Capitolo
nono.
L’arteria
Se la corrente ti sta portando dove vuoi andare, non discutere.
DEZHNEV SENIOR
36
Gli occhi di Morrison rimasero fissi per lo più sulla nicchia di fronte, sul computer, e sul software che aveva inserito. Il software... l’unico oggetto materiale del suo passato.
Il passato? Non erano trascorse nemmeno cento ore da quando si era quasi appisolato durante una scialba relazione l’ultimo giorno del convegno e si era chiesto se esistesse un modo per. salvare la propria posizione all’università. E adesso in quelle cento ore oggettive erano trascorsi cento anni soggettivi, e lui non riusciva più a visualizzare con chiarezza l’università né l’esistenza triste e frustrante che aveva condotto in quel posto negli ultimi tempi.
Cento ore fa avrebbe dato parecchio per sottrarsi a quel ciclo snervante di sforzi inutili. Adesso avrebbe dato molto di più per rientrare in quel ciclo, per svegliarsi e scoprire che le ultime cento ore (o cento anni) non erano mai esistite.
Guardò attraverso la parete trasparente della nave, accanto al suo gomito destro, tenendo gli occhi socchiusi quasi fosse restio a vedere qualcosa. Era restio. Non voleva vedere nulla più grande del normale. Voleva sperare fino in fondo che il processo di miniaturizzazione fosse fallito, o che si fosse trattato in qualche modo di un’unica enorme illusione.
Ma un uomo entrò nel suo campo visivo... alto, più di due metri. Però, poteva essere quella la sua altezza reale.
Apparvero altre persone. Impossibile che fossero tutti così alti.
Si rannicchiò sul sedile e non guardò più. Era stato sufficiente. Sapeva che il processo di miniaturizzazione era iniziato e procedeva inesorabile.
Il silenzio all’interno della nave era opprimente, insopportabile. Morrison doveva sentire una voce, almeno la propria.
La Kaliinin, alla sua sinistra, era la persona con cui avrebbe potuto parlare più facilmente, e forse rappresentava la scelta migliore. Dato che non voleva l’allegria fuori. luogo di Dezhnev, né la concentrazione a senso unico della Boranova, né la serietà tenebrosa di Konev, Morrison optò per la tacita sofferenza della Kaliinin.
Disse: «Com’è che entreremo nel corpo di Shapirov, Sophia?»
Dapprima, sembrò che lei non avesse sentito. Poi mosse le labbra pallide e mormorò: «Un’iniezione.»
Un attimo dopo, quasi le costasse uno sforzo enorme, la Kaliinin evidentemente decise che doveva mostrarsi socievole e continuò: «Quando saremo abbastanza piccoli, verremo messi in un ago ipodermico e iniettati nella carotide sinistra dell’accademico Shapirov.»
«Saremo sballottati come dadi» disse Morrison sgomento.
«Niente affatto. Non sarà un’operazione semplice, ma i problemi sono stati esaminati e risolti.»
«Chi te lo dice? Questa cosa non è mai stata fatta in precedenza. Mai in una nave. Mai in un ago ipodermico. Mai penetrando in un corpo umano.»
«È vero» ammise la Kaliinin «ma problemi di questo tipo... molto più semplici, naturalmente... sono oggetto di esame da parecchio tempo, e negli ultimi giorni abbiamo avuto dei lunghi seminari su questa missione. Non penserai che gli annunci di Arkady prima dell’inizio della miniaturizzazione, quelli a proposito della carta igienica e via dicendo, fossero una novità per noi, eh? Erano tutte cose sentite e strasentite. È stato fatto per te, dal momento che non hai partecipato a nessun seminario, e anche per Arkady, dato che gli piace molto essere al centro dell’attenzione.»
«Allora, dimmi cosa succederà.»
«Ti spiegherò le cose via via che accadranno. Per ora non faremo nulla, in attesa di essere a livelli millimetrici. Occorreranno altri venti minuti. Ma non andremo sempre così adagio. Più diminuiremo, più aumenterà la velocità di miniaturizzazione... Hai avvertito qualche effetto sgradevole?»
Morrison sottrasse mentalmente il battito accelerato del cuore e l’ansimare dei polmoni e rispose: «Nessuno.» Poi, giudicandola una risposta troppo ottimistica, aggiunse: «Almeno, finora.»
«Be’, allora?» fece la Kaliinin e chiuse gli occhi, quasi a indicare che era stanca di parlare.
Non sembrava uri’idea malvagia, rifletté Morrison, e chiuse gli occhi anche lui.
Forse si era proprio addormentato, o forse si era semplicemente chiuso in uno stato protettivo di semincoscienza, escludendo la realtà, perché aveva l’impressione che non fosse trascorso un solo istante quando fu riportato in sé da una lieve scossa.
Spalancò gli occhi e si ritrovò un paio di centimetri sopra il sedile. Aveva la strana sensazione di spostarsi seguendo ogni minima corrente d’aria.
La Boranova si avvicinò al suo sedile e da dietro gli appoggiò le mani sulle spalle. Lo spinse in basso, adagio, e disse: «Albert, allaccia la cintura... Fagli vedere, Sophia. Mi spiace, Albert, avremmo dovuto spiegarti bene tutto prima di iniziare, ma avevamo poco tempo e tu eri già abbastanza nervoso. Non volevamo frastornarti del tutto sommergendoti di informazioni.»
Con sua grande sorpresa, Morrison non si era sentito frastornato. Anzi gli era piaciuta la sensazione di sedere a mezz’aria.
La Kaliinin toccò un punto del bordo del sedile tra le ginocchia e la cintura che le stringeva i fianchi guizzò via. Quella cintura non c’era quando aveva chiuso gli occhi, Morrison ne era sicuro, e adesso era scomparsa di nuovo in una cavità sulla sinistra del sedile. La Kaliinin si girò verso Morrison dicendo: «Ecco, qui a sinistra c’è l’eiettore della tua cintura.» Morrison notò che, ora che non c’era nulla a trattenerla, Sophia si era staccata leggermente dal sedile nell’accostarglisi.
Sophia premette l’eiettore, un cerchio scuro su uno sfondo chiaro, e una rete flessibile di plastica trasparente schizzò fuori con un sibilo, si avvolse attorno a Morrison, e si incuneò con una punta tripla nel lato opposto del sedile. Morrison si ritrovò bloccato, elasticamente, in una specie di merletto.
«Se vuoi liberarti, qui c’è il tasto di sganciamento, proprio tra le ginocchia.» La Kaliinin si china ulteriormente per indicargli il punto, e Morrison trovò gradevole la pressione di quel corpo femminile sul suo.
Sophia parve non accorgersene e, completato il compito, tornò a drizzarsi sul sedile e riallacciò la cintura.
Morrison si guardò attorno, alzandosi e sporgendosi nei limiti consentiti dalla cintura, e sbirciò a fatica oltre le spalle di Konev. Tutti e cinque avevano la cintura allacciata.
Disse: «Siamo talmente ridotti che pesiamo pochissimo, vero?»
«Tu adesso pesi circa venticinque milligrammi» disse la Boranova. «Quindi in pratica puoi considerarti privo di peso. Inoltre, stanno sollevando la nave.»
Morrison fissò la Kaliinin con aria accusatoria, e lei si strinse nelle spalle giustificandosi: «Ti ho detto che avrei descritto ogni fase man mano che si svolgeva, ma mi è sembrato che stessi dormendo e ho pensato bene di non disturbarti. La scossa della pinza ti ha svegliato e ti ha sbalzato dal sedile.»
«La pinza?» Morrison guardò di lato. Aveva percepito due ombre laterali, ma le pareti in teoria erano opache, così non aveva badato a quella sensazione. Ora d’un tratto ricordò che le pareti della nave erano trasparenti, e che la luce su ambedue i lati era bloccata.
La Kaliinin annuì. «Una pinza ci sta stringendo e ci tiene fermi per evitarci sballottamenti inutili. Sembra enorme, ma è piccolissima e imbottita. E ci stanno mettendo in un minuscolo contenitore di soluzione salina. Inoltre siamo trattenuti anche da un flusso d’aria risucchiato verso l’alto in un beccuccio smussato. Il getto ci spinge contro il beccuccio così, calcolando la pinza, siamo bloccati da tre parti.»
Morrison guardò ancora fuori. Gli oggetti esterni che avrebbero potuto essere visibili attraverso i settori di parete non ostruiti dalla pinza o dal beccuccio non erano comunque visibili. Morrison scorgeva solo un alternarsi di luci e ombre e si rese conto che le cose che si trovavano all’esterno erano troppo grandi perché i suoi occhi microscopici potessero distinguerle chiaramente. Se i fotoni che giungevano alla nave non fossero stati miniaturizzati anch’essi entrando nel campo, si sarebbero comportati come onde radio lunghe e lui non avrebbe visto assolutamente nulla.
Sentì che la nave all’improvviso vibrava ancora quando la liberarono dalla stretta della pinza, anche se in realtà non vide il movimento. La pinza era scomparsa istantaneamente. Era stata un’azione troppo rapida per le dimensioni di Morrison.
Poi si sentì sollevare leggermente contro la cintura che lo fasciava, e lo interpretò come un movimento verso il basso della nave. Subito dopo, seguì una lieve sensazione di ballonzolio.
Dezhnev indicò una linea orizzontale scura che saliva e scendeva adagio contro la fiancata della nave e disse soddisfatto: «Ecco la superficie dell’acqua. Mi aspettavo delle scosse peggiori. A quanto pare, qui ci sono degli ingegneri bravi quasi quanto me.»
La Boranova osservò: «A dire il vero, l’ingegneria c’entra ben poco. A stabilizzarci è la tensione superficiale. Agirà solo finché saremo sulla superficie di un fluido. Quando saremo nel corpo di Shapirov il suo effetto cesserà.»
«Ma questo ondeggiamento, Natasha? Questo movimento su e giù. Influisce?»
La Boranova stava studiando i suoi strumenti, in particolare un piccolo schermo su cui appariva in continuazione una linea orizzontale senza spostarsi dal centro. Morrison, drizzandosi e contorcendosi dolorosamente, riuscì a scorgerla appena.
La Boranova disse: «Saldo come la tua mano quando sei sobrio, Arkady.»
«Niente di meglio, eh?» La risata di Dezhnev echeggiò.
Sembrava risollevato, pensò inquieto Morrison e si chiese a cosa si fosse riferito Dezhnev quando aveva accennato a un’eventuale influenza.
«Adesso che succede?» domandò.
Konev parlò per la prima volta dall’inizio della miniaturizzazione, a quanto ricordava Morrison. «Bisogna spiegarti proprio tutto?»
Morrison replicò con vigore: «Sì! A te hanno spiegato tutto. Perché non dovrebbero spiegarlo anche a me?»
La Boranova intervenne pacata: «Albert ha perfettamente ragione, Yuri. Per favore, controllati e sii ragionevole. Tra poco avrai bisogno del suo aiuto, e io spero che non sia così sgarbato da risponderti in malo modo.»
Le spalle di Konev si contrassero, ma dalla sua bocca non uscì una parola.
La Boranova disse: «Il cilindro di una siringa ipodermica ci raccoglierà, Albert. L’operazione è telecomandata.»
E, come se il cilindro aspettasse quelle parole, un’ombra li avvolse alle spalle, inghiottendoli quasi subito. Solo di fronte c’era ancora un cerchio di luce, ma scomparve un attimo dopo.
La Boranova spiegò con calma: «L’ago è stato fissato. Ora dovremo aspettare un po’.»
Nell’interno della nave, che era diventato piuttosto buio, d’un tratto si diffuse una luce bianca tenue e riposante, e la Boranova disse: «D’ora in poi non avremo più luce dall’esterno fino al termine del viaggio. Dovremo contare sulla nostra illuminazione interna, Albert.»
Perplesso, Morrison si guardò attorno in cerca della sorgente luminosa. Sembrava nelle pareti stesse.
La Kaliinin, interpretando il suo sguardo, disse: «Elettroluminescenza.»
«Ma la fonte energetica?»
«Abbiamo tre motori a microfusione» rispose Sophia orgogliosa. «I migliori del mondo, nel loro genere... Del mondo.»
Morrison lasciò perdere. Provava l’impulso di parlare dei motori a microfusione americani degli ultimi vascelli spaziali, ma a che sarebbe servito? Un giorno il mondo si sarebbe liberato delle sue manie nazionalistiche, però quel giorno non era ancora arrivato. E purché tali manie non si traducessero in violenza o minacce di violenza la situazione era tollerabile.
Dezhnev, appoggiandosi allo schienale con le braccia incrociate dietro al collo e rivolgendosi apparentemente alla parete illuminata di fronte a sé, disse: «Un giorno ci basterà espandere una siringa ipodermica, sistemarla attorno a una nave di dimensioni normali, e miniaturizzare il tutto. Così non ci saranno queste manovre microscopiche.»
Morrison chiese: «Ma... sapete fare anche il processo inverso? Come lo chiamate? Massimizzazione? Gigantizzazione?»
«Non lo chiamiamo in nessun modo» intervenne brusco Konev «perché è impossibile.»
«Forse un giorno però...»
«No» ribadì Konev. «Mai. È impossibile fisicamente. Per miniaturizzare occorre parecchia energia, per massimizzare, una quantità di energia più che infinita.»
«Anche collegandosi alla relatività?»
«Anche così.»
Dezhnev fece un suono poco elegante con le labbra. «Questo per il tuo fisicamente impossibile. Un giorno vedrai.»
Konev si chiuse in un silenzio indignato.
Morrison domandò: «Cosa stiamo aspettando?»
«Che finiscano di preparare Shapirov, poi che avvicinino l’ago e lo inseriscano nella carotide» rispose la Boranova.
Mentre parlava, la nave fu scossa in avanti.
«Ci siamo?» chiese Morrison.
«Non ancora. Stavano solo togliendo le bolle d’aria. Non preoccuparti, Albert. Lo sapremo.»
«Come?»
«Perbacco, ce lo diranno. Arkady è in contatto con loro. Non è difficile. I fotoni delle onde radio si miniaturizzano passando da là a qui e si deminiaturizzano andando nella direzione opposta. L’energia assorbita è pochissima... addirittura minore di quella dell’illuminazione.
Dezhnev annunciò: «È ora di portarci alla base dell’ago.»
«Procedi, allora» fece la Boranova. «Tanto vale collaudare la forza motrice in miniaturizzazione.»
Ci fu un brontolio iniziale che crebbe di intensità e poi si abbassò stabilizzandosi in un ronzio sommesso. Morrison girò la testa all’indietro il più possibile per guardare, premendo contro la cintura.
L’acqua alle loro spalle ribolliva, come se ad agitarla ci fossero delle ruote a pale. In assenza di punti di riferimento esterni, era impossibile stabilire a che velocità si stessero muovendo, ma a Morrison sembrò che stessero avanzando lentamente.
«Stiamo andando forte?» chiese.
«No, ma non è necessario» rispose la Boranova. «Inutile sprecare energia per cercare di andare più rapidi. Dopotutto, stiamo vincendo la resistenza di molecole di dimensioni normali, il che significa un’alta viscosità per noi.»
«Ma coi motori a microfusione...»
«Abbiamo molte esigenze energetiche per questioni diverse dalla propulsione.»
«Mi chiedevo quanto impiegheremo per raggiungere i punti chiave del cervello.»
«È quel che mi chiedo anch’io, credimi» disse la Boranova arcigna. «Comunque avremo una corrente arteriosa che ci porterà il più vicino possibile.»
Dezhnev strillò: «Ci siamo! Vedete?»
Di fronte, nel raggio luminoso anteriore della nave, si scorgeva un cerchio. Morrison non ebbe difficoltà a tradurlo nella base dell’ago.
All’altro capo di quell’ago, avrebbero trovato il flusso sanguigno di Pyotr Shapirov e sarebbero penetrati in un corpo umano.
37
Morrison disse: «Siamo troppo grandi per passare nell’ago, Natalya.»
Provò uno strano amalgama di emozioni a quel pensiero. Soprattutto un senso di speranza... Forse l’intero esperimento era fallito. Forse non potevano rimpicciolirsi di più, e non erano ancora abbastanza piccoli. Sarebbero dovuti entrare in deminiaturizzazione, e tutto sarebbe finito.
Sotto quella considerazione, nascosta in profondità, c’era una traccia di delusione. Arrivato a quel punto, non valeva la pena di entrare nel corpo e vivere l’esperienza di trovarsi in una cellula nervosa? Normalmente, dato che non era né un temerario né un intrepido, Morrison si sarebbe ritratto inorridito di fronte a quel pensiero... Morrison si ritrasse inorridito... ma visto che era stato miniaturizzato, che era arrivato a quel punto, che finora era sopravvissuto alla paura, non poteva darsi che in fondo desiderasse spingersi oltre?
Ma dopo quegli impulsi contraddittori affiorò un po’ di realismo. Sicuramente quelle persone non erano così sciocche da usare una nave che non poteva essere ridotta alle dimensioni adatte per passare nell’ago in cui doveva passare. Da persone tanto intelligenti era assurdo aspettarsi Un’idiozia del genere.
E la Boranova, quasi fosse sintonizzata sui suoi pensieri, disse con aria indifferente «Sì, siamo troppo grandi adesso, ma provvederemo a diminuire. Il mio compito a bordo è proprio questo.»
«Il tuo compito?» ripeté Morrison perplesso.
«Certo. Finora siamo stati miniaturizzati dal nostro apparato di miniaturizzazione centrale. Ora le regolazioni finali di precisione le faccio io.»
La Kaliinin mormorò: «Ecco uno dei motivi per cui dobbiamo risparmiare il più possibile la nostra energia di microfusione.»
Morrison spostò lo sguardo dall’una all’altra donna. «Abbiamo abbastanza energia a bordo per un’ulteriore miniaturizzazione? Credevo che occorresse una grande quantità di energia per...»
«Albert» l’interruppe la Boranova «se la gravitazione fosse quantizzata, occorrerebbe la stessa enorme quantità di energia per ridurre una massa a metà, indipendentemente dal valore originale di tale massa. Per dimezzare la massa di un topo sarebbe necessaria la stessa energia richiesta per dimezzare la massa di un elefante... Ma l’interazione gravitazionale non è quantizzata e quindi non lo è nemmeno la perdita di massa. Questo significa che l’energia necessaria per la perdita di massa decresce con la perdita... non del tutto proporzionalmente, ma abbastanza. Ora abbiamo una massa talmente ridotta che occorre molto meno energia per continuare la miniaturizzazione.
Morrison disse: «Ma dal momento che non avete mai miniaturizzato a simili livelli un oggetto grande come questa nave, vi basate sui dati ricavati da un livello dimensionale molto diverso.»
“Non stanno parlando con un poppante” pensò indignato. “Sono un loro pari.”
«Sì» rispose la Boranova. «È un rischio che corriamo... ci auguriamo che la nostra estrapolazione regga, che non capiti qualcosa di nuovo e di imprevisto. Del resto, viviamo in un Universo che di tanto in tanto ci pone di fronte delle incertezze. È inevitabile.»
«Ma se qualcosa va storto, abbiamo di fronte la morte.»
«Non lo sapevi?» replicò calma la Boranova. «La tua inquietudine per questo viaggio fantastico era fine a sé stessa? Lo facevi semplicemente per il gusto di essere inquieto? Ma non siamo i soli a rischiare. Se le cose andranno storte e l’energia di miniaturizzazione si scaricherà, oltre a distruggere noi, potrà danneggiare in parte anche la Grotta. Sicuramente, molte persone normali là fuori hanno il fiato sospeso e si chiedono se sopravviveranno a un’eventuale esplosione. Vedi, Albert, perfino quelli che non corrono i rischi diretti della miniaturizzazione non sono completamente al sicuro.
Dezhnev si voltò con un ampio sorriso. Morrison notò che un suo molare superiore era incapsulato e spiccava tra gli altri denti piuttosto ingialliti.
Dezhnev disse: «Amico mio, concentrati su questo pensiero... se qualcosa va storto non lo saprai mai. Mio padre diceva: “Dato che tutti dobbiamo morire, cosa possiamo chiedere di meglio se non una morte rapida e improvvisa?”»
Morrison osservò: «Giulio Cesare ha detto la stessa cosa.»
Dezhnev ribatté: «Sì, però noi non avremo nemmeno il tempo di dire: “Et tu, Brute”.»
«Non morirà nessuno» intervenne brusco Konev. «Ed è sciocco parlarne. Le equazioni sono esatte.»
«Ah» fece Dezhnev. «C’era un’epoca di superstizione in cui la gente contava sulla protezione di Dio. Grazie alle Equazioni adesso possiamo contare sulle Equazioni.»
«Non sei spiritoso» disse Konev.
«Infatti, non stavo facendo dello spirito, Yuri... Natasha, là fuori sono pronti.»
«Bene, allora non ci sarà più bisogno di perdersi in congetture» disse la Boranova. «Si va.»
Morrison si aggrappò al sedile preparandosi, ma non accadde nulla Di fronte, però, il cerchio che aveva scorto si espanse e arretrò lentamente diventando sempre più sfocato, poi non fu più possibile distinguerlo.
«Ci stiamo muovendo?» chiese automaticamente Morrison. Era il tipo di domanda che non si poteva fare a meno di formulare, anche se la risposta era ovvia.
«Sì» disse la Kaliinin «e non stiamo consumando energia. Non stiamo lottando contro le molecole d’acqua. Ci trasporta il flusso d’acqua nell’ago mentre il cilindro preme lentamente.»
Morrison stava contando tra sé. Era più efficace tenere occupata la mente così che osservando la seconda lancetta dell’orologio.
Quando arrivò a cento, disse: «Quanto ci vorrà?»
«Quanto ci vorrà per cosa?» domandò la Kaliinin.
«Quand’è che raggiungeremo il flusso sanguigno?»
Dezhnev disse: «Tra qualche minuto. Stanno procedendo con estrema lentezza, nel caso ci fosse qualche microturbolenza. Come disse mio padre una volta: “È più lento, ma più sicuro, strisciare lungo la discesa che saltare dal dirupo”.»
Morrison sbuffò. «Ci stiamo ancora riducendo?»
La Boranova gli rispose da dietro. «No. Siamo a livello cellulare, ed è più che sufficiente per le nostre esigenze immediate.»
Morrison, stupito, si accorse che stava tremando. In fin dei conti, stavano accadendo tante cose e c’erano tante cose nuove a cui pensare che lui aveva accantonato in qualche angolo il senso di terrore. Ma lui non era terrorizzato, almeno non a uno stadio acuto... eppure, chissà perché, continuava a tremare.
Cercò di rilassarsi con uno sforzo di volontà. Provò ad abbandonarsi, ma per farlo non era sufficiente la forza di volontà. Occorreva anche l’attrazione gravitazionale, che lì era inesistente. Chiuse gli occhi e rallentò il ritmo respiratorio. Provò addirittura a canticchiare tra sé il coro della Nona Sinfonia di Beethoven.
Infine si sentì costretto a far notare il problema. «Scusate... ma, a quanto pare, sto tremando.»
Dezhnev soffocò una risatina. «Ah! Mi chiedevo proprio chi sarebbe stato il primo a parlarne.»
La Boranova disse: «Non sei tu, Albert. Tutti stiamo tremando leggermente. È la nave.»
Subito, Morrison si lasciò prendere dalla paura. «Ha qualcosa che non va?»
«No. Semplice questione di dimensioni. È abbastanza piccola da sentire l’effetto del moto browniano. Sai cos’è, no?»
Era una pura domanda retorica. La Boranova sapeva sicuramente che anche uno studente liceale conosceva il significato dell’espressione “moto browniano”, tuttavia Morrison si ritrovò a spiegarselo mentalmente... non in parole, ma in un guizzo concettuale.
Ogni oggetto in sospensione in un liquido è bombardato da ogni parte dagli atomi del liquido. Queste particelle colpiscono a caso, quindi in modo irregolare, ma l’irregolarità è talmente piccola paragonata al totale da risultare inosservabile e da non avere effetti misurabili. Via via che un oggetto diventa più piccolo, però, l’irregolarità aumenta tra il numero sempre minore di particelle che colpiscono l’oggetto in un dato tempo. Adesso la nave era abbastanza piccola da reagire ai lievi eccessi delle collisioni, prima in una direzione, poi in un’altra, in modo casuale. Di conseguenza si muoveva leggermente, scossa da un tremito irregolare.
Morrison disse: «Sì, avrei dovuto pensarci. Peggiorerà se continueremo a rimpicciolire.»
«Per la verità, no» replicò la Boranova. «Ci saranno altri effetti compensatori.»
«Non ne conosco nessuno.» Morrison corrugò la fronte.
«Comunque, ci saranno.»
«Affidati alle Equazioni» disse Dezhnev ostentando un tono pio. «Le Equazioni sanno tutto.»
Morrison disse: «Questo movimento potrebbe causarci il mal di mare.»
«Certo» riconobbe la Boranova «ma c’è una terapia chimica anti nausea. Abbiamo ingerito la stessa sostanza chimica che i cosmonauti usano per il mal di spazio.»
«Io no» sbottò Morrison indignato. «Non solo non ho preso quella sostanza, non sono stato nemmeno avvisato.»
«Ti abbiamo parlato il meno possibile dei disagi e dei pericoli per non allarmarti troppo, Albert. E per quanto riguarda la terapia, hai ingerito la tua dose a colazione... Come ti senti?»
Morrison, che aveva cominciato ad avvertire un certo fastidio allo stomaco sentendo parlare di nausea, decise che stava benissimo. Sorprendente la tirannia esercitata dalla mente sul corpo, rifletté.
Sottovoce rispose: «In condizioni discrete.»
«Bene» disse la Boranova «perché adesso siamo nel flusso sanguigno dell’accademico Shapirov.»
38
Morrison guardò attraverso la parete trasparente della nave.
Sangue?
Il suo primo impulso fu quello di aspettarsi qualcosa di rosso. Che altro?
Aguzzò lo sguardo, stringendo leggermente gli occhi, ma non riuscì a vedere nulla, nemmeno nella luce scintillante della nave. Sembrava quasi di trovarsi su una barca e di andare alla deriva sulla superficie calma di uno stagno in una notte buia e nuvolosa.
I pensieri di Morrison cambiarono direzione di colpo. In senso assoluto, la luce all’interno della nave aveva la lunghezza d’onda dei raggi gamma e raggi gamma molto duri. Eppure le lunghezze d’onda erano il risultato della miniaturizzazione di normali raggi luminosi visibili e per le retine e i lobi ottici miniaturizzati degli occupanti della nave erano ancora raggi luminosi e avevano le proprietà dei raggi luminosi.
Fuori, appena oltre lo scafo, dove il campo miniaturizzante cessava, i fotoni miniaturizzati si ingrandivano diventando normali fotoni e quelli che venivano riflessi verso la nave si miniaturizzavano di nuovo superando i limiti del campo. Gli altri forse erano abituati a quella situazione irta di paradossi, ma per Morrison il tentativo di afferrare l’effetto di una bolla miniaturizzata in un mare di normalità era frastornante. Il limite che separava il miniaturizzato dal normale era visibile? C’era una discontinuità da qualche parte?
Seguendo il corso di quei pensieri, mormorò alla Kaliinin, china sulle sue strumentazioni: «Sophia, quando la nostra luce lascia il campo miniaturizzante e si espande, deve sprigionare energia termica, e quando è riflessa di nuovo nella nave deve assorbire energia per essere miniaturizzata, e l’energia deve provenire da noi. Giusto?»
«Esatto, Albert» rispose la Kaliinin senza alzare lo sguardo. «Il fatto che usiamo la luce provoca una perdita di energia, piccola ma costante, comunque i nostri motori sono in grado di fornirla. Non è una perdita significativa.»
«E siamo davvero nel flusso sanguigno?»
«Non temere. Ci siamo. Tra poco, probabilmente, Natalya attenuerà le luci interne, così vedrai l’esterno con maggior chiarezza.»
Quasi si fosse trattato di un segnale, la Boranova annunciò: «Ecco! Ora possiamo rilassarci un po’.» E le luci si abbassarono.
Immediatamente, gli oggetti all’esterno della nave risultarono visibili. Morrison non li distingueva ancora bene, comunque loro erano immersi in qualcosa di eterogeneo, qualcosa che conteneva degli oggetti che galleggiavano, com’era lecito attendersi trattandosi di sangue.
Morrison si agitò a disagio, lottando contro la cintura che lo bloccava. «Ma se siamo nel flusso sanguigno, che è a una temperatura di trentasette gradi, finiremo...»
«La nostra aria è condizionata. Staremo benissimo» disse la Kaliinin. «Davvero, Albert, abbiamo pensato a queste cose.»
«Può darsi» fece Morrison, un po’ offeso «però io non sono stato messo al corrente, vero? Come potete controllare la temperatura se non avete uno scarico di raffreddamento?»
«È vero, però c’è lo spazio esterno, no? I motori a microfusione emettono una lieve pioggia di particelle subatomiche che, in stato miniaturizzato, hanno una massa vicinissima a zero. Le particelle quindi viaggiano in pratica alla velocità della luce, attraversando la materia con la stessa facilità dei neutrini e portando con sé energia. In meno di un secondo sono nello spazio esterno, per cui hanno la proprietà di trasferire il calore dalla nave allo spazio esterno, e la nostra temperatura rimane fresca. Capito?»
«Sì» borbottò Morrison. Ingegnoso... ma forse ovvio, dopotutto, per gente abituata a pensare in termini di miniaturizzazione.
Morrison notò che i comandi della nave, sotto le mani di Dezhnev, erano luminosi, come pure gli strumenti di fronte alla Kaliinin. Si drizzò a fatica sul sedile e riuscì a vedere un angolo dello schermo del computer di Konev. Conteneva quella che a Morrison sembrò una mappa del sistema circolatorio del collo. Per un attimo, prima che il suo corpo cessasse di lottare contro la rete della cintura e tornasse ad abbassarsi sul sedile, Morrison vide un puntino rosso sullo schermo, e dedusse che si trattava di un dispositivo per segnare la posizione della nave nella carotide sinistra.
Ansimava un po’ per lo sforzo e dovette attendere qualche secondo per riacquistare il controllo del proprio respiro. Il comparto in cui era inserito il suo computer era illuminato, e Morrison schermò il riflesso alzando la sinistra. Poi guardò fuori.
In lontananza, vide qualcosa che assomigliava a una parete, a una specie di barriera, che si ritirava, si avvicinava, si allontanava di nuovo, in continuazione, ritmicamente. Morrison guardò l’orologio per alcuni secondi. Era senza dubbio la pulsazione della parete dell’arteria.
Sottovoce disse alla Kaliinin: «È evidente che la miniaturizzazione non influisce sul passare del tempo. Almeno, il battito cardiaco è come dovrebbe essere, anche se lo vedo con occhi miniaturizzati e lo cronometro con un orologio miniaturizzato.»
Fu Konev a rispondere. «Il tempo non è quantizzato, a quanto pare, o almeno non è influenzato dal campo di miniaturizzazione, il che forse è la stessa cosa. Meglio così. Se dovessimo tener conto di un flusso temporale mutevole, le cose potrebbero complicarsi troppo.»
Morrison ne convenne in silenzio e rivolse il pensiero altrove.
Se erano in un’arteria, e se la nave veniva semplicemente spinta in avanti dalla corrente, lo spostamento doveva avvenire a scatti... uno scatto per ogni contrazione del cuore (un cuore lontanissimo, considerate le loro dimensioni). E in tal caso, lui avrebbe dovuto avvertire quegli scatti.
Chiuse gli occhi e cercò di rimanere immobile, di non muoversi affatto... a parte il tremito del moto browniano che non poteva controllare in nessun modo.
Ah, adesso sentiva. Una spinta all’indietro, lieve ma netta, quando lo scatto iniziava, una lieve spinta in avanti quando terminava.
Ma come mai gli scatti non erano più forti? Come mai non veniva sballottato violentemente avanti e indietro?
Allora pensò alla massa che non possedeva più. Con la massa microscopica che gli restava, anche la sua inerzia era minima. La viscosità del fluido normale del flusso sanguigno esercitava un effetto ammortizzante enorme, e gli scatti si perdevano quasi nel moto browniano.
E, impercettibilmente, Morrison si rilassò. Sentì che qualcosa dentro di lui si allentava un poco. L’ambiente miniaturizzato era inaspettatamente benigno.
Tornò a guardare attraverso lo scafo trasparente, concentrandosi sullo spazio tra la nave e la parete dell’arteria. Vide delle bolle, dai contorni sfocati. No, non erano bolle, erano oggetti consistenti... numerosi. Alcuni ruotavano lentamente, e ruotando cambiavano forma, quindi non erano sfere. Erano dischi, si rese conto Morrison.
Intuendo di colpo la verità, si vergognò. Perché era stato così lento nell’identificarli, dato che sapeva di trovarsi in un flusso sanguigno? Ma anche questo interrogativo aveva una risposta facile. Non riusciva ancora a concepire del tutto di essere in un flusso sanguigno; era fin troppo semplice immaginare di trovarsi in un sommergibile che avanzava in un oceano. Era normale aspettarsi di vedere le immagini familiari di un oceano e avere delle stupide perplessità di fronte alle cose che non appartenevano a!l’ambiente in cui pensava di viaggiare.
Era normale vedere i globuli rossi del sangue, gli eritrociti, e non riconoscerli.
Naturalmente, non erano rossi, ma giallognoli. Ognuno assorbiva qualche onda luminosa corta per produrre quel colore. Prendendoli in gran numero, però, a milioni e miliardi, avrebbero assorbito una quantità sufficiente di quella luce da apparire rossi... nel sangue arterioso, almeno, e adesso erano in un’arteria. Quando le cellule prelevavano l’ossigeno trasportato dai globuli rossi, ogni globulo avrebbe assunto una colorazione bluastra, e una grande massa di globuli una colorazione purpurea.
Osservò gli eritrociti con interesse e li distinse benissimo ora che li aveva riconosciuti.
Erano dischi biconcavi, con una depressione centrale su ogni lato. Per Morrison erano enormi, considerando che in condizioni normali erano microscopici e avevano un diametro di circa sette micron e mezzo e uno spessore di poco superiore ai due micron. E adesso, eccoli davanti a lui, grandi quanto una sua mano.
Ce n’erano molti all’esterno e tendevano ad ammassarsi come pile di monete. Le formazioni però non erano statiche. Alcuni globuli si staccavano dal mucchio, altri si univano, e c’era sempre qualche globulo isolato in vista. I globuli visibili sembravano fermi, non si muovevano rispetto alla nave.
«Se non sbaglio, stiamo semplicemente avanzando trasportati dal flusso» disse Morrison.
«Esatto» confermò la Kaliinin. «Si risparmia energia.»
Però i globuli rossi non erano del tutto stazionari rispetto alla nave. Morrison notò che un globulo scivolava lentamente verso la nave, trasportato forse da una microturbolenza o da una spinta casuale del moto browniano. Il globulo si appiattì leggermente per un attimo contro lo scafo di plastica, poi rimbalzò via.
Morrison si rivolse alla Kaliinin. «Hai visto, Sophia?»
«Il globulo rosso che ci ha fatto solletico? Sì.»
«Perché non si è miniaturizzato? Sicuramente è entrato nel campo.»
«Non proprio, Albert. È rimbalzato sul campo, che si estende per una breve distanza oltre un oggetto miniaturizzato in ogni direzione. C’è una certa repulsione tra la materia normale e la materia miniaturizzata, e più aumenta il livello di miniaturizzazione, più aumenta la repulsione. Ecco perché gli oggetti piccolissimi come le particelle subatomiche o gli atomi miniaturizzati passano attraverso la materia senza interagire con essa. Ed è anche il motivo per cui lo stato miniaturizzato è metastabile.»
«In che senso?»
«Un oggetto miniaturizzato è sempre circondato da materia normale, a meno che non sia nello spazio profondo. Se non ci fosse nulla a tenere la materia normale fuori dal campo, questa materia si miniaturizzerebbe in continuazione e, per farlo, assorbirebbe energia dall’oggetto miniaturizzato. La perdita sarebbe rilevante e l’oggetto miniaturizzato si deminiaturizzerebbe rapidamente. In pratica sarebbe impossibile ottenere la miniaturizzazione, dato che l’energia racchiusa nell’oggetto in fase miniaturizzante si disperderebbe subito. Ci ritroveremmo a cercare di miniaturizzare l’Universo, in questo modo... Naturalmente, date le nostre dimensioni, la repulsione non è particolarmente forte. Se un globulo rosso ci urtasse con forza sufficiente, la superficie di collisione potrebbe subire in parte un processo di miniaturizzazione.»
Morrison guardò di nuovo il panorama esterno e, un attimo dopo, scorse qualcosa che aveva tutto l’aspetto di un globulo rosso lacerato.
«Ah» fece «per caso quello è un esempio di globulo entrato in collisione con noi troppo violentemente?»
La Kaliinin si chinò verso Morrison per guardare meglio nella direzione indicata, e scosse la testa. «Non credo, Albert. I globuli rossi hanno una vita limitata... circa centoventi giorni. Poi, mi spiace per loro, si logorano e muoiono. Nel volume di sangue che vediamo, ne muoiono decine e decine al minuto, quindi i globuli rossi esauriti e lacerati sono uno spettacolo comunissimo... Ed è un fatto positivo, perché significa che se dovessimo usare la nostra propulsione e lanciarci nel flusso sanguigno rompendo qualche globulo rosso, o addirittura qualche milione di globuli, per Shapirov non cambierebbe nulla. Tanto non potremmo mai eguagliare il loro ritmo di decadimento naturale.»
Morrison chiese: «E le piastrine?»
«Perché questa domanda?»
«Perché quella dovrebbe essere una piastrina» rispose Morrison, indicando. «È a forma di lenticchia, e come dimensioni è la metà di un globulo rosso.»
Una breve pausa, poi Sophia Kaliinin annuì. «Sì, adesso la vedo. È una piastrina. La percentuale dovrebbe essere di una piastrina ogni venti globuli rossi.»
All’incirca, rifletté Morrison. Se fosse stato su una giostra cercando di prendere gli anelli di ferro mentre girava, e ogni globulo rosso fosse stato un normale anello di ferro, la piastrina incontrata più raramente avrebbe rappresentato l’ambito anello di ottone.
Spiegò: «Quel che voglio dire, Sophia, è che le piastrine sono più fragili dei globuli rossi, e quando si rompono avviano il processo di coagulazione. Rompendo delle piastrine, provocheremo la formazione di un grumo nell’arteria. Shapirov avrà un altro ictus e morirà sicuramente.»
La Boranova, che aveva ascoltato la conversazione tra Morrison e la Kaliinin, intervenne. «Innanzitutto, le piastrine non sono poi così fragili. Possono urtarci leggermente e rimbalzare senza danni. Il pericolo di un altro ictus sussiste a livello della parete dell’arteria. Le piastrine si muovono molto più velocemente rispetto alla parete della carotide che non rispetto a noi. E lungo la parete possono esserci depositi di colesterolo e placche lipidiche di ogni genere. Dunque si tratta di una superficie molto più scabra e irregolare dello scafo di plastica. I grumi possono formarsi lungo la parete, non qui. E in ogni caso il pericolo è relativo. La rottura di una piastrina, o addirittura di alcune centinaia di piastrine, non è sufficiente ad avviare un processo di coagulazione dannoso e irreversibile. Per farlo occorrono moltissime piastrine.»
Morrison osservò una piastrina che, di tanto in tanto, scompariva dietro i numerosi globuli rossi. Voleva vedere se sarebbe entrata in contatto con la nave e, se lo avesse fatto, cosa sarebbe successo. Ma la piastrina non lo accontentò e rimase a distanza dallo scafo.
Fu allora che Morrison si accorse che la piastrina sembrava grande quanto la sua mano. Com’era possibile se una piastrina era la metà di un globulo rosso e se i globuli rossi erano grandi come la sua mano? Cercò con lo sguardo un globulo rosso e... sì, in effetti adesso sembrava molto più grande di prima.
Preoccupato, disse: «Gli oggetti all’esterno si stanno ingrandendo.»
«Ci stiamo ancora riducendo, ovvio» osservò Konev, palesemente seccato nel constatare che Morrison sembrava incapace di trarre le conclusioni logiche dai fatti osservati.
La Boranova disse: «Esatto, Albert. L’arteria si sta restringendo via via che avanziamo, e noi dobbiamo adeguarci.»
«Non vogliamo rimanere bloccati per la nostra grassezza» fece allegro Dezhnev. E, colpito da un altro pensiero, aggiunse: «Sai, Natasha, in vita mia non sono mai stato così magro.»
«Sei grasso come sempre, Arkady, in base alla costante di Planck» replicò la Boranova insensibile.
Morrison non era dell’umore giusto per simili facezie. «Ma fino a che livello ci miniaturizziamo, Natalya?»
«A livello molecolare, Albert.»
E l’apprensione di Morrison riaffiorò prepotentemente.
39
Morrison si sentì sciocco perché non si era reso conto subito che stavano ancora miniaturizzandosi, e nel medesimo tempo provò un acuto risentimento nei confronti di Konev che glielo aveva fatto notare senza troppa delicatezza. Il guaio era che gli altri avevano dimestichezza con la miniaturizzazione da diversi anni, mentre per lui si trattava di un concetto nuovo, di un concetto che stentava a entrare nel suo cervello riluttante. Possibile che non comprendessero le difficoltà che incontrava?
Morrison studiò i globuli rossi imbronciato. Erano nettamente più grandi. Avevano un diametro superiore all’ampiezza del suo torace, e i loro margini non erano ben delineati Come prima. La loro superficie tremava... sembravano sacchi pieni di materiale sciropposo.
Sottovoce, disse alla Kaliinin: «A livello molecolare?»
La Kaliinin gli lanciò un’occhiata, poi si girò e confermò: «Sì.»
«Forse non dovrei preoccuparmi, se consideriamo le dimensioni che abbiamo già raggiunto... ma l’idea di essere piccoli come una molecola ha qualcosa che spaventa. Piccoli come quale molecola?»
La Kaliinin si strinse nelle spalle. «Non so... Questo dipende da Natalya... Come la molecola di un virus, forse.»
«Ma è una cosa mai sperimentata precedentemente.»
La Kaliinin scosse la testa. «Ci stiamo avventurando nell’ignoto.»
Morrison attese un attimo, quindi chiese inquieto: «Non hai paura?»
Lei lo fissò infuriata, ma continuò a parlare a bassa voce. «Certo che ho paura. Per chi mi prendi? È anormale non avere paura quando si hanno tutte le ragioni per averne. Avevo paura quando sono stata violentata. Avevo paura quando sono rimasta incinta e mi hanno abbandonata. Ho passato metà della mia vita con la paura addosso. È così per tutti. Ecco perché la gente beve tanto... per cancellare la paura che l’attanaglia.» Stava parlando a denti stretti, la sua voce era un sibilo. «Vuoi che mi affligga per te, perché hai paura?»
«No» mormorò Morrison sorpreso.
«Avere paura è una cosa normalissima» continuò Sophia. «L’importante è non lasciarsi condizionare dalla paura, non cedere alla paura, non lasciarsi prendere da una crisi isterica per la paura, non...» S’interruppe, in un sussurro amaro di colpevolezza. «Io ho ceduto all’isteria, una volta.» Il suo sguardo si spostò verso Konev, che sedeva immobile, rigido, con la schiena eretta. «Ma adesso» riprese Sophia «intendo fare la mia parte, anche se sono semiparalizzata dalla paura. Nessuno capirà dalle mie azioni che ho paura. E ti conviene fare la stessa cosa, signor americano.»
Morrison deglutì. «Sì, certo» disse, ma il suo tono non convinceva nemmeno lui.
Guardò dietro, poi in avanti. Inutile parlare sottovoce in quell’ambiente ristretto. Lì dentro si sentiva anche il minimo sussurro.
La Boranova,. alle spalle di Sophia, era concentrata sul suo apparato di miniaturizzazione, però sul suo volto si notava un lieve sorriso. Approvazione? Disprezzo? Morrison non era in grado di dirlo.
Dezhnev si voltò e disse: «Natasha, continua a restringersi. Non dovresti accelerare la miniaturizzazione?»
«Farò quel che è necessario, Arkady.»
Dezhnev incontrò lo sguardo di Morrison e gli strizzò l’occhio, sogghignando. «Non credere alla piccola Sophia» disse, fingendo di sussurrare. «Non ha paura. Non ha mai paura, lei. È solo che non vuole lasciarti solo nella tua inquietudine. Ha un cuore molto tenero, la nostra Sophia, tenero come...»
«Stai zitto, Arkady» l’interruppe l’interessata. «Tuo padre ti avrà sicuramente detto che è meglio non percuotere la zucca vuota che chiami testa col cucchiaio arrugginito che chiami lingua.»
«Ah!» esclamò Dezhnev, alzando gli occhi al soffitto. «Pungente, questa! E mio padre infatti diceva che anche il coltello più affilato non è mai tagliente come la lingua di una donna... Comunque, parlando seriamente, Albert, scendere a livello molecolare non è nulla. Aspetta che abbiamo imparato a collegare la relatività alla teoria dei quanti e allora sì... con un pizzico di energia ci ridurremo a livello subatomico, e vedrai!»
«Vedrò, cosa?»
«L’accelerazione istantanea. Decolleremo così...» Dezhnev staccò le mani dai comandi per compiere un gesto guizzante accompagnato da un fischio acuto.
La Boranova disse calma: «Mani sui comandi, Arkady.»
«Certo, mia cara Natasha. Un attimo di teatralità scusabile.» Dezhnev si rivolse quindi a Morrison. «Istantaneamente, fileremo quasi alla velocità della luce, una velocità della luce molto più grande in quelle condizioni. In dieci minuti potremo attraversare la Galassia, in tre ore raggiungeremo quella di Andromeda, in due anni la quasar più vicina. E se non saremo abbastanza veloci, potremo ridurci ancora di più. Avremo i viaggi ultraluce, l’antigravità, tutto. L’Unione Sovietica aprirà la strada verso queste conquiste.»
Morrison disse: «E come controllerai la traiettoria, Arkady?»
«Cosa?»
«Come controllerai la traiettoria?» ripeté serio Morrison. «Non appena avrà raggiunto dimensioni e massa infinitesimali adeguate, in pratica la nave s’irradierà verso l’esterno a centinaia di anni luce al secondo. Questo significa che se ci fossero miliardi e miliardi di navi, schizzerebbero in ogni direzione con simmetria sferica... come la luce solare. Ma trattandosi di una sola nave, si muoverebbe verso l’esterno in una direzione particolare ma assolutamente imprevedibile.»
«È un problema di competenza dei brillanti teorici... come Yuri.»
Fino a quel momento Konev non aveva mostrato alcun interesse per la conversazione, ma adesso sbuffò forte.
Morrison osservò: «Secondo me non è molto prudente sviluppare il movimento e dare per scontata la manovrabilità. Scommetto che tuo padre direbbe: “Un uomo saggio non costruisce una casa partendo dal tetto”.»
«Può darsi» replicò Arkady. «Comunque, quel che è certo, è che una volta ha detto: “Se trovi una chiave d’oro senza serratura, non gettarla via. Anche l’oro può bastare”.»
La Boranova si agitò sul sedile alle spalle di Morrison e intervenne. «Basta coi detti e i proverbi, amici... Dove siamo, Yuri? Stiamo facendo progressi?»
Konev rispose: «A mio giudizio, sì, ma gradirei che l’americano confermasse, o mi correggesse.»
«Come posso farlo?» scattò Morrison. «Sono bloccato dalla cintura.»
«Sbloccala, allora» disse Konev. «Anche se galleggi un po’ nell’aria, non andrai molto lontano.»
Per un attimo, Morrison armeggiò con la cintura, avendo dimenticato la posizione del contatto d’apertura. La mano della Kaliinin si mosse svelta, e lo liberò.
«Grazie, Sophia.»
«Imparerai» gli disse lei, indifferente.
«Alzati, in modo da riuscire a vedere oltre la mia spalla» disse Konev.
Morrison lo fece e, inevitabilmente, spinse troppo forte contro lo schienale del sedile di fronte. Data la sua inerzia insignificante, si alzò velocissimo e urtò con la testa il soffitto della nave. Se fosse successo alla stessa velocità in condizioni normali, probabilmente Morrison avrebbe riportato un trauma dolorosissimo. Ma la mancanza di massa e di inerzia che lo aveva fatto schizzare verso l’alto, lo aveva fatto rimbalzare all’ingiù quasi subito senza alcuna sensazione di dolore, e in pratica nemmeno di pressione al cranio. Fermarsi era facile come partire.
Konev schioccò la lingua. «Adagio. Alza la mano, di taglio... girala lentamente, poi spingila giù piatta, lentamente. Capito?»
«Capito» rispose Morrison.
Seguì i suggerimenti di Konev, si sollevò lentamente, e per fermarsi strinse la spalla dell’altro.
Konev disse: «Ora, guarda la cerebrografia. Vedi dove siamo in questo momento?»
Morrison si ritrovò a guardare una rete di una complessità enorme, con un chiaro effetto tridimensionale. Era formata da rigagnoli sinuosi che si diramavano verso l’esterno in maniera tale da creare un albero intricatissimo. In uno dei rami principali c’era un puntino rosso, che si muoveva lentamente e in modo regolare.
Morrison chiese: «Puoi darmi un’immagine più ampia, così potrò identificare questa sezione?»
Konev, con un altro schiocco della lingua, che forse esprimeva impazienza, espanse l’immagine. «Va bene così?»
«Sì, siamo ai margini del cervello.» Morrison riconobbe le singole circonvoluzioni e le fenditure. «Dove hai intenzione di andare?»
L’immagine si ingrandì leggermente. Konev spiegò: «Qui curveremo, penetrando all’interno dello strato neuronico... la materia grigia. E, seguendo questo percorso...» pronunciò rapido in russo i nomi delle zone, e Morrison a fatica li tradusse mentalmente in inglese «vorrei dirigermi in quest’area che, se ho letto bene i tuoi studi, dovrebbe essere un nodo cruciale della rete neuronica.»
«Non esistono cervelli perfettamente identici» disse Morrison. «Non posso definire nulla con certezza, soprattutto se il cervello in questione è un cervello che non ho mai studiato. Comunque, direi che l’area verso cui ti stai dirigendo sembra promettente.»
«Bene. E se arriveremo alla destinazione che ho scelto, sarai in grado di dirmi con maggior precisione se siamo a un incrocio dove si incontrano parecchie diramazioni della rete o, in caso contrario, in che direzione e a quale distanza potrebbe essere questo incrocio?»
«Posso provare» rispose cauto Morrison. «Ma, per favore, tieni presente che non ho garantito nulla. Non vi ho fatto nessuna promessa. Non mi sono offerto...»
«Lo sappiamo, Albert» disse la Boranova. «Ti chiediamo solo di fare il possibile.»
«In ogni caso» riprese Konev «quello è il primo punto che raggiungeremo per studiare la situazione, e ci arriveremo presto, anche se la corrente sta rallentando. Dopotutto, siamo quasi a livello capillare... Agganciati al sedile, Albert. Se avrò bisogno di te, te lo farò sapere.»
Morrison riuscì a sistemare la cintura senza alcun aiuto, verificando che anche i piccoli trionfi avevano un gusto dolce.
“Quasi a livello capillare”, pensò, e guardò all’esterno.
La parete del vaso sanguigno era ancora a una distanza non allarmante, però il suo aspetto era cambiato. Prima, le pareti pulsanti erano informi, senza tratti caratteristici. Ora invece Morrison non notava più alcuna pulsazione, e sulle pareti cominciava ad apparire una specie di rivestimento geometrico... specie di mattonelle. Erano le cellule che formavano le pareti sempre più sottili, si rese conto Morrison.
Comunque era impossibile vederle bene, perché i globuli rossi impedivano la visuale. Adesso erano sacchi flosci grandi quasi quanto la nave. Di tanto in tanto, uno galleggiava oltre la nave rasentando lo scafo, e nel punto di contatto veniva spinto elasticamente all’interno senza subire danni visibili.
Una volta rimase una piccola chiazza. Forse il contatto era stato leggermente troppo forte e una linea di molecole miniaturizzate si era formata contro lo scafo, rifletté Morrison. La macchia comunque si staccò in fretta, dissolvendosi nel fluido circostante.
Per le piastrine il discorso era diverso, dato che erano molto più fragili del globuli rossi. Una entrò in collisione frontale con la nave. O forse l’aveva fatta rallentare una collisione con un globulo, e la nave l’aveva raggiunta. La prua penetrò in profondità e la pelle della piastrina si forò. Il contenuto trasudò lentamente, mischiandosi con il plasma e formando poi due o tre lunghi filamenti che si aggrovigliarono e rimasero attaccati allo scafo per parecchio tempo.
Morrison osservò la scena per vedere se si sarebbe formato un coagulo. Non accadde nulla.
Alcuni minuti dopo Morrison vide, di fronte, una nebbia lattiginosa che sembrava occupare il vaso sanguigno da una parete all’altra, e pulsava, ondeggiava. All’interno c’erano dei granuli scuri che si muovevano di continuo da un’estremità a quella opposta. Sembrava un mostro maligno, e Morrison non poté fare a meno di lanciare un grido, cedendo per un attimo al terrore.