risollevargli il morale... o se volessero mostrare il loro disprezzo per la sua vigliaccheria. Scelse la prima ipotesi. Quando un’azione si prestava sia a un’interpretazione amichevole che a una ostile, tanto valeva propendere per quella amichevole. Forse il padre di Dezhnev sarebbe stato d’accordo. Dopo questa conclusione, si sentì meglio.

Il retro dello scafo era a parecchi centimetri (picometri in unità reale?) dalla parete del capillare. Morrison la studiò attentamente e vide le linee serrate di molecole lipidiche e proteiche che la formavano.

“Cosa stiamo facendo? Ignoriamo una cosa del genere?” pensò. “Abbiamo l’opportunità di studiare i tessuti con una precisione superiore a quella del miglior microscopio elettronico... l’opportunità di studiarli vivi di vedere non solo la condizione statica ma il cambiamento e il movimento della vita. Abbiamo attraversato il flusso sanguigno e siamo arrivati in un capillare senza soffermarci a guardare nulla da un punto di vista veramente scientifico. Siamo solo di passaggio, abbiamo lo stesso interesse che avremmo se fossimo in un tunnel della metropolitana... E tutto per studiare delle oscillazioni che potrebbero essere prodotte dal pensiero... e forse no.”

La nave stava avanzando pianissimo, quasi stesse procedendo a tastoni. Forse era proprio quello che stava facendo, coi motori di Dezhnev e i guizzanti campi elettrici della Kaliinin.

«Ci stiamo avvicinando alla giuntura, Sophia» disse Dezhnev, la voce insolitamente tesa. «Vedi di trovare un appiglio saldo di fronte mentre avanzo ancora un paio di metri.»

«A giudicare dall’aspetto e dal comportamento elettrico, dovremmo avere un gruppo di arginine verso la giuntura» disse la Kaliinin. «È una zona a forte carica positiva, e posso occuparmene a occhi chiusi.»

Ma la Boranova ammonì severa: «Niente eccessi di confidenza, Sophia. Occhi aperti. Se sbagli e la nave si stacca dovremo rifare tutto.»

«Va bene, Natalya... ma, con rispetto parlando, non era necessario questo avvertimento.»

Dezhnev disse: «Sophia, fai esattamente come dico io. Tieni attaccata solo la prua della nave, forte però. Stacca tutto il resto.»

«Fatto» annunciò Sophia sottovoce.

Morrison trattenne il respiro. Il retro dello scafo si allontanò bruscamente dalla parete. Il flusso sanguigno, investendolo, spinse la nave in posizione perpendicolare rispetto alla corrente, mentre la parete del capillare nel punto dov’era attaccata la nave sporse in fuori come un foruncolo.

«Attenzione» gracchiò Morrison. «Strapperemo un pezzo di parete.»

«Zitti tutti!» sbottò Dezhnev. Poi, abbassando il tono: «Sophia. aumenterò leggermente la spinta. Preparati a eliminare l’attrazione rimasta. La nave deve essere libera... ma solo quando lo dico io.»

Sophia lanciò un’occhiata alla Boranova, che disse col solito tono pacato: «Fai esattamente come ti è stato detto, Sophia. In questo momento è Arkady che comanda.»

Morrison ebbe l’impressione di sentire la nave muoversi in avanti. Il tratto di parete del capillare a cui era attaccata era sempre più teso.

Sophia disse apprensiva: «Arkady, o cederà il campo o sarà la parete a cedere!»

«Ancora un attimo, cara, ancora - un attimo... Adesso

La parete si ritrasse di scatto e la nave balzò in avanti, spingendo Morrison contro lo schienale e conficcando la prua nella sostanza connettiva tra le due cellule della parete del capillare.

 

 

52

 

Per la prima volta, Morrison avvertì lo sforzo dei motori a microfusione. C’era un pulsare subliminale mentre la nave attraversava la giuntura con difficoltà sempre maggiore. Davanti, non c’era nulla da vedere. Lo spessore del capillare, per quanto esiguo in termini normali, superava abbondantemente la lunghezza della nave.

Lo scafo era penetrato totalmente nello spazio di congiunzione tra le due cellule ora, e Dezhnev, la fronte imperlata di sudore, si girò rivolgendosi alla Boranova. «Consumiamo energia più in fretta di quel che dovremmo.»

«Allora ferma la nave e riflettiamo.»

«Se mi fermo, è possibile che l’elasticità naturale di questa sostanza ci spinga di nuovo nel flusso sanguigno.»

«Rallenta i motori, allora. Scegli una potenza sufficiente a tenerci in posizione.»

Il pulsare cessò.

Dezhnev disse: «La giuntura esercita una pressione notevole sulla nave.»

«Sufficiente a schiacciarci, Arkady?»

«Per ora no. Ma se la pressione continua, col tempo potrebbe darsi.»

Morrison sbottò: «Assurdo. Qualcuno non ha detto che abbiamo le dimensioni di una piccola molecola organica?»

«Di una molecola di glucosio» precisò la Boranova «che è composta da ventiquattro atomi.»

«Grazie» fece Morrison sarcastico «lo so quanti atomi ci sono in una molecola di glucosio. Combinazione, le piccole molecole si spostano costantemente attraverso le pareti dei capillari per diffusione. Diffusione! È così che funziona il corpo. Perché non passiamo per diffusione?»

La Boranova disse: «La diffusione è un fenomeno statistico. In ogni momento ci sono ventiquattro miliardi di trilioni di molecole di glucosio nel flusso sanguigno. Si muovono a caso e alcune riescono a colpire certi punti in modo tale da penetrare in una giuntura o nella membrana di una cellula della parete di un capillare e uscire-dalla parte opposta. Una percentuale molto piccola ci riesce ogni secondo, ma è sufficiente a garantire il funzionamento corretto dei tessuti. Però, per caso, una particolare molecola di glucosio può anche rimanere nel flusso sanguigno per un mese senza diffondersi. Possiamo affidarci al caso e aspettare un mese?»

«Che discorso, Natalya» fece Morrison spazientito. «Perché non facciamo deliberatamente quello che una vera molecola di glucosio farebbe affidandosi al caso? Soprattutto adesso, che abbiamo già attraversato in parte la giuntura. Perché siamo bloccati?»

Konev disse: «Sono d’accordo con Albert. Probabilmente la diffusione non è una dispersione passiva. C’è qualche interazione tra l’oggetto che si diffonde e la barriera attraverso cui avviene la diffusione... solo che nessuno sa quale potrebbe essere di preciso questa interazione. Specialmente qui, di fronte alla barriera sangue-cervello.»

«Siamo di fronte alla barriera» disse Dezhnev. «Sei tu l’esperto del cervello. Non puoi guardarti attorno e dirci come funziona questa diffusione?»

«No, non posso. Ma il glucosio è una molecola che supera facilmente la barriera sangue-cervello. Per forza, trattandosi dell’unica sostanza che fornisce energia al cervello. Il guaio è che questa nave, pur essendo piccola come una molecola di glucosio, non è una molecola di glucosio.»

«Stai venendo al dunque, Yuri, o è solo una conferenza?» domandò la Boranova.

«Sto venendo al dunque. Abbiamo tolto la carica elettrica alla nave per tuffarci nella giuntura, ma perché la lasciamo priva di carica adesso? Non si può dare allo scafo la struttura di carica di una molecola di glucosio? In questo modo sarà una molecola di glucosio per il corpo di Shapirov. Ti suggerisco di ordinare che venga fatto, Natalya.»

La Kaliinin non attese l’ordine. Annunciò: «Fatto, Natalya.»

Entrambi si rivolgevano sempre alla Boranova, notò Morrison. Ognuno continuava a fingere che l’altro non esistesse.

Dezhnev disse: «E la pressione della giuntura diminuisce subito. Riconosce un amico, così si inchina educatamente e si fa da parte. La madre di mio padre, possa conservare a lungo il suo ricordo, avrebbe gridato: “Magia nera!” e sarebbe corsa a nascondersi sotto il letto.»

«Arkady» disse la Boranova «aumenta la potenza dei motori e attraversiamo prima che la giuntura si accorga che sotto la struttura del glucosio c’è qualcosa che glucosio non è.»

«Sì, Natalya.»

Morrison disse: «Onore al merito, Yuri. La tua idea è stata perfetta. Col senno di poi capisco che avrei dovuto pensarci anch’io, ma rimane il fatto che non ci ho pensato.»

Konev borbottò burbero, come se non sapesse che farsene delle lodi: «Non è stato nulla. Dato che il cervello vive di glucosio, siamo scesi al livello di una molecola di glucosio. Prima o poi avremmo dovuto avere anche la struttura di carica del glucosio, e non appena hai chiesto come mai non ci stessimo diffondendo, mi sono reso conto che quella struttura ci serviva già.»

Dezhnev annunciò: «Membri della spedizione, abbiamo superato la giuntura. Abbiamo lasciato il flusso sanguigno. Siamo nel cervello.»