Capitolo
settimo.
La nave
Nessun viaggio è pericoloso per chi saluta dalla riva.
DEZHNEV SENIOR
27
Morrison si sentì intontito durante tutto il pranzo eppure in un certo senso non era più sotto pressione. Non c’erano voci decise che lo incalzavano con spiegazioni e frasi persuasive, né sorrisi accattivanti, né teste che lo attorniavano.
Naturalmente, misero bene in chiaro in modo spiccio e professionale che non avrebbe più lasciato la Grotta fino al completamento dell’impresa e che dalla Grotta, ovviamente, era impossibile uscire.
E di tanto in tanto un pensiero si agitava nella mente di Morrison...
Sì, aveva proprio accettato di essere miniaturizzato!
Lo portarono in una camera tutta sua nella Grotta dove poteva guardare videolibri con un visore fornitogli appositamente... perfino videolibri in inglese, nel caso desiderasse passare le ore successive calato in un’atmosfera interiore familiare. E Morrison sedette con un videolibro che scorreva nel visore fissato agli occhi, ma chissà come la sua mente non captava la lettura.
Aveva proprio accettato di essere miniaturizzato!
Gli avevano detto che poteva fare quel che voleva finché non fossero venuti a chiamarlo. Poteva fare quel che voleva, certo... purché non volesse andarsene. C’erano guardie ovunque. Il senso di terrore, Morrison se ne rendeva conto, era diminuito parecchio. L’intontimento serviva proprio a questo. E poi, più si ripete una frase mentalmente, più questa perde significato. Aveva proprio accettato di essere miniaturizzato. Più quelle parole gli echeggiavano nella mente come i rintocchi di una campana, continue e insistenti, più il terrore che esprimevano sbiadiva... lasciando un vuoto in cui non c’era spazio per alcuna sensazione.
Morrison percepì in modo vago che la porta della stanza si era aperta. Qualcuno era venuto a prenderlo, concluse assente. Tolse il visore, alzò gli occhi con un gesto fiacco e, per un brevissimo istante, avvertì una debole scintilla di interesse.
Era Sophia Kaliinin, che appariva incantevole anche ai suoi sensi appannati. Gli disse in inglese: «Buon pomeriggio, signore.»
Morrison fece una smorfia. Preferiva che gli si rivolgessero in russo piuttosto che in un inglese dall’accento così alterato.
Accigliato, disse in russo: «Per favore, Sophia, parla in russo.»
Forse il suo russo la urtava, come a lui dava fastidio il suo inglese, ma non gli importava. Era lì a causa loro, e se i suoi difetti li contrariavano, anche questo dipendeva da loro.
Sophia si strinse nelle spalle e rispose in russo: «Certo... se ti fa piacere.»
Poi lo fissò per un po’ pensosa. Morrison tenne testa facilmente a quello sguardo perché adesso quel che faceva non gli importava granché, e per lui guardare Sophia o qualcos’altro o non guardare nulla equivaleva in pratica alla stessa cosa. L’impressione momentanea di bellezza avuta all’ingresso della donna era scomparsa.
Infine lei disse: «Ho saputo che hai accettato di accompagnarci nella nostra impresa.»
«Sì, ho accettato.»
«Sei stato buono. Ti siamo tutti riconoscenti. In tutta onestà, non pensavo che l’avresti fatto, dato che sei un americano. Mi scuso.»
Con una sfumatura di rammarico e di rabbia, Morrison precisò: «La decisione di aiutarvi non è stata spontanea. Sono stato convinto... da un esperto.»
«Da Natalya Boranova?»
Morrison annuì.
«È molto brava a convincere» osservò la Kaliinin. «Non molto gentile, di solito, ma molto brava. Ha dovuto convincere anche me.»
«Perché?»
«Io avevo altri motivi... che per me erano importanti.»
«Davvero? Quali?»
«...Ma senza importanza per te.»
Ci fu una breve pausa imbarazzante.
«Vieni... mi hanno incaricato di mostrarti la nave» spiegò la Kaliinin.
«La nave? Da quanto avete organizzato tutto? Avete avuto il tempo di costruire una nave?»
«Appositamente per sondare il cervello di Shapirov dall’interno? Certo che no. Era destinata ad altri scopi più semplici, ma è l’unica cosa che abbiamo e che possiamo usare... Vieni, Albert. Natalya pensa che sarà salutare per te conoscere la nave, vederla, toccarla. Forse la concretezza della tecnologia ti darà una visione positiva dell’impresa.»
Morrison esitò. «Perché devo vederla subito? Non posso avere un po’ di tempo per abituarmi all’idea della mia miniaturizzazione?»
«Sarebbe sciocco, Albert. Rimanendo seduto nella tua stanza a rimuginare, non faresti che alimentare la tua... incertezza. E poi, non abbiamo tempo. I processi degenerativi di Shapirov continuano, i suoi pensieri diminuiscono di minuto in minuto, e noi non possiamo permettere che la situazione si protragga a lungo, ti pare? La nave inizia il viaggio domani mattina.»
«Domani mattina» mormorò Morrison, la gola secca, guardando l’orologio come uno stupido.
«Non sono molte ore, ma ci penseremo noi a seguire per te lo scorrere del tempo, quindi non c’è bisogno che guardi l’orologio. Domani mattina la nave entrerà in un corpo umano, e tu sarai a bordo di quella nave.»
Poi, all’improvviso, Sophia Kaliinin lo schiaffeggiò forte su una guancia. «Stavi cominciando a sbarrare gli occhi. Avevi intenzione di svenire?»
Morrison si massaggiò la faccia, con una smorfia di dolore. «Non avevo nessuna intenzione» borbottò. «Ma avrei potuto perdere i sensi anche senza volerlo. Non potevi darmi la notizia con un po’ più di delicatezza?»
«Ti ho proprio colto di sorpresa? Anche se sai già che hai accettato di essere miniaturizzato e che è evidente che non abbiamo tempo da perdere?» La Kaliinin gli rivolse un gesto perentorio. «Ora vieni con me.»
E Morrison, massaggiandosi ancora la guancia e fremendo per la rabbia e l’umiliazione, la seguì.