12

 

Morrison si sentiva disfatto. Aveva trascorso gran parte del lunedì dormendo, sperando di scrollarsi di dosso i postumi peggiori del cambio di fuso orario. Aveva mangiato volentieri il pasto che gli avevano portato verso sera, e aveva fatto ancor più volentieri una doccia. Gli avevano dato degli indumenti puliti che non gli stavano proprio a pennello... ma questo che importanza poteva avere? E la notte di lunedì aveva dormito, letto... e meditato.

Più ci pensava più era convinto che Natalya Boranova avesse ragione: lui si trovava lì solo perché gli Stati Uniti erano contenti così. Rodano lo aveva sollecitato ad andare, lo aveva minacciato velatamente di creargli ulteriori guai professionali (ma la sua situazione professionale poteva davvero peggiorare ancora?) se non fosse andato. Dunque, perché avrebbero dovuto opporsi alla sua cattura? Avrebbero potuto fare obiezioni per una questione di principio o nel timore di creare un pericoloso precedente, ma stando ai fatti la loro smania di vederlo partire aveva confinato certe considerazioni in secondo piano.

A che sarebbe servito, allora, esigere di essere portato al consolato americano più vicino o minacciare a vanvera una rappresaglia americana?

Per dire la verità, ora che l’azione era stata compiuta con la complicità americana (questo era garantito) per gli Stati Uniti sarebbe stato impossibile intervenire apertamente in sua difesa o esprimere qualsiasi senso di indignazione. Sarebbero sorti inevitabilmente degli interrogativi circa il modo in cui i sovietici fossero riusciti a farlo sparire, e l’unica risposta sarebbe stata: grazie alla stupidità o a la connivenza degli americani. E gli Stati Uniti, senza dubbio, non volevano che il mondo giungesse a conclusioni del genere.

Naturalmente, adesso Morrison capiva perché fosse successo. Era come aveva spiegato Rodano. Il governo americano voleva informazioni, e lui si trovava in una posizione ideale per procurargliele.

Ideale? Davvero? I sovietici non sarebbero stati tanto sciocchi da consentirgli di ottenere informazioni riservate, e se fosse riuscito a ottenere (o non avesse potuto fare a meno di ottenere) informazioni a loro giudizio eccessive, be’, non sarebbero stati tanto sciocchi da lasciarlo andar via.

Più ci pensava, più aveva la sensazione- che, vivo o morto, non avrebbe più rivisto gli Stati Uniti e che la comunità spionistica americana avrebbe scrollato le spalle e avrebbe catalogato la faccenda come un fiasco inevitabile... nessun guadagno però nemmeno una grave perdita.

Morrison valutò se stesso...

Albert Jonas Morrison, laureato assistente universitario di neurofisica, ideatore di una teoria non accettata e praticamente ignorata, marito fallito, padre fallito, scienziato fallito, adesso pedina fallita. Non una grave perdita.

Nel cuore della notte, in una stanza d’albergo di una città di cui non conosceva neppure la posizione, in una nazione che da oltre un secolo costituiva il nemico naturale della sua malgrado lo spirito di collaborazione riluttante e venata di sospetto che regnava da qualche decennio, Morrison si ritrovò a piangere autocommiserandosi, sentendosi indifeso come un bambino... e umiliato perché nessuno pensava valesse la pena di battersi per lui o almeno di perder tempo a rimpiangerlo.

Eppure (e a questo punto una debole scintilla di orgoglio riuscì ad affiorare) i sovietici l’avevano voluto. Si erano dati da fare parecchio. Quando la persuasione non aveva sortito alcun effetto, non avevano esitato a usare la forza. Non potevano avere la certezza che gli Stati Uniti si sarebbero girati con sollecitudine dall’altra parte fingendo di non vedere. Avevano rischiato un incidente internazionale, per quanto improbabile, pur di averlo.

E adesso che era in mano loro si stavano dando parecchio da fare per tenerlo al sicuro. Le finestre erano munite di inferriate; la porta non era chiusa a chiave, ma quando aveva provato ad aprirla, in precedenza, due uomini armati in uniforme appoggiati alla parete di fronte lo avevano guardato e gli avevano chiesto se gli occorresse qualcosa. Non gli piaceva trovarsi in prigione, però in un certo senso era una dimostrazione di quanto fosse prezioso... almeno lì.

Quanto sarebbe durata la cosa? Anche se forse i sovietici erano convinti dell’esattezza delle sue teorie, Morrison si rendeva benissimo conto che tutte le prove che aveva raccolto erano indiziarie e terribilmente indirette... e che nessuno era riuscito a confermare le sue conclusioni principali. Cosa sarebbe successo se anche i sovietici avessero constatato di non riuscire a confermarle o se, a un esame più attento, avessero scoperto che le sue idee erano troppo vacue, troppo inconsistenti, troppo campate per aria per i loro gusti?

La Boranova aveva detto che Shapirov aveva una stima considerevole del lavoro di Morrison, ma era risaputo che Shapirov era un tipo strambo che cambiava idea da un giorno all’altro.

E se Shapirov si fosse stretto nelle spalle rivolgendo altrove la propria attenzione, cosa avrebbero fatto i sovietici? Se il loro trofeo americano si fosse rivelato inutile e inutilizzabile, l’avrebbero restituito sprezzanti agli Stati Uniti (un’ulteriore umiliazione, volendo) o avrebbero nascosto la follia della loro azione di cattura imprigionandolo a tempo indeterminato... o peggio?

Sicuramente era stato un funzionario sovietico, una persona ben precisa, a decidere di far rapire Morrison rischiando un incidente... Se la faccenda avesse preso una brutta piega, allora, cosa avrebbe fatto quel funzionario per salvare la pelle... senza dubbio a spese di Morrison?

All’alba di martedì, quando si trovava in Unione Sovietica da un giorno intero, Morrison era ormai convinto che qualsiasi sviluppo futuro, qualsiasi alternativa possibile, avrebbe avuto esiti disastrosi per lui. Assisté al sorgere del giorno, m-a il suo animo era immerso nella notte più buia.

 

 

13

 

Bussarono in modo brusco alla porta alle 8. Morrison la scostò leggermente, e il soldato all’esterno l’aprì bene con una spinta, quasi a dimostrare che era lui a controllare la porta.

Il soldato disse alzando la voce più del necessario: «La signora Boranova sarà qui tra mezz’ora per portarvi a colazione. Siate pronto.»

Mentre si vestiva in fretta e adoperava un rasoio elettrico di tipo piuttosto antiquato rispetto agli standard americani, Morrison si chiese come mai fosse rimasto leggermente meravigliato nel sentire che il soldato parlava della signora Boranova. L’arcaico “compagno” era un termine in disuso da un pezzo.

Si sentì anche irritato e sciocco, perché, che senso aveva soffermarsi su minuzie del genere in una situazione problematica come la sua? Del resto, era un comportamento tipico della gente, lo sapeva.

La Boranova arrivò con dieci minuti di ritardo. Bussò più piano del soldato ed entrando disse: «Come vi sentite, dottor Morrison?»

«Mi sento rapito» rispose lui asciutto.

«A parte questo. Avete dormito abbastanza?»

«Può darsi. Non sono in grado di dirlo. Francamente, signora, non sono dell’umore più adatto per dirlo. Cosa volete da me?»

«Per il momento, solo portarvi a colazione. E vi prego di credermi, dottor Morrison... anch’io mi trovo sotto costrizione. Vi assicuro che adesso preferirei essere col mio piccolo Aleksandr. L’ho trascurato parecchio negli ultimi mesi, e nemmeno Nikolai è contento della mia assenza. Ma quando mi ha sposata sapeva che avevo una carriera, come continuo a dirgli.»

«Per quel che mi riguarda, siete libera di rimandarmi nel mio paese e trascorrere tutto il vostro tempo con Aleksandr e Nikolai.»

«Ah, magari potessi... purtroppo non è possibile. Su, andiamo a colazione. Potremmo mangiare qui, ma vi sentireste in prigione. Mangiamo nella sala da pranzo... vi sentirete meglio.»

«Davvero? Quei due soldati lì fuori ci seguiranno, no?»

«Regolamenti, dottor Morrison. Questa è una zona di massima sicurezza. Devono sorvegliarvi finché qualche responsabile non sarà convinto che sia prudente non sorvegliarvi più... ed è difficile che quei tipi si convincano. È il loro compito, non lasciarsi convincere.»

«Non ne dubito» disse Morrison, infilando la giacca che gli avevano dato, che gli stringeva sotto le ascelle.

«Comunque, non ci disturberanno, le guardie.»

«Ma se d’un tratto cercassi di fuggire, o se mi muovessi solo in una direzione non autorizzata, immagino che mi sparerebbero.»

«No, sarebbe un grave errore da parte loro. Voi siete prezioso vivo, non morto. Vi inseguirebbero, e alla fine vi prenderebbero... Del resto, vi rendete sicuramente conto che sarebbe assurdo per voi creare inutili complicazioni.»

Morrison corrugò la fronte, senza curarsi di nascondere la propria rabbia. «Quand’è che mi ridate il mio bagaglio? I miei vestiti?»

«A tempo debito. Prima bisogna mangiare.»

La sala da pranzo, che avevano raggiunto prendendo un ascensore e percorrendo un lungo corridoio deserto, non era molto grande. Conteneva una dozzina di tavoli, con sei posti ciascuno, e non era affollata.

La Boranova e Morrison si sedettero da soli, e nessuno si accomodò al loro tavolo. I due soldati si piazzarono a un tavolo accanto alla porta, e pur rimpinzandosi entrambi, non staccarono mai gli occhi da Morrison per più di un secondo.

Non c’era un menù. Servirono semplicemente del cibo, e Morrison constatò che non ci si poteva lamentare délla quantità. C’erano uova sode, patate lesse, zuppa di cavoli, caviale e spesse fette di pane nero. La roba non era divisa in porzioni individuali; venne messa al centro del tavolo perché ognuno si servisse.

“Forse” pensò Morrison “portano roba sufficiente per sei, e dal momento che a questo tavolo siamo solo in due, dovremmo limitarci a consumarne un terzo”. E dopo un po’, dovette ammettere che a stomaco pieno si sentiva leggermente più calmo. Disse: «Signora Boranova...»

«Perché non mi chiamate Natalya, dottor Morrison? Siamo molto informali, qui, e poi saremo colleghi per un lungo periodo di tempo, forse. A furia di sentire ripetere “signora” mi verrà il mal di testa. Sapete, gli amici mi chiamano addirittura Natasha. Magari, arriveremo a questo.»

Gli sorrise, ma Morrison, ostinato, non era affatto disposto a lasciarsi ingraziare. Disse: «Signora, quando mi sentirò cordiale, mi comporterò di sicuro in modo cordiale... ma trovandomi qui contro la mia volontà in veste di vittima, preferisco una certa formalità.»

La Boranova sospirò. Staccò un morso di pane e masticò il boccone con espressione cupa. Poi, deglutendo, disse: «D’accordo, come volete, ma per favore risparmiatemi i “signora”. Usate il mio titolo professionale... e non mi riferisco ad “accademica”. Troppe sillabe... Ma, vi ho interrotto.»

«Dottoressa Boranova» riprese Morrison, più gelido di prima» non mi avete detto cosa volete da me. Avete accennato alla miniaturizzazione, ma sia voi che io sappiamo che è impossibile. Secondo me, ne avete parlato soltanto per confondere le acque... per fuorviare me ed eventuali ascoltatori indiscreti. Accantoniamo questa messinscena, dunque. Qui sono giochetti inutili, no? Ditemi il vero motivo per cui sono qui. Tanto, prima o poi dovrete dirmelo, dal momento che a quanto pare vi aspettate da me un aiuto... aiuto che non potrò darvi se rimarrò all’oscuro e non saprò cosa volete.»

La Boranova scosse la testa. «È difficile convincervi, dottor Morrison. Sono stata sincera con voi fin dall’inizio. Si tratta proprio di un progetto di miniaturizzazione.»

«Non posso crederci.»

«Perché, allora, vi trovereste nella città di Malenkigrad?»

«Piccola città? Littletown? Tinyburg?» disse Morrison, provando un senso di piacere nell’udire la propria voce esprimersi in inglese. «Forse perché è una piccola città.»

«Come ho già avuto occasione di dirvi, dottor Morrison, non siete una persona seria. Comunque, i vostri dubbi non dureranno a lungo. Ci sono alcune persone che dovreste incontrare. Anzi, una dovrebbe essere qui, ormai. «La donna si guardò attorno con aria seccata. «Ma dov’è andato?»

Morrison disse: «Vedo che nessuno si avvicina a noi. Di tanto in tanto, quelli degli altri tavoli mi guardano, ma abbassano gli occhi se anch’io li guardo.»

«Sono stati avvertiti» fece distrattamente la Boranova. «Non vogliamo farvi perdere tempo per cose non pertinenti, e quasi tutti qui rappresentano un particolare irrilevante per voi. Tranne alcune persone. Ma dov’è andato?» Si alzò. «Scusatemi, dottor Morrison. Devo trovarlo. Non mi assenterò a lungo.»

«È prudente lasciarmi solo?» chiese lui sardonico.

«I soldati rimarranno, dottor Morrison. Vi prego, non costringeteli a intervenire. L’intelletto non è il loro forte, sono addestrati a eseguire gli ordini senza la dolorosa incombenza di pensare, quindi potrebbero facilmente farvi del male.

«Non preoccupatevi. Sarò prudente.»

La Boranova si avviò in fretta alla porta e uscì dopo avere scambiato qualche parola con i soldati.

Morrison la osservò allontanarsi, poi guardò la sala da pranzo imbronciato. Non avendo trovato nulla di interessante, abbassò lo sguardo sulle proprie mani intrecciate sul tavolo, infine fissò le porzioni considerevoli di cibo ancora intatto che aveva di fronte.

«Finito di mangiare, compagno?»

Morrison alzò di scatto lo sguardo. Non aveva forse stabilito che “compagno” era un termine arcaico?

Una donna lo stava osservando tenendo un pugno appoggiato al fianco con aria negligente. Era grassoccia, indossava una divisa bianca leggermente macchiata, e aveva capelli castano-rossiccio, lo stesso colore delle sopracciglia, piegate in due archi sprezzanti.

«Chi siete?» chiese Morrison corrugando la fronte.

«Il mio nome? Valeri Paleron. La mia mansione? Lavorante addetta al servizio, ma cittadina sovietica e membro del partito. Ho portato io questo cibo. Non vi siete accorto di me? Per caso, non merito la vostra considerazione?»

Morrison si schiarì la voce. «Scusate, signorina. Ho altre cose per la testa... Ma è meglio che lasciate la colazione in tavola. Deve arrivare qualcun altro, credo.»

«Ah! E la Zarina? Tornerà anche lei, immagino.»

«La Zarina?»

«Pensate che non abbiamo più Zarine in Unione Sovietica? Sbagliate, compagno. Questa Boranova, nipote di contadini con alle spalle generazioni di contadini, si considera una gran dama, questo è certo.» La donna, con le labbra, emise una specie di sibilo che sapeva di disprezzo e in parte anche di aringa.

Morrison scrollò le spalle. «Non la conosco molto bene.»

«Siete americano, vero?»

Morrison fece brusco: «Perché questa domanda?»

«Per via del modo in cui parlate il russo. Con quell’accento, cosa dovreste essere? Il figlio dello Zar Nicola il Tiranno?»

«Cos’ha che non va il mio russo?»

«Stride, come se lo aveste imparato a scuola. Un americano lo si riconosce a un chilometro di distanza... basta che dica: “Un bicchiere di vodka, per favore”. Certo, gli inglesi sono anche peggio. Quelli li si riconosce a due chilometri.»

«Bene, allora, sono un americano.»

«E andrete a casa, un giorno?»

«Lo spero proprio.»

La cameriera annuì tra sé, prese uno strofinaccio e pulì il tavolo meditabonda. «Mi piacerebbe visitare gli Stati Uniti, un giorno.»

Morrison annuì. «Perché no?»

«Mi serve un passaporto.»

«Naturale.»

«E come fa a procurarsene uno una semplice e fedele inserviente?»

«Dovete richiederlo, immagino.»

«Richiederlo? Se vado da un funzionario e dico: “Io, Valeri Paleron, voglio visitare gli Stati Uniti” lui dirà: “Perché?”.»

«E perché desiderate andarci?»

«Per vedere il paese. La gente. La ricchezza. Sono curiosa di vedere come vivono là... E non sarebbe una ragione sufficiente.»

«Dite qualcos’altro» suggerì Morrison. «Dite che volete scrivere un libro sugli Stati Uniti, che sia di lezione alla gioventù sovietica.»

«Sapete quanti libri...»

La donna si irrigidì e riprese a pulire il tavolo, di colpo indaffarata.

Morrison alzò lo sguardo. La Boranova era accanto al tavolo e aveva un’espressione dura e rabbiosa. Pronunciò un monosillabo aspro che Morrison non riconobbe ma che sicuramente era un epiteto non molto cortese.

L’inserviente arrossì un po’ e, a un gesto della Boranova, si voltò e andò via.

Morrison notò che dietro la Boranova c’era un uomo... basso, col collo tozzo, occhi socchiusi, grosse orecchie, e un corpo muscoloso. Aveva i capelli neri, insolitamente lunghi per un russo, e molto scompigliati, come se avesse il vizio di tormentarseli ripetutamente.

La Boranova non si curò di presentarlo. Chiese invece: «Quella donna stava parlando con voi?»

«Sì» rispose Morrison.

«Ha capito che siete un americano?»

«Ha detto che era evidente, per via del mio accento.»

«E ha detto che vuole visitare gli Stati Uniti?»

«Sì.»

«Cosa le avete risposto? Vi siete offerto di aiutarla ad andarci?»

«Le ho consigliato di richiedere un passaporto se le interessa andare là.»

«Nient’altro?»

«Nient’altro.»

La Boranova disse accigliata: «Non dovete darle retta. È una donna ignorante e senza istruzione... Permettetemi di presentarvi il mio amico, Arkady Vissarionovich Dezhnev. Questo è il dottor Albert Jonas Morrison, Arkady.»

Dezhnev abbozzò un goffo inchino e disse: «Ho sentito parlare di voi, dottor Morrison. L’accademico Shapirov ha parlato spesso di voi.»

Morrison replicò gelido: «Sono lusingato... Ma ditemi, dottoressa Boranova, se quella donna vi infastidisce tanto, non dovrebbe essere difficile farla sostituire o trasferire.»

Dezhnev eruppe in una risata stridula. «Impossibile, compagno americano... come vi avrà certamente chiamato...»

«Non proprio.»

«Be’, prima o poi lo avrebbe fatto se non fossimo arrivati. Quella donna, secondo me, è una del servizio segreto, fa parte del gruppo che ci tiene d’occhio.»

«Ma, perché...»

«Perché con un’operazione del genere non ci si può fidare fino in fondo di nessuno. Quando siete impegnati in progetti scientifici rivoluzionari, anche voi americani siete tenuti sotto attento controllo, non è vero?»

«Non lo so» rispose asciutto Morrison. «Mai stato impegnato in qualche progetto rivoluzionario che interessasse minimamente al mio governo... Ma stavo per domandarvi... Perché quella donna si comporta così se è un agente segreto?»

«Agisce come provocatore, ovvio. Dice cose di un certo tipo per vedere se riesce a far dire agli altri cose compromettenti.»

Morrison annuì. «Be’; è un problema vostro, non mio.»

«Come credete» disse Dezhnev. E si rivolse alla Boranova. «Natasha, gliel’hai già detto?»

«Per favore, Arkady...»

«Su, Natasha. Come diceva mio padre: “Se devi levare un dente, è una gentilezza sbagliata toglierlo lentamente”. Diciamoglielo.»

«Gli ho spiegato che stiamo lavorando alla miniaturizzazione.»

«Tutto qui?» fece Dezhnev. Si sedette, accostò la sedia a quella di Morrison e si piegò verso di lui.

Morrison, a quell’invasione del suo spazio personale, si scostò automaticamente.

Dezhnev gli si avvicinò ancora e disse: «Compagno americano, la mia amica Natasha è una romantica ed è convinta che ci aiuterete per amore della scienza. Pensa che possiamo persuadervi a fare volentieri quello che va fatto. Si sbaglia. Non vi lascerete persuadere, come non vi siete lasciato persuadere a venire qui spontaneamente.»

«Arkady, sei villano» scattò la Boranova.

«No, Natasha, sono onesto... il che a volte è la stessa cosa. Dottor Morrison... o Albert, per evitare la formalità, che io detesto...» Dezhnev rabbrividì per sottolineare la propria avversione «dal momento che non vi persuaderete e dal momento che noi non abbiamo tempo, farete quel che vorremo con la forza, proprio come siete stato portato qui con la forza.»

La Boranova intervenne. «Arkady, avevi promesso che...»

«Non m’importa. Ho riflettuto dopo aver promesso, e ho deciso che l’americano deve sapere cosa lo aspetta. Sarà più facile per noi, e lo sarà anche per lui.»

Morrison guardò i due, mentre un senso di costrizione alla gola gli rendeva difficile la respirazione. Quali che fossero le loro intenzioni nei suoi confronti, capì che non avrebbe avuto scelta.

 

 

14

 

Morrison rimase in silenzio mentre Dezhnev, imperturbabile, mangiava di gusto la colazione.

La sala si era quasi svuotata e l’inserviente, Valeri Paleron, stava portando via gli avanzi e pulendo sedie e tavoli.

Dezhnev la fissò e le rivolse un cenno di richiamo, indicandole di sgomberare la tavola.

Morrison disse: «Così non ho scelta. Non ho scelta in cosa?»

«Ah! Natasha non vi ha detto nemmeno questo?» sbottò Dezhnev.

«Mi ha detto varie volte che avrei avuto a che fare con dei problemi di miniaturizzazione, se non quello di cercare di attuare l’inattuabile... cosa in cui certamente non posso aiutarvi. Quello che mi interessa è sapere cosa dovrei fare veramente per voi.»

Dezhnev sembrava divertito. «Perché pensate che la miniaturizzazione sia impossibile?»

«Perché è impossibile.»

«E se vi dicessi che l’abbiamo realizzata?»

«Allora vi chiederei di mostrarmela!»

Dezhnev si rivolse alla Boranova, che inspirò a fondo e annuì, quindi si alzò dicendo: «Venite. Vi porteremo alla Grotta.»

Morrison si morse un labbro irritato, suscettibile anche alla minima frustrazione. «Non conosco quella parola russa che avete usato.»

La Boranova spiegò: «Abbiamo un laboratorio sotterraneo, qui. Lo chiamiamo la Grotta. È un nostro termine poetico, non usato normalmente nella conversazione. La Grotta è la sede del nostro progetto di miniaturizzazione.»

 

 

15

 

Fuori li attendeva un autogetto. Morrison batté le palpebre per abituare gli occhi alla luce del sole e osservò incuriosito il veicolo. Non era perfezionato come i modelli americani, e sembrava più che altro una slitta con dei minuscoli sedili e un complesso motore anteriore. Sarebbe stato inutilizzabile in caso di freddo o di pioggia, e Morrison si chiese se i sovietici disponessero di una versione chiusa adatta al maltempo. Forse quello era solo un veicolo estivo.

Dezhnev prese i comandi e la Boranova indicò a Morrison il sedile dietro Dezhnev, mentre lei si sedeva alla sua destra. Poi si rivolse ai soldati e disse: «Tornate all’albergo e aspettateci là. Ci assumiamo ogni responsabilità da questo momento.» Consegnò loro un modulo su cui scrisse rapidamente la propria firma, la data e, dopo aver controllato l’orologio, l’ora.

Quando arrivarono a Malenkigrad, Morrison scoprì che si trattava in effetti di una piccola città, come diceva il nome. C’erano file di case a due piani, tutte uguali e anonime. Chiaramente la città era stata costruita per quelli che lavoravano al progetto (qualunque fosse la cosa che mascheravano con quella favola della miniaturizzazione), ed era stata costruita senza spese inutili. Ogni casa aveva il proprio orto e le strade, sebbene pavimentate, avevano un che di incompleto.

Il piccolo veicolo, che si muoveva sui getti d’aria diretti contro il suolo, sollevava una minuscola nuvola di polvere che, perlopiù, rimaneva alle loro spalle mentre avanzavano senza alcun sobbalzo. Morrison si rese conto che la situazione dei pedoni che superavano era invece piuttosto disagevole... tutti infatti cercavano di mettersi al riparo all’avvicinarsi del mezzo.

Morrison ebbe modo di sperimentare direttamente il disagio dei pedoni quando incrociarono un autogetto che procedeva nella direzione opposta e si ritrovarono coperti di polvere.

La Boranova parve divertita. Arrossì e disse: «Non preoccupatevi. Presto ci aspireranno.»

«Ci aspireranno?» chiese Morrison, tossendo a sua volta.

«Sì. Non tanto per noi, dato che un po’ di polvere non ha mai ucciso nessuno... il fatto è che la Grotta deve essere, nei limiti, priva di polvere.»

«Anche i miei polmoni. Non sarebbe meglio se questi autogetti fossero chiusi?»

«Promettono di mandarci modelli più perfezionati, e forse un giorno arriveranno. Intanto... questa è una città nuova ed è costruita nella steppa, dove il clima è arido. Questo presenta dei vantaggi, e anche degli svantaggi. I coloni coltivano ortaggi, come vedete, e hanno pure qualche animale, ma per l’agricoltura su vasta scala si dovrà aspettare che la comunità sia più grande e che si costruiscano impianti d’irrigazione. Per ora, non importa. A noi importa la miniaturizzazione.»

Morrison scosse la testa. «Parlate di miniaturizzazione tanto spesso e con tale serietà che potreste quasi ingannarmi e convincermi a crederci.»

«Credeteci. Avrete la dimostrazione, organizzata da Dezhnev.»

Stando ai comandi, Dezhnev disse: «E non è stato facile. Ancora una volta ho dovuto parlare col Comitato di coordinamento centrale... possano, i pochi capelli grigi che gli rimangano, cadere tutti. Come diceva mio padre: “Le scimmie sono state inventate perché c’era bisogno di politici”. Com’è possibile starsene seduti a duemila chilometri di distanza e pretendere di decidere...»

L’autogetto procedette regolare verso il punto in cui terminava piuttosto bruscamente la cittadina, in direzione del massiccio roccioso ampio e basso che si stagliava d’un tratto di fronte a loro.

«La Grotta si trova là dentro» spiegò la Boranova. «Abbiamo tutto lo spazio che vogliamo, non dobbiamo piegarci ai capricci del tempo, senza contare che è un posto impenetrabile per la sorveglianza aerea e addirittura per i satelliti spia.»

«I satelliti spia sono illegali» obiettò indignato Morrison.

«È illegale soltanto chiamarli satelliti spia» ribatté Dezhnev.

L’autogetto si inclinò compiendo una curva, quindi si posò al suolo nell’ombra di una fenditura che si apriva nel massiccio roccioso.

«Giù tutti» disse Dezhnev.

Avanzò, seguito dagli altri due, e nel fianco dell’altura si aprì una porta. Morrison non capì come fosse avvenuto. Non sembrava una porta; sembrava piuttosto una parte stessa della parete rocciosa. Si aprì come si era aperta la caverna dei Quaranta Ladroni pronunciando le parole: «Apriti, Sesamo.»

Dezhnev si scostò e fece cenno a Morrison e alla Boranova di entrare. Morrison passò dalla brillantezza mattutina del sole alla luce fioca di una stanza che richiese da parte dei suoi occhi una trentina di secondi di adattamento. Non era un covo di ladroni, bensì una struttura elaborata minuziosamente.

Morrison ebbe la sensazione di essersi trasferito dalla Terra alla Luna. Non era mai stato sulla Luna, naturalmente, però conosceva, come in pratica lo conoscevano tutti i terrestri, l’aspetto degli insediamenti sotterranei lunari. Chissà come, quell’ambiente aveva la stessa aria aliena... con la sola ovvia differenza che lì la gravità aveva valori normali.