Capitolo
decimo.
Il capillare
Se vuoi sapere se l’acqua bolle, non sentirla con la mano.
DEZHNEV SENIOR
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Dezhnev si voltò, trasalendo, e disse: «È un globulo bianco, Albert, un leucocita. Non c’è da preoccuparsi.»
Morrison deglutì, seccato. «Lo so che è un globulo bianco. Solo che sono rimasto sorpreso. È più grande di quel che immaginavo.»
«Non è nulla» disse Dezhnev. «È buono come il pane, e non è più grande di quel che dovrebbe. Siamo solo più piccoli noi. E anche se fosse grande come Mosca? Sta soltanto galleggiando nel flusso sanguigno come noi.»
«A dire il vero» intervenne la Kaliinin «non sa nemmeno che siamo qui... o meglio, che siamo qualcosa di speciale. Pensa che siamo un globulo rosso.»
Konev sembrò rivolgersi all’aria di fronte a sé, assente, e disse: «I globuli bianchi non pensano.»
Un guizzo di risentimento attraversò il viso della Kaliinin, che arrossì leggermente, ma la sua voce non si alterò. «Dicendo “pensa”, Albert, stavo semplicemente usando una figura retorica. Quel che intendo dire è che il comportamento del globulo bianco nei nostri confronti è lo stesso che mostrerebbe nei confronti di un globulo rosso.»
Morrison lanciò un’altra occhiata all’enorme corpuscolo fluttuante e decise che, innocuo o meno, aveva un aspetto disgustoso. Guardò con notevole apprezzamento il contrasto rappresentato dal volto grazioso della Kaliinin, e si chiese come mai non si fosse fatta togliere quel piccolo neo sotto l’angolo sinistro del labbro. Del resto, poteva darsi che aggiungesse invece il giusto pizzico di vivacità a un viso che altrimenti avrebbe potuto essere considerato troppo grazioso per possedere carattere.
Quell’attimo di riflessioni non pertinenti ebbe il potere di scacciare l’inquietudine provocata dalla comparsa del globulo bianco, e Morrison tornò con la mente a quanto aveva detto la Kaliinin.
«Si comporta come se fossimo un globulo rosso perché abbiamo le stesse dimensioni?»
«Forse anche questo serve» rispose lei «ma non è il vero motivo. Tu sai che un globulo rosso è un globulo rosso perché lo vedi. Il globulo bianco lo riconosce perché percepisce lo schema caratteristico della struttura elettromagnetica della sua superficie. I globuli bianchi sono addestrati... è solo un’altra figura retorica... diciamo, sono predisposti in maniera tale da ignorarlo.»
«Ma la nave non ha la struttura elettromagnetica superficiale di un globulo rosso... Ah, ma a questo hai provveduto tu, immagino.»
La Kaliinin sorrise compiaciuta. «Sì, ho provveduto. È la mia specialità.»
Dezhnev disse: «Proprio, Albert. La nostra piccola Sophia ha, qui nella testa» si batté sulla tempia «l’esatto schema elettromagnetico di ogni cellula, di ogni batterio, di ogni virus, di ogni molecola proteica, di ogni...»
«Non esageriamo» l’interruppe la Kaliinin. «Comunque, quelli che non ricordo può fornirmeli il mio computer. E qui ho un congegno che sfruttando l’energia dei motori a microfusione è in grado di creare cariche elettriche positive e negative sullo scafo secondo lo schema che voglio. La nave ha lo schema di carica di un globulo rosso, il più preciso che posso imitare, e lo schema è abbastanza fedele da far sì che il globulo bianco reagisca... o meglio, non reagisca... di conseguenza.»
«Quando l’hai fatto, Sophia?» chiese Morrison interessato.
«Quando siamo scesi a dimensioni tali da diventare una preda potenziale per un globulo bianco o per il sistema immunitario in genere. Non vogliamo nemmeno essere sommersi dagli anticorpi.
A Morrison venne in mente una cosa. «A proposito di dimensioni ridotte, perché il moto browniano non è peggiorato? Dovrebbe sballottarci di più via via che rimpiccioliamo.»
La Boranova intervenne da dietro. «Lo farebbe, se fossimo oggetti non miniaturizzati di queste dimensioni. Dato che siamo miniaturizzati, ci sono ragioni teoriche che impediscono al moto browniano di diventare molto più violento. Niente di cui preoccuparsi.»
Morrison rifletté un attimo, poi si strinse nelle spalle. Non gli avrebbero detto nulla che, a loro giudizio, potesse fornirgli troppi dati sulla miniaturizzazione... ma che importava? Il moto browniano non era peggiorato. Anzi, era meno fastidioso (o era lui che si stava abituando), e a Morrison andava benissimo così. Niente di cui preoccuparsi, come aveva detto la Boranova.
La sua attenzione si spostò di nuovo sulla Kaliinin. «Da quanto tempo ti dedichi a questo settore, Sophia?»
«Da quando mi sono laureata. Anche senza l’incidente di Shapirov, sapevamo che un giorno sarebbe stato necessario compiere un viaggio nel flusso sanguigno. Era da parecchio che avevamo in programma qualcosa del genere, e sapevamo che avremmo avuto bisogno di questa mia specializzazione.»
«Avreste potuto progettare una nave automatizzata senza equipaggio.»
«Forse un giorno lo faremo» disse la Boranova. «Ma per ora no. Non siamo ancora in grado di dare all’automazione la versatilità e l’ingegnosità di un cervello umano.»
«È vero» disse la Kaliinin. «Uno strutturatore automatizzato ci darebbe la struttura elettromagnetica di un globulo rosso, seguendo il principio della linea di minor resistenza, e il suo lavoro in pratica finirebbe lì. Sarebbe una spesa inutile e forse un esercizio sterile cercare di instillare in uno strutturatore automatico la capacità di adeguarsi a situazioni improbabili di ogni tipo. Io invece posso fare quasi tutto. Posso modificare lo schema superficiale di fronte a una emergenza improvvisa, verificare il valore di qualcosa di inaspettato, o semplicemente seguire un capriccio... Per esempio, potrei dare alla nave lo schema di un batterio E. coli, e il globulo bianco ci attaccherebbe subito.»
«Non ne dubito» disse Morrison. «Però non farlo, per favore.»
«Non temere. Non lo farò.»
Ma la voce della Boranova risuonò all’improvviso con un tono insolito di eccitazione. «Al contrario, Sophia, fallo!»
«Ma, Natalya...»
«Non scherzo, Sophia. Fallo. Sai, non abbiamo provato il tuo strumento con un test diretto. Proviamolo.»
Konev borbottò: «È una perdita di tempo. Arriviamo prima dove dobbiamo arrivare.»
La Boranova insisté: «Non servirà a nulla arrivare là, se non riusciremo a entrare in una cellula. Ecco un’occasione immediata per vedere se Sophia è in grado di controllare il comportamento di una cellula.»
«Sono d’accordo» annuì chiassoso Dezhnev. «Finora è stato un viaggio decisamente monotono.»
«Sono i viaggi migliori, a mio avviso» osservò Morrison.
Ma Dezhnev alzò una mano in segno di disapprovazione. «Il mio vecchio padre diceva sempre: “Volere la pace e la quiete sopra ogni altra cosa è augurarsi la morte”.»
«Procedi, Sophia» ordinò la Boranova. «Stiamo perdendo tempo.»
La Kaliinin esitò un attimo, forse il tempo necessario per ricordare che Natalya era il comandante della nave, poi le sue mani si mossero svelte sui controlli della sua apparecchiatura e le configurazioni sullo schermo cambiarono in modo nettissimo.
Morrison, malgrado l’apprensione, ammirò la rapidità d’intervento della Kaliinin.
Morrison alzò lo sguardo verso il globulo bianco di fronte, e per un istante non notò alcuna reazione. Poi il mostro parve scosso da un fremito e Dezhnev mormorò: «Ah, riconosce la presenza della preda.»
All’estremità frontale, la sostanza del globulo si gonfiò e si allungò a formare attorno allo scafo un cerchio irregolare. Nel medesimo tempo, la sostanza al centro si ritrasse quasi fosse risucchiata. Morrison si figurò le fauci di un mostro che si preparava al pasto.
Konev disse: «Funziona, Natalya. Quella creatura si accinge ad avvolgerci e a inghiottirci.»
«Esatto» fece la Boranova. «Molto bene, Sophia, riportaci allo schema del globulo rosso.»
Le dita della Kaliinin si mossero di nuovo veloci, e sullo schermo tornarono le configurazioni di prima (almeno, per quel che poteva giudicare la memoria di Morrison).
Questa volta, però, il globulo bianco non reagì. Il suo margine esterno stava guizzando oltre la nave... lo scafo adesso stava entrando nella profonda cavità centrale.
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Morrison restò sgomento. La nave era racchiusa da qualcosa che assomigliava a una nebbia bianca, una nebbia granulosa dentro cui un oggetto multilobato, leggermente più denso del resto si contorceva muovendosi attorno allo scafo. Morrison capì che doveva essere il nucleo del globulo bianco.
Konev sbottò rabbioso: «A quanto pare, quando il globulo bianco avvia il processo di inghiottimento, il resto avviene automaticamente ed è impossibile arrestarlo... Adesso che si fa, Natalya?»
La Boranova rispose tranquilla: «Ammetto che non me lo aspettavo. La colpa è mia.»
«Che differenza c’è?» fece Dezhnev, corrugando la fronte. «Poco male. Cosa può farci questa bolla? Non può certo stritolarci. Non è un boa constrictor.»
Konev replicò: «Può cercare di digerirci. Siamo in un vacuolo alimentare adesso, e gli enzimi digestivi ci stanno piovendo addosso.»
«Facciano pure, e che si divertano» disse Dezhnev. «Un globulo bianco non ha nulla che possa digerire questo scafo. Tra poco ci espellerà come residuo indigeribile.»
«Come farà a saperlo?» chiese la Kaliinin.
«A sapere, cosa?» fece brusco Dezhnev.
«Che siamo un residuo indigeribile. È stato spinto a reagire dal nostro schema di carica batterico.»
«Che tu hai tolto.»
«Sì, ma come ha osservato qualcuno, a quanto pare una volta stimolato, il globulo bianco deve completare il suo intero ciclo di attività. Non è una macchina pensante, è una struttura automatica.» La Kaliinin aveva un’espressione accigliata e stava guardando gli altri. «Secondo me, il globulo bianco insisterà nel tentativo di digerirci finché non riceverà uno stimolo adeguato che invertirà il processo di inghiottimento e gli consentirà di espellerci.»
La Boranova intervenne. «Ma adesso abbiamo di nuovo la struttura di carica di un globulo rosso. Non dovrebbe essere sufficiente a stimolare l’espulsione? I globuli bianchi non mangiano globuli rossi.»
«Credo che sia troppo tardi per questo» disse la Kaliinin con una certa titubanza, quasi l’innervosisse l’idea di affrontare la Boranova. «Grazie al suo schema di carica un globulo rosso non viene inghiottito, però se viene inghiottito in qualche modo, pare che il suo schema elettromagnetico da solo non basti a provocare l’espulsione. E infatti, siamo ancora qui dentro. Il globulo bianco non ci sta espellendo.»
I suoi occhi, o meglio cinque paia di occhi, fissavano inquieti la parete della nave. Erano intrappolati in quella nube cellulare.
«A mio avviso» riprese la Kaliinin» c’è uno schema di carica relativo ai residui indigeribili lasciati dai batteri che il globulo bianco fagocita, e solo quello schema può innescare l’espulsione.
«In tal caso» disse Dezhnev «dagli lo schema che vuole, Sophia, pulcino mio.»
«Volentieri» rispose lei «basta che tu mi dica qual è, perché io non lo so. Non posso provare degli schemi a caso. Il numero degli schemi possibili è astronomico.»
«E poi, siamo sicuri che il globulo bianco abbia un meccanismo di espulsione?» disse Konev. «Forse i residui indigeribili restano nella sua materia granulosa e vengono poi tolti e disgregati nella milza.»
La Boranova disse in modo brusco (oppressa forse dal fatto di essere responsabile della situazione attuale, pensò Morrison): «Le chiacchiere non servono. Non c’è qualche suggerimento costruttivo?»
Dezhnev propose: «Posso accendere i motori a microfusione e aprire un varco nel globulo bianco.»
«No» fece seccamente la Boranova. «Sai quale sia la nostra direzione in questo momento? Può darsi che in questo vacuolo alimentare noi stiamo girando lentamente, o che il vacuolo stesso si sposti nella sostanza cellulare. Aprendo un varco con la forza, potresti danneggiare la parete del vaso sanguigno e magari anche il cervello.»
Konev disse: «Se è per questo, i globuli bianchi possono uscire da un capillare sgusciando tra le cellule che compongono la parete del capillare. Dato che la nostra rotta ci ha portato in un’arteriola che si è ristretta quasi a livello capillare, non abbiamo nessuna certezza di trovarci ancora nel flusso sanguigno.»
«Certo che l’abbiamo» intervenne di colpo Morrison. «11 globulo bianco può schiacciarsi e rimpicciolire, però non può schiacciare noi. Contraendosi per uscire dalla parete del vaso sanguigno, sarebbe costretto a lasciarci indietro... il che sarebbe una bella cosa, solo che non l’ha fatto.»
«Ecco!» esclamò Dezhnev. «Avrei dovuto pensarci prima. Natasha, ingrandisci la nave e spacca il globulo. Provocagli un’indigestione senza precedenti.»
Di nuovo una secca risposta negativa da parte della Boranova. «Col rischio di spaccare anche il vaso sanguigno? No, il vaso sanguigno è piccolissimo ormai, non molto più ampio del globulo bianco.»
La Kaliinin suggerì: «Se Arkady si mettesse in contatto con la Grotta, forse là qualcuno potrebbe avere un’idea.»
Ci fu un attimo di silenzio, poi con voce un poco strozzata la Boranova disse: «Non ancora. Abbiamo commesso una sciocchezza... cioè, io l’ho commessa... e sapete benissimo che sarebbe meglio per tutti se non chiedessimo aiuto.»
«Non possiamo aspettare in eterno» protestò Konev agitato. «Il fatto è che ormai non so più dove siamo. Non posso sperare che il globulo bianco si lasci trasportare dal flusso sanguigno o che mantenga una data velocità. Una volta persi, potrebbe volerci parecchio tempo per localizzare la nostra posizione e forse avremo bisogno dell’aiuto della Grotta. In quel caso, come giustificheremo il fatto di esserci smarriti?»
Morrison disse: «E se sfruttassimo il condizionamento dell’aria?»
Una pausa, quindi la Boranova chiese: «Cosa intendi dire, Albert?»
«Be’, dalla nave stiamo inviando delle particelle subatomiche miniaturizzate nello spazio interplanetario. Queste particelle sottraggono calore alla nave, mi è stato detto, permettendoci di mantenere una temperatura fresca malgrado il calore circostante del corpo umano in cui ci troviamo. Questa temperatura inferiore deve essere qualcosa che il globulo bianco non è abituato a sopportare. Alzando il condizionamento e raffreddandoci ulteriormente, può darsi che a un certo punto il globulo bianco avverta un fastidio tale da espellerci.»
La Boranova rifletté sul suggerimento. «Penso che... può darsi che funzioni.»
Dezhnev disse: «Non scomodarti a pensare. Ho messo il condizionamento al massimo. Vediamo se succede qualcosa oltre al nostro congelamento.»
Morrison osservò la specie di nebbia esterna. Era teso come gli altri, e se ne rendeva conto. Non era angosciato per una decisione sfortunata, per un esperimento sconsiderato. Né stava in ansia per la sorte di Shapirov, tuttavia...
Analizzando i propri sentimenti, si accorse che, arrivato a quel punto, ora che era stato miniaturizzato e si trovava in una piccola arteriola cerebrale, provava un desiderio improvviso di verificare le sue teorie. Aveva fatto tanta strada solo per tornare sui propri passi e trascorrere il resto della vita ad alzare metaforicamente il pollice e l’indice, e a farli quasi toccare, ripetendo tra sé: “Hai mancato l’obiettivo di tanto?”.
Benissimo. Dunque, se prima non voleva assolutamente partecipare al progetto, adesso l’idea che fallisse non gli andava proprio.
La voce di Dezhnev interruppe le sue riflessioni. «Non credo che a questo animaletto piaccia quello che sta succedendo.»
Morrison avvertì un freddo pungente, e rabbrividì, rendendosi conto che la sottile uniforme di cotone era del tutto inadeguata a ripararlo da quell’improvvisa ondata invernale.
E forse il globulo bianco “pensò” la stessa cosa, perché la nebbia si diradò e in essa apparve uno squarcio. Un paio di secondi dopo, l’ambiente circostante era libero, mentre il globulo bianco era ormai una chiazza lattiginosa alle loro spalle che si allontanava galleggiando, o forse strisciando, come un’ameba, da una spiacevole esperienza.
La Boranova esclamò, un po’ confusa: «Be’, se n’è andato.»
Dezhnev agitò le mani nell’aria. «Un brindisi al nostro eroe americano... se avessimo un goccetto di vodka con noi. Ottimo suggerimento.»
La Kaliinin annuì rivolta a Morrison. «È stata una buona idea.»
«Buona quanto è stata cattiva la mia» disse la Boranova. «Ma almeno sappiamo che la tua tecnica è efficace, Sophia... a patto che sappiamo cosa aspettarci. E tu, Arkady, abbassa il livello di condizionamento prima che ci buschiamo la polmonite... Visto, Albert, è già stato vantaggioso portarti con noi.»
«Può darsi» fece Konev arcigno «ma intanto temo che il globulo bianco ci abbia portati a spasso. Non siamo più dov’eravamo prima... e io non so di preciso dove siamo.»
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La Boranova serrò le labbra e chiese con una certa difficoltà: «Com’è possibile che tu non sappia dove siamo? Siamo stati all’interno del globulo solo pochi minuti. Non può averci portato nel fegato, no?»
Konev sembrava sconvolto quanto lei. «No, non siamo nel fegato, signora. Però ho il sospetto che il globulo bianco, trascinandoci con sé, si sia immesso in una ramificazione capillare... così adesso non siamo più nel flusso dell’arteriola che stavamo seguendo attentamente... arteriola che non era ancora un capillare vero e proprio.
«E in che capillare si è immesso?» chiese la Boranova.
«È questo che non so. Sono una dozzina i capillari in cui può essersi immesso il globulo.»
«Ma il tuo indicatore rosso non...» iniziò Morrison.
«Il mio indicatore rosso funziona in base al punto stimato» rispose subito Konev. «Se so dove siamo e a che velocità procediamo, l’indicatore si muove con noi e gira quando gli dico di girare.»
«Vorresti dire» fece Morrison incredulo «che segna la nostra posizione solo se conosciamo la nostra posizione... nient’altro?»
«Non è un segnale magico, no» rispose gelido Konev. «Indica la nostra posizione e la segue, per evitare che la perdiamo nella complessità tridimensionale del flusso sanguigno e delle reti neuroniche, però dobbiamo guidarlo. In caso di emergenza. Possiamo essere localizzati dall’esterno, ma è una procedura lunga.»
Era giunto il momento della classica domanda stupida, e fu Dezhnev a formularla. «Perché il globulo bianco avrebbe dovuto deviare in un capillare?»
Konev diventò rosso. Parlando così in fretta che Morrison distinse a stento le parole in russo, rispose: «E che ne so? Sono forse al corrente dei processi di pensiero di un globulo bianco?»
«Basta» intervenne deciso Morrison. «Non siamo qui per litigare.» (Notò la breve occhiata lanciatagli dalla Boranova e gli parve di interpretarla come un’espressione di gratitudine.)
«In effetti» continuò «la soluzione è semplice. Siamo in un capillare. Benissimo. Nei capillari la corrente sanguigna è lentissima, quindi non vedo perché non dovremmo usare i famosi motori a microfusione. Inserite la retrospinta, così risaliremo il capillare e in breve tempo raggiungeremo la ramificazione e saremo di nuovo nell’arteriola. Poi proseguiremo fino alla diramazione giusta e imboccheremo il capillare giusto. Avremo perso pochissimo tempo e consumato pochissima energia... chiuso.»
Le parole di Morrison furono accolte da sguardi estremamente seri. Perfino Konev, che di solito parlava con la faccia fissa in avanti, si voltò e fissò Morrison accigliato.
Sentendosi a disagio, Morrison domandò: «Perché mi guardate così? È una prassi normalissima. Se foste in auto e svoltaste in un vicolo sbagliando strada, non fareste retromarcia?»
Scuotendo la testa, la Boranova disse: «Mi spiace. Albert. Non abbiamo retrospinta.»
«Cosa?» Morrison la fissò allibito.
«Non abbiamo retrospinta. Abbiamo solo una spinta in avanti. Nient’altro.»
Morrison disse: «Ma com’è possibile... Niente retromarcia?»
«No.»
Morrison guardò le quattro facce, poi esplose. «Che razza di situazione stupida, pazzesca, da incompetenti! Solo in Unio...» S’interruppe.
«Finisci la frase» fece la Boranova. «Stavi per dire che solo in Unione Sovietica poteva crearsi una situazione del genere.»
Morrison deglutì, poi disse irritato: «Sì, esatto. Sarà un’affermazione antipatica, ma sono arrabbiato... e può anche darsi che ci sia del vero nelle mie parole.»
«E credi che noi non siamo arrabbiati, Albert?» disse la Boranova fissandolo negli occhi. «Sai da quanto tempo stiamo lavorando a una nave come questa? Sono anni. Molti anni! Da quando la miniaturizzazione si è tramutata in una possibilità concreta abbiamo pensato di entrare un giorno in un apparato circolatorio ed esplorare dall’interno il corpo di un mammifero, se non il corpo umano. Ma più progettavamo e più lavoravamo, più il progetto diventava costoso e più aumentava l’ostinazione degli amministratori di Mosca. Non posso biasimarli; dovevano far quadrare le spese di questo progetto con altre spese in settori molto meno problematici della miniaturizzazione. Quindi, di conseguenza, la nave è diventata sempre più semplice come concezione, via via che eliminavamo questo e quello e quell’altro ancora. Ricordi quando voi americani stavate costruendo le vostre prime navette spaziali? Ricordi quali erano i progetti e cosa avete ottenuto invece? In ogni caso, ci siamo ritrovati con una nave senza propulsione, adatta solo all’osservazione. Intendevamo entrare nel flusso sanguigno e lasciarci trasportare dalla corrente. Raccolte tutte le informazioni possibili, ci saremmo de miniaturizzati lentamente. In questo modo avremmo ucciso l’animale studiato... si sarebbe trattato solo di un animale, naturalmente, ma anche così alcuni di noi si tormentavano di fronte a quella prospettiva. Ecco per cosa era stata costruita questa nave. Non potevamo sapere che all’improvviso ci saremmo trovati in una situazione tale da dover penetrare in un corpo umano, raggiungere un punto particolare del cervello, e uscire senza uccidere la persona. Dovevamo farlo... e non avevamo che questa nave, nata per uno scopo completamente diverso.»
La rabbia e il disprezzo sul volto di Morrison erano scomparsi, trasformandosi in un’espressione accigliata e preoccupata. «Cosa avete fatto?»
«Ci siamo messi al lavoro il più in fretta possibile. Abbiamo perfezionato i motori a microfusione e alcune altre cose, temendo che Shapirov potesse morire da un istante all’altro, e temendo forse ancor più che la nostra fretta potesse farci commettere qualche errore fatale. Be’, non credo che abbiamo commesso errori fatali, tuttavia i motori a microfusione a nostra disposizione avremmo dovuto impiegarli come propulsori solo in caso di assoluta necessità... dato che erano nati per fornire l’illuminazione, l’aria condizionata, e per altri impieghi a basso consumo energetico. Naturalmente, ci è mancato il tempo di fare un lavoro completo, quindi... niente retromarcia.»
«Nessuno ha fatto notare che vi sareste potuti trovare in una situazione tale da avere bisogno della retropropulsione?»
«Avrebbe comportato altre spese, ed era impossibile ottenere altri stanziamenti. Dopotutto, dovevamo competere con- lo spazio, che è un’impresa avviata, con le esigenze realistiche dell’agricoltura, del commercio, dell’industria, del controllo della criminalità, e con altre decine di settori governativi tutti attaccati al tesoro dello Stato. È naturale che i fondi non fossero mai sufficienti.»
Dezhnev sospirò. «Ed eccoci qui. Come diceva il mio buon padre: “Solo i babbei vanno dagli indovini. Che fretta c’è di sentire le brutte notizie?”.»
«Tuo padre non mi dice nulla di nuovo, Arkady. Almeno, con questa massima... Mi spaventa chiederlo, ma non possiamo semplicemente girare la nave?» domandò Morrison.
Dezhnev disse: «Saggia paura, la tua. Innanzitutto, il capillare è troppo stretto. Non c’è spazio per girare.
Morrison scosse il capo, spazientito. «Non è necessario farlo mantenendo le dimensioni attuali. Restringete un po’ la nave. Miniaturizzatela. Tanto dovrete miniaturizzarla prima di entrare in una cellula. Fatelo ora e giratela.»
Dezhnev disse tranquillo: «E in secondo luogo, non possiamo girarla... proprio come non possiamo andare indietro. Abbiamo la spinta in avanti, e basta.»
«Incredibile» mormorò Morrison tra sé. Poi ad alta voce: «Come avete potuto accettare di iniziare questo progetto con una nave così carente?»
Konev rispose: «Non avevamo scelta, e non erano previsti giochi coi globuli bianchi.»
La Boranova, il volto inespressivo, la voce incolore, disse: «Se il progetto fallirà, mi assumerò ogni responsabilità.»
La Kaliinin alzò lo sguardo. «Natalya, parlare di colpe non serve. Adesso non abbiamo scelta. Dobbiamo andare avanti. Proseguiamo, miniaturizziamoci se necessario, e troviamo qualche cellula promettente in cui penetrare.»
«Qualche cellula?» sbottò Konev reprimendo uno scatto di rabbia, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Qualche cellula? E a che scopo?»
«Potremmo trovare qualcosa di utile in qualsiasi punto, Natalya» disse la Kaliinin.
Visto che Konev taceva, la Boranova chiese: «Qualche obiezione alla proposta, Yuri?»
«Obiezioni? Certo.» Konev non si voltò, ma la sua schiena era irrigidita per la collera. «Ci sono dieci miliardi di neuroni nel cervello, e qualcuno vorrebbe che vagassimo in mezzo ai neuroni alla cieca e ne scegliessimo uno a caso. Sarebbe più facile girare in auto per le strade della Terra e scegliere a caso un essere umano ai margini della strada nella speranza di ritrovare un parente con cui si è perso ogni contatto da anni e anni. Sarebbe molto più facile. Il numero di esseri umani presenti sulla Terra è poco più della metà del numero dei neuroni del cervello.»
«È un’analogia sbagliata» disse la Kaliinin, rivolgendosi volutamente alla Boranova. «La nostra non è una ricerca condotta alla cieca. Stiamo cercando i pensieri di Pyotr Shapirov. Quando li capteremo, basterà che ci muoviamo nella direzione in cui i pensieri diventano più forti.»
«Se sarà possibile.» Morrison scosse la testa. «Se l’unica marcia di cui disponete vi porterà nella direzione in cui i pensieri divèntano più deboli, cosa farete?»
«Appunto» disse Konev. «Io avevo tracciato una rotta che ci avrebbe portato direttamente a un nodo importante della particolare rete neuronica collegata al pensiero astratto... stando alle ricerche di Albert. Il flusso sanguigno ci avrebbe portati a destinazione e la nave lo avrebbe seguito senza problemi anche nei punti più tortuosi del percorso. Adesso invece...» Alzò le braccia e le agitò, chiamando in causa invano l’Universo.
«Tuttavia» disse la Boranova, in tono teso «mi sembra che non abbiamo scelta. Dobbiamo seguire il suggerimento di Sophia. Se sarà un tentativo infruttuoso, dovremo cercare di uscire dal corpo e magari ritentare un altro giorno.»
«Aspetta, Natalya» disse Morrison. «Forse c’è un altro sistema per raddrizzarela situazione. È possibile uscire dalla nave ed entrare nel flusso sanguigno?»
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Morrison non si aspettava una risposta affermativa. La nave, che prima gli sembrava uno splendido esempio di alta tecnologia, adesso gli appariva come una chiatta in disarmo da cui non era lecito attendersi nulla.
Da ogni punto di vista pratico, gli sembrava che l’idea migliore fosse quella suggerita dalla Kaliinin... cercare di raggiungere una cellula cerebrale e provare. Ma se avessero fallito, avrebbero dovuto abbandonare il corpo e ritentare, come aveva detto la Boranova, e Morrison sentiva che non sarebbe stato fisicamente capace di ripetere quell’avventura. Avrebbe fatto di tutto per evitarlo.
«È possibile uscire dalla nave, Natalya?» ripeté. mentre lei lo fissava stordita. (Gli altri erano frastornati quanto la Boranova.) «Allora, non capisci? Se voleste raccogliere dei campioni? Avete una draga, una pala, una rete? O qualcuno può uscire in immersione con un autorespiratore?»
Finalmente la Boranova superò la propria sorpresa a quella domanda, e inarcò le folte sopracciglia in un’espressione di meraviglia. «Sai, l’abbiamo proprio. Una tuta subacquea per ricognizioni esterne, dicono i piani. Dovrebbe essere sotto la fila posteriore di sedili. Proprio qui sotto.»
Sganciò la cintura, galleggiando lentamente, poi riuscì a mettersi in posizione orizzontale, mentre la sua uniforme di cotone leggero svolazzava.
«È qui, Albert» annunciò. «Immagino che sia stata controllata... sì, non dovrebbero esserci difetti gravi. Niente perdite, niente grosse imperfezioni. Non mi risulta che sia stata collaudata in condizioni di impiego reale.»
«Sarebbe stato impossibile» osservò Morrison. «Se non sbaglio, è la prima volta che la nave, o qualsiasi altra cosa, si trova in un flusso sanguigno.»
«Devono averla controllata immergendola in acqua calda della giusta viscosità... Mi rincresce di non essermene occupata di persona, ma l’idea che qualcuno potesse uscire dalla nave non ha mai sfiorato nessuno. Mi ero perfino dimenticata che la tuta esistesse.»
«Almeno, sai se la tuta ha un respiratore?»
«Certo che lo ha» rispose la Boranova con una certa asprezza. «E ha un alimentatore che le consente di avere una luce indipendente. Non devi considerarci dei perfetti incompetenti... Anche se hai qualche motivo per crederlo dopo quello che abbiamo... o almeno, che io ho fatto» aggiunse, stringendosi nelle spalle, mesta.
«La tuta è dotata di pinne?»
«Sì, sia per le mani sia per i piedi. È fatta apposta per gli spostamenti in un fluido.»
«Allora, forse una soluzione c’è» disse Morrison.
«Cosa hai in mente, Albert?» domandò la Kaliinin.
Morrison spiegò: «Possiamo miniaturizzarci ancora un po’, in modo che la nave possa girare senza scalfire le pareti del capillare. Poi qualcuno si infilerà la tuta, uscirà dalla nave, sempre che abbiate un comparto stagno, e spingendosi con le pinne la farà girare. Quando la nave sarà girata nella direzione corretta, la persona rientrerà a bordo. Accenderemo i motori e risaliremo la debole corrente contraria del capillare fino all’arteriola, tornando sulla nostra rotta iniziale.»
La Boranova commentò pensierosa: «Un rimedio disperato, del resto anche la nostra situazione è disperata. Hai mai fatto immersioni subacquee, Albert?»
«Qualcuna. Ecco perché ci ho pensato.»
«Noi, no... ecco perché non ci abbiamo pensato. In tal caso, Albert, sgancia la cintura e mettiti la tuta.»
«Io?» gracchiò Morrison.
«Certo. L’idea è stata tua, e sei tu quello che ha esperienza in fatto di immersioni.»
«Non nel flusso sanguigno.»
«Nessuno ha esperienza di immersioni nel flusso sanguigno, ma noialtri non ci siamo mai immersi nemmeno nell’acqua.»
«No» protestò rabbioso Morrison. «Questa storia è un pallino vostro... di voi quattro. Io ho trovato il sistema di tirarvi fuori dal globulo bianco, e ho appena trovato il sistema di farvi uscire forse da questo pasticcio. La mia parte finisce qui. Pensateci voi al resto. Ci pensi uno di voi.»
«Albert» disse la Boranova «siamo tutti sulla stessa barca. Qui non siamo né sovietici né americani... siamo esseri umani che cercano di sopravvivere e di realizzare una grande impresa. I compiti di ognuno dipendono dalle capacità di ognuno, nient’altro. Se uno sa fare una cosa meglio degli altri, tocca a lui farla.»
Morrison incrociò lo sguardo della Kaliinin. Gli stava sorridendo, e in quel sorriso appena accennato Morrison ebbe l’impressione di cogliere dell’ammirazione.
Brontolando tra sé, perché era una follia lasciarsi influenzare in modo così infantile dalla voglia di ammirazione, Morrison capì che avrebbe accettato l’assurdità del suo stesso suggerimento.
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La Boranova prese la tuta. Era trasparente come la nave e, a parte l’estremità superiore, era spiegazzata e piatta. Per Morrison assomigliava in maniera sgradevole a un disegno gigante di un essere umano fatto da un bambino.
La toccò e disse: «Di cosa è fatta? Di cellophane?»
La Boranova rispose: «No, Albert. È sottile ma molto robusta e inerte. Non si attaccherà nessuna sostanza estranea, e dovrebbe avere una tenuta perfetta.»
«Dovrebbe avere?» ripeté sardonico Morrison.
Dezhnev intervenne. «Ha una tenuta perfetta. Mi sembra di ricordare che un po’ di tempo fa l’hanno collaudata.»
«Ti sembra di ricordare.»
«Mi rammarico di non averla controllata di persona nell’ispezionare la nave, ma anch’io mi ero dimenticato che esistesse. Nessuno pensava...»
Morrison sbottò caustico: «Tuo padre sicuramente ti avrà detto che il rammarico è una punizione troppo lieve per l’incompetenza, Arkady.»
Dezhnev ribatté stridulo: «Non sono un incompetente, Albert.»
La Boranova li interruppe. «Litigheremo quando tutto sarà finito. Albert, non c’è motivo di preoccuparsi. Anche se ci fosse una falla microscopica, le molecole d’acqua del plasma esterno sono molto più grandi di quel che sarebbero in condizioni normali rispetto alla tuta. Una falla in una tuta normale potrebbe lasciar filtrare delle molecole d’acqua normali, ma la stessa falla in una tuta miniaturizzata non lascerà filtrare quelle molecole, perché rispetto a prima saranno molecole giganti.»
«Il ragionamento fila» borbottò Morrison, bisognoso di conforto.
«Certo» disse la Boranova. «Inseriremo una bombola d’ossigeno qui... piccola, d’accordo, ma non rimarrai fuori a lungo... un serbatoio per l’assorbimento dell’anidride carbonica qui, e una batteria per la luce. Quindi, come vedi, sarai attrezzato.»
Konev si voltò e guardò Morrison spassionatamente. «Comunque, è meglio che ti sbrighi. Fa caldo là fuori... ci sono trentasette gradi... e non credo che la tuta abbia un impianto di raffreddamento.»
«Niente impianto di raffreddamento?» Morrison fissò la Boranova con aria interrogativa.
La Boranova si strinse nelle spalle. «Non è facile raffreddare un oggetto in un ambiente isotermico. Tutto il corpo di Shapirov, che è grande come una montagna per noi, ha una temperatura costante di trentasette gradi. Per raffreddare la nave bisogna ricorrere ai motori a microfusione. Era impossibile dotare la tuta di un impianto equivalente... del resto, come ti ripeto, non rimarrai fuori a lungo... Ma faresti meglio a levarti gli indumenti che hai addosso, Albert.»
Morrison esitò. «Non sono pesanti... è solo uno strato sottile di cotone.»
«Se suderai» insisté la Boranova «quando tornerai a bordo dovrai tenere addosso dei panni bagnati. Non abbiamo indumenti di riserva.»
«Be’, se insisti» disse Morrison, pudico. Poi si tolse le babbucce e cominciò a spogliarsi, operazione che si rivelò estremamente complicata dato il suo stato di assenza di peso quasi totale.
La Boranova, notando che era in difficoltà, disse: «Per favore, Arkady, aiuta Albert a indossare la tuta.»
Dezhnev superò a fatica lo schienale del proprio sedile e raggiunse Morrison, che galleggiava a mezz’aria contro lo scafo della nave in una posizione tutt’altro che comoda. Aiutò Morrison a infilare le gambe nella tuta, una alla volta, anche se i due unendo i loro sforzi combinarono più o meno quello che era riuscito a combinare Morrison da solo. (Tutto quello che ci circonda è fatto per funzionare in presenza di gravità, rifletté Morrison.)
Mentre si muovevano impacciati, Dezhnev non smise un istante di parlare. «Il materiale di questa tuta è lo stesso della nave» disse. «Segretissimo, naturalmente... ma, per quel che so io, avrete un materiale simile negli Stati Uniti... segreto anche quello, senza dubbio.» E concluse la frase con una sfumatura interrogativa.
«Non saprei» borbottò Morrison, infilando la gamba nuda in una guaina di plastica sottile. Non aderì alla pelle, scivolò verso l’alto, eppure gli diede l’impressione di essere fredda e bagnata, senza essere in realtà né l’una né l’altra cosa. Morrison non aveva mai incontrato una superficie del genere, e non sapeva come interpretare la sensazione.
Dezhnev spiegò: «Quando le giunture si chiudono, diventa praticamente un unico pezzo di materiale.»
«E come si fa a riaprirle?»
«Non appena sarai tornato a bordo si neutralizzano le cariche elettrostatiche. Adesso, gran parte dell’esterno della tuta ha una lieve carica negativa, bilanciata da una positiva sulla superficie interna. Qualsiasi parte della tuta si attaccherà a qualsiasi area a carica positiva dello scafo, ma non così forte da impedirti di staccarti.»
Morrison chiese: «E il retro della nave, dove ci sono i motori?»
«Non preoccuparti per i motori. Funzionano al minimo per fornirci l’illuminazione e il condizionamento, e le particelle che emettono ti attraverseranno senza accorgersi che ci sei. La bombola d’ossigeno e l’assorbitore sono automatici. Non produrrai nessuna bollicina. Devi solo respirare normalmente.»
«Grazie al cielo, qualche dono della tecnologia.»
Dezhnev disse accigliato: «È risaputo che le tute spaziali sovietiche sono le migliori del mondo e che quelle giapponesi sono al secondo posto.»
«Ma questa non è una tuta spaziale.»
«È copiata da una tuta spaziale sotto molti aspetti.» Dezhnev si accinse a calare il casco.
«Aspetta» disse Morrison. «Non c’è una radio?»
Dezhnev si fermò. «Perché dovresti aver bisogno di una radio?»
«Per comunicare.»
«Ci vedrai, e noi ti vedremo. È tutto trasparente. Puoi farci dei segnali.»
Morrison inspirò a fondo. «In parole povere, niente radio.»
La Boranova disse: «Mi spiace Albert. È solo una tuta molto semplice per impieghi di poco conto.»
Morrison disse acido: «Comunque, se si fa una cosa, tanto vale farla bene.»
«Non per i burocrati» spiegò Dezhnev. «Per loro, se si fa una cosa, l’importante è che sia economica.»
L’irritazione aveva un lato positivo, rifletté Morrison, tendeva a cancellare la paura. Chiese: «Com’è che intendete farmi uscire dalla nave?»
Dezhnev rispose: «Lì dove sei, lo scafo è doppio.»
Morrison si girò di scatto a guardare e, naturalmente, decollò e cominciò a dimenarsi. Sembrava proprio che non riuscisse a ricordare per qualche secondo consecutivo di essere essenzialmente senza peso. Dezhnev lo aiutò a stabilizzarsi, e non fu facile nemmeno per lui. (“Scommetto che sembriamo una coppia di pagliacci” pensò Morrison.)
Finalmente, Morrison si ritrovò a fissare la parte di scafo indicatagli. Ora che la osservava con maggiore attenzione, gli pareva un po’ meno trasparente degli altri settori, ma forse dipendeva solo dalla sua immaginazione.
Dezhnev disse: «Stai fermo, Albert. Mio padre diceva: “Solo quando ha imparato a star fermo un bambino può essere considerato una creatura intelligente”.»
«Tuo padre non teneva conto delle condizioni di gravità zero.»
«Il comparto stagno» spiegò Dezhnev, ignorando il commento di Morrison «è copiato da quelli che abbiamo nelle nostre strutture lunari di superficie. Lo strato del comparto si aprirà, poi ti avvolgerà e si sigillerà. Gran parte dell’aria tra gli strati verrà aspirata... sai, non possiamo permetterci sprechi d’aria... il che ti provocherà una strana sensazione, senza dubbio. Poi lo strato esterno si aprirà e tu sarai fuori. Semplice! Ora, lascia che ti chiuda il casco.»
«Aspetta! Com’è che rientro?»
«Stesso sistema. Al contrario.»
Adesso Morrison era completamente ingabbiato, e una sensazione netta di claustrofobia complicava ancora di più la sua situazione, mentre il gelo della paura cominciava a spazzare via l’effetto benefico della collera.
Dezhnev lo stava spingendo contro lo scafo e Konev, giratosi sul sedile, lo stava aiutando. Le due donne sedevano calme ai loro posti e osservavano la scena assorte.
Morrison sapeva che non stavano fissando il suo corpo. Magari lo avessero fatto... sarebbe stata un’azione relativamente innocua. No, sicuramente stavamo osservando per vedere se il comparto stagno avrebbe funzionato, se la sua tuta avrebbe funzionato, se lui sarebbe sopravvissuto per più di qualche minuto una volta all’esterno.
Voleva gridare e annullare tutto, ma l’impulso rimase solo un impulso.
Sentì alle spalle un movimento viscido, poi lo scatto di una lamina trasparente di fronte a sé. Era come la cintura del sedile che gli si avvolgeva attorno alla vita e al petto, solo che adesso era fasciato dalla testa ai piedi.
La lamina aderì al suo corpo sempre più forte, via via che l’aria del comparto veniva risucchiata. Il materiale della tuta sembrò tendersi mentre l’aria interna premeva contro il vuoto che la stava circondando.
Poi lo strato esterno dello scafo si aprì, e Morrison avvertì una lieve spinta che lo fece ruzzolare in avanti nel plasma sanguigno del capillare.
Era fuori, ed era solo.