Capitolo undicesimo.
Destinazione

 

 

Andare in un posto può essere la parte più divertente... ma solo se alla fine ci si arriva, in quel posto.

DEZHNEV SENIOR

 

 

45

 

Morrison sentì subito il calore circostante e soffocò un gemito. Come aveva detto Konev, la temperatura era di trentasette gradi. La calura di una giornata estiva opprimente, a cui era impossibile sottrarsi. Niente ombra, niente vento.

Si guardò attorno, orientandosi. Chiaramente, la Boranova aveva miniaturizzato ancora la nave mentre lui aveva indossato impacciato la tuta. La parete del capillare era più lontana. Ne vedeva solo un pezzo, perché tra lui e la parete c’era un enorme oggetto opaco. Un globulo rosso, naturalmente. Poi una piastrina scivolò tra il globulo rosso e la parete, ma con lentezza estrema.

Tutto quanto... il globulo rosso, la piastrina, Morrison, la nave... si spostava trasportato dalla debole corrente del capillare, a giudicare dallo scorrere lento delle cellule della parete.

Morrison si chiese come mai avvertisse così poco il moto browniano. La sensazione di movimento c’era e gli altri oggetti in vista sembravano tremare. Perfino i contorni cellulari delle pareti del capillare vibravano leggermente, in modo alquanto strano.

Ma non c’era tempo per essere troppo analitici. Doveva sbrigarsi e tornare a bordo.

Era a circa un metro dalla nave. (Un metro? Puramente soggettivo. Quanti micron... quanti milionesimi di metro lo separavano dalla nave in misure reali? Non si soffermò a cercare di dare una risposta all’interrogativo.) Agitò le pinne per accostarsi alla nave. Il plasma era molto più viscoso dell’acqua marina... sgradevolmente più viscoso.

Il calore, ovvio, era sempre presente. Non sarebbe cessato un attimo finché il corpo in cui si trovava fosse rimasto in vita. La sua fronte era ormai umida... Forza, doveva iniziare.

Tese la mano verso il punto da cui era uscito, ma non toccò nulla. Era come se stesse spingendo un cuscino d’aria morbido e gommoso, anche se gli occhi gli dicevano che non c’era nulla tra quella parte di scafo e la sua mano, a parte forse un velo di liquido.

Una brevissima riflessione, e capì cosa stesse accadendo. La superficie esterna della tuta aveva una carica negativa. Anche la parte di scafo che stava toccando l’aveva. E lo respingeva.

Ma c’erano altre parti di scafo. Morrison fece scivolare le mani finché non fu sicuro di toccare la plastica. Non era sufficiente, però, perché le sue mani scivolavano come se quell’area fosse incredibilmente viscida.

Poi, quasi con un rumore secco, la sinistra gli si bloccò. Scorrendo su una zona a carica positiva, vi era rimasta. Morrison provò a liberarsi, prima con un lieve strattone, quindi con maggior vigore. Era come se fosse inchiodato. Tastò più in là con la destra. Fissando quella, forse sarebbe riuscito a staccare la sinistra.

Clic. Ora che la destra era ancorata allo scafo, tirò la sinistra. Non accadde nulla. Era appiccicato alla nave, crocifisso.

Il sudore gli rigava la fronte ristagnando sotto le ascelle.

Urlò inutilmente, sbattendo le gambe in uno sforzo parossistico.

Lo stavano guardando, ma che gesti poteva fare con le mani bloccate? Il globulo rosso che aveva accompagnato la nave da quando lui era uscito lo urtò spingendolo contro lo scafo. Il torace di Morrison, però, non rimase incollato. Per fortuna non aveva toccato una zona a carica positiva.

La Kaliinin lo stava fissando. Muoveva la bocca, ma Morrison non sapeva leggere il movimento della labbra... non in russo, comunque. Poi la Kaliinin fece qualcosa col computer, e il braccio sinistro di Morrison si liberò. Doveva avere diminuito l’intensità della carica.

Morrison annuì, sperando che venisse interpretato come un cenno di ringraziamento. Ora bastava spostarsi, di zona positiva in zona positiva, fino a raggiungere il retro della nave.

Cominciò a farlo e si ritrovò più o meno bloccato... non tanto dall’attrazione elettromagnetica, adesso, quanto dalla massa morbida ed elastica del globulo rosso.

«Vai indietro» urlò Morrison, ma il globulo non sapeva cosa fossero le urla. Il suo ruolo era puramente passivo.

Morrison lo spinse con le mani e si aiutò anche con le pinne inferiori. La membrana superficiale elastica del globulo rosso cedette e si contrasse all’interno, ma più si ritraeva più opponeva resistenza, e alla fine Morrison si ritrovò a spingere senza esito e, ormai stanco, rimbalzò di nuovo contro lo scafo.

Si fermò a riprendere fiato, il che non era facile, accaldato e sudato com’era. Chissà se lo avrebbe messo fuori combattimento per prima la disidratazione o la febbre che sicuramente lo avrebbe assalito se non fosse riuscito a liberarsi del calore che stava producendo il suo corpo... calore aumentato dopo lo sforzo che stava facendo per scacciare il globulo rosso.

Alzò il braccio e lo calò, tenendo la pinna di taglio. La lama di plastica tagliò la membrana del corpuscolo, forandola come un palloncino. La tensione superficiale della membrana allargò sempre più lo squarcio. Fuoriuscì della materia, una nube di granuli, e il globulo rosso cominciò a restringersi.

Morrison aveva l’impressione di avere ucciso un essere vivente inoffensivo e provò una fitta di rimorso... poi rifletté che c’erano miliardi e miliardi di altri globuli rossi nel sistema circolatorio, e che un globulo rosso in ogni caso viveva solo 120 giorni.

Ora poteva portarsi sul retro dello scafo.

Sulla superficie interna della tuta non c’era traccia di appannamento. Comprensibile. La superficie era calda quanto il suo corpo, e comunque quella plastica avrebbe respinto qualsiasi sostanza. Il vapore probabilmente stava condensandosi sotto forma di piccole pozze di sudore negli angoli della tuta, seguendo i suoi movimenti.

Raggiunse il retro dello scafo, dove la linea aerodinamica della nave veniva interrotta dagli ugelli dei tre motori a microfusione. Lì si trovava il più lontano possibile dal baricentro della nave. Con un po’ di fortuna, i quattro passeggeri si sarebbero spostati il più possibile verso l’estremità anteriore dell’abitacolo... Peccato che Morrison non avesse pensato di mettere bene in chiaro quel particolare prima di infilare la tuta.) Ora doveva trovare delle aree a carica positiva che gli bloccassero le mani e poi... spingere!

Gli girava un po’ la testa. Un malessere fisico? Psicologico? Be’, l’effetto era lo stesso.

Respirò ancora a fondo e batté le palpebre per allontanare il sudore che gli colava negli occhi (era impossibile asciugarseli, e Morrison rivolse un’altra imprecazione rabbiosa agli stupidi che avevano progettato quella tuta... a conti fatti, offriva dei vantaggi microscopici, era quasi come non averla addosso).

Trovò gli appigli sullo scafo e agitò le pinne. Ci sarebbe riuscito? La massa che stava cercando di girale aveva un valore quantitativo misurabile in microgrammi, però lui disponeva di... cosa? Microerg di forza? Sapeva che con la miniaturizzazione, in proporzione, i suoi muscoli avevano acquistato una forza tremenda rispetto alla massa di un corpo... ma fino a che punto sarebbe riuscito a sfruttare tutta quella forza?

Fortunatamente, la nave si mosse. Lo capì dai movimenti delle cellule che componevano la parete del capillare. Adesso arrivava alla parete coi piedi, quindi la nave doveva essere di traverso nel capillare. L’aveva girata di 90 gradi.

Quando i suoi piedi toccarono la parete del vaso sanguigno, Morrison spinse forse troppo brutalmente. Se avesse perforato la parete, le conseguenze avrebbero potuto essere gravissime, ma non aveva tempo da perdere ed era questa la sua unica preoccupazione. Per fortuna i suoi piedi rimbalzarono, quasi si fossero posati su una superficie spugnosa, e la nave ruotò un po’ più in fretta.

Poi si bloccò.

Morrison alzò lo sguardo, intontito, sbattendo le palpebre, sforzandosi di vedere. Respirava a stento nel calore umido che lo soffocava all’interno della tuta. Un altro globulo rosso. Prevedibile. Nei capillari quei corpuscoli erano fitti come... come auto in una via cittadina congestionata dal traffico.

Questa volta non esitò. La pinna della sua mano destra calò all’istante, aprendo un ampio squarcio, e Morrison non spese neppure un microsecondo a rammaricarsi per l’assassinio di un essere innocente. Agitò ancora le gambe, e la nave si mosse.

Sperava di spostarla nella stessa dilezione di prima. E se aggredendo come un forsennato il globulo rosso si fosse capovolto senza accorgersene? Non era escluso che adesso stesse spingendo indietro lo scafo nella direzione sbagliata. Ormai non gli importava quasi più di niente.

La nave adesso era parallela all’asse principale del capillare. Ansimando, Morrison cercò di studiare le scaglie cellulari della parete. Se scorrevano in avanti verso la prua della nave, allora la nave stava andando all’indietro trascinata dalla corrente, dunque era rivolta verso la ramificazione dell’arteriola.

Decise che doveva essere così. No, se ne infischiava. Giusta o sbagliata che fosse la direzione, lui doveva tornare a bordo.

Non era disposto a sacrificare la vita per riuscire nell’impresa.

Dove? Dove?

Le sue mani scivolavano lungo lo scafo. Attaccandosi qui. Attaccandosi là.

In modo vago, vide delle figure sull’altro lato della parete. Gli facevano dei cenni. Cercò di seguirli.

Le immagini stavano svanendo.

Su? Gli facevano cenno di salire? E come poteva spostarsi all’insù? Non aveva più forza.

Il suo ultimo pensiero lucido, per un po’, fu che non gli occorreva la forza. Per un corpo privo di peso e di massa l’alto e il basso si equivalevano.

Si contorse verso l’alto, dimenticando perché lo stesse facendo, e una nebbia oscura calò su di lui.

 

 

46

 

La prima cosa che Morrison percepì fu una sensazione di freddo.

Un’ondata di freddo. Poi una carezza fredda.

Poi, luce.

Stava fissando una faccia. Per un po’ non capì che era una faccia. All’inizio era solo un insieme di chiazze di luce e d’ombra... Poi diventò una faccia... Poi, la faccia di Sophia Kaliinin.

Gli disse sottovoce: «Mi riconosci?»

Lentamente, a fatica, Morrison annuì.

«Di’ come mi chiamo.»

«Sophia» gracchiò Morrison.

«E a sinistra chi c’è?»

Morrison girò gli occhi, mise a fuoco l’immagine con uno sforzo, quindi voltò la testa. «Natalya.»

«Come ti senti?»

«Mal di testa.» La sua voce sembrava debole e lontana.

«Passerà.»

Morrison chiuse gli occhi e si abbandonò alla pace dell’inattività. Non fare nulla, il piacere supremo. Non provare nulla...

Poi sentì qualcosa di fresco che gli toccava l’inguine e riaprì gli occhi. Si accorse che gli avevano tolto la tuta, e che era nudo.

Delle braccia lo tennero fermo, e una voce disse: «Non preoccuparti. Non possiamo farti una doccia. Non c’è acqua per una doccia. Però possiamo usare una salvietta umida per rinfrescarti... e pulirti.»

«Non è... dignitoso» riuscì a balbettare Morrison.

«Sciocchezze. Adesso ti asciughiamo. Poi un po’ di deodorante, poi dentro la tua uniforme.»

Morrison cercò di rilassarsi. Solo quando sentì il cotone sulla pelle riprese a parlare. Chiese: «Ho girato la nave nella direzione giusta?»

«Sì» rispose la Kaliinin, annuendo vigorosamente. «E hai scacciato due globuli rossi con grande ferocia. Sei stato un eroe.»

«Aiutami ad alzarmi» disse rauco Morrison. Si puntellò coi gomiti sul sedile, e naturalmente galleggiò nell’aria.

Venne tirato giù.

«Mi ero dimenticato» borbottò. «Be’, agganciami la cintura. Lascia che stia un po’ seduto a riprendermi.» Represse il senso di vertigine, poi disse: «Quella tuta di plastica non vale niente. Una tuta da usare nel flusso sanguigno di un animale a sangue caldo deve essere dotata di raffreddamento.»

«Lo sappiamo» disse Dezhnev, seduto ai comandi. «La prossima lo avrà.»

«Già, la prossima» sibilò caustico Morrison.

«Almeno, grazie alla tuta hai potuto fare quello che dovevi fare» osservò Dezhnev.

«A mie spese» disse Morrison, parlando in inglese per esprimere meglio quello che provava.

«Ho capito» disse Konev. «Sai, ho vissuto negli Stati Uniti. Se ci tieni, ti insegnerò a dire queste parole in russo.»

«Grazie, ma hanno un gusto migliore in inglese.» Morrison si passò la lingua riarsa sulle labbra secche. «E l’acqua avrebbe un gusto ancora più buono. Ho sete.»

«Certo.» La Kaliinin gli accostò una bottiglia alle labbra. «Succhia adagio. Non si versa, non ha massa... Piano, piano. Non affogarti.»

Morrison ritrasse la testa dalla bottiglia. «Abbiamo abbastanza acqua?»

«Devi sostituire quella che hai perso. Basterà.»

Morrison bevve ancora, poi sospirò. «Va molto meglio... C’è una cosa che ho pensato quando ero fuori nel capillare. È stato un lampo di pensiero. Non ero sufficientemente lucido per capirlo.» Piegò la testa e si coprì gli occhi con le mani. «E adesso non sono sufficientemente lucido per ricordarlo. Lasciami pensare.»

Nella nave scese il silenzio.

Poi Morrison sospirò e, schiarendosi la voce, disse: «Sì, ricordo.»

Anche la Boranova sospirò. «Bene, allora non hai perso la memoria.»

«Certo che non l’ho persa» fece Morrison stizzito. «Cosa pensavate?»

Konev rispose gelido: «Una perdita di memoria avrebbe potuto rappresentare un primo sintomo di lesioni cerebrali.»

Morrison serrò la bocca di scatto, battendo forte i denti. Poi, con una sensazione di gelo alla bocca dello stomaco, disse: «È questo che avete pensato?»

«Era possibile» rispose Konev. «Come nel caso di Shapirov.»

«Lascia perdere» intervenne la Kaliinin. «Non è successo. Qual era quel pensiero, Albert... Lo ricordi ancora...» Era un’affermazione fiduciosa, e nel medesimo tempo una domanda speranzosa.

«Sì, mi ricordo. Stiamo risalendo la corrente, stiamo avanzando controcorrente, per così dire... vero?»

«Sì» rispose Dezhnev. «Sto usando i motori, consumando energia.»

«Arrivati all’arteriola, saremo ancora rivolti controcorrente e non potremo girare. Torneremo al punto di partenza. Bisognerà girare ancora la nave dall’esterno. Non posso farlo io. Capito?... Non posso farlo io!»

La Kaliinin gli circondò le spalle con un braccio. «Shhh. È tutto a posto. Non lo farai tu.»

«Non lo farà nessuno, Albert, amico mio» disse Dezhnev allegramente. «Guarda di fronte a te. Stiamo arrivando all’arteriola.»

Morrison alzò lo sguardo e sentì una fitta dolorosa. Doveva aver fatto una smorfia, perché la Kaliinin gli mise una mano fresca sulla fronte e gli chiese: «Come va il tuo mal di testa?»

«Meglio» rispose Morrison, scuotendo via la mano come gli desse particolarmente fastidio. Guardando avanti, notò con sollievo che la sua vista sembrava normale. Il tunnel cilindrico di fronte stava allargandosi e al di là di un bordo ellittico si scorgeva una parete lontana in cui il contorno delle cellule era molto meno pronunciato.

Morrison disse: «Il capillare si stacca dall’arteriola come il ramo di un albero, formando un angolo obliquo. Attraverseremo quell’apertura e saremo rivolti controcorrente per tre quarti. E quando toccheremo la parete dell’arteriola rimbalzeremo e ci gireremo del tutto nella direzione sbagliata.»

Dezhnev ridacchiò. «Mio padre diceva: “Avere mezza immaginazione è peggio che non averla”... Osserva, Albert caro. Aspetterò che siamo quasi all’apertura e ridurrò la spinta del motore così risaliremo la corrente molto lentamente. Bene, adesso la nave mette il muso fuori dal capillare... piano... ancora un po’... ancora un pochino... e il flusso dell’arteriola ci investe, spinge il muso e ci fa girare... io faccio avanzare ancora un po’ la nave, e la corrente ci fa girare un altro po’... e quando usciamo completamente dal capillare... miracolo!... ho girato la nave nella direzione giusta e spengo i motori.» Sorrise trionfante. «Ben fatto, eh?»

«Ben fatto» disse la Boranova. «Ma impossibile senza l’intervento precedente di Albert.»

«È vero» ammise Dezhnev agitando la mano. «Gli concedo tutto il merito e l’Ordine di Lenin... se lo accetta.»

Morrison provò un sollievo enorme. Non avrebbe dovuto uscire di nuovo. «Grazie, Arkady» disse. Poi, timidamente, aggiunse: «Sai, Sophia, ho ancora sete.»

Lei gli porse subito la bottiglia, ma Morrison esitò. «Sicura che non stia bevendo più della mia parte, Sophia?»

«Certo che stai bevendo più della tua parte, Albert» disse la Kaliinin. «Ma ti spetta più della tua parte. Tanto, l’acqua si ricicla facilmente. E inoltre, abbiamo una piccola scorta extra. Non ti sei inserito bene nel comparto stagno. Avevi un gomito che sporgeva all’esterno, e abbiamo dovuto forzare lo strato interno per tirarlo dentro... quindi è entrato un po’ di plasma. Non molto, grazie alla sua viscosità. Naturalmente si è miniaturizzato, e adesso lo stiamo riciclando.»

«Dopo la miniaturizzazione, sarà sì e no una goccia.»

«Infatti» sorrise la Kaliinin. «Ma una goccia è pur sempre una scorta extra, e dato che l’hai portata dentro tu, spetta a te. La logica è logica.»

Morrison rise e succhiò l’acqua avidamente, spremendola dal contenitore flessibile come gli astronauti. Cominciava a sentirsi abbastanza normale... anzi, più che normale. Provava la contentezza quasi irreale di chi è appena uscito da una situazione insopportabile.

Cercò di concentrarsi, di tornare alla realtà. Era ancora sulla nave. Aveva ancora le dimensioni di un batterio, grosso modo. Era ancora nel flusso sanguigno di un uomo in coma. Le sue probabilità di sopravvivenza per le prossime ore erano ancora problematiche... Eppure, anche pensando a tutte quelle cose, non riusciva a scrollarsi di dosso la convinzione che la semplice assenza di calore insopportabile, il semplice fatto di essere insieme ad altre persone, la semplice presenza delle premure di una donna, fossero di per sé sensazioni paradisiache.

Disse: «Non ringrazio solo Arkady... vi ringrazio tutti per avermi tirato dentro ed esservi occupati di me.»

«Figurati» fece Konev indifferente. «Abbiamo bisogno di te e del tuo programma. Se ti avessimo lasciato là fuori, il progetto sarebbe fallito, anche se avessimo trovato la cellula giusta.»

«Può darsi, Yuri» disse indignata la Boranova «ma quando stavamo recuperando Albert, non ho pensato a queste cose, ma solo a salvargli la vita. Pur conoscendoti, stento a credere che tu sia stato tanto insensibile da non provare la minima apprensione per un essere umano che stava rischiando la vita per aiutarci, e che tu ti sia preoccupato solo del fatto che quell’essere umano ci serviva.»

«È ovvio che la ragione pura e semplice è indesiderata» borbottò Konev.

La ragione era sicuramente la cosa che Morrison invece desiderava. Da quando aveva sentito parlare di lesioni cerebrali, si era esaminato, pensando, cercando di raggiungere delle conclusioni. Disse: «Arkady, quando i motori a microfusione sono in funzione, trasformiamo idrogeno miniaturizzato in elio miniaturizzato, e una parte dell’elio si disperde con il vapore acqueo miniaturizzato o altre sostanze impiegate per la propulsione.»

«Sì» disse Arkady circospetto. «E allora?»

«E le particelle miniaturizzate, atomi e subparticelle, attraversano il corpo di Shapirov, la Grotta, la Terra, e finiscono nello spazio esterno, come hai detto tu.»

«Va bene... e allora?»

«Sicuramente, non rimangono miniaturizzate. Non stiamo avviando un processo in cui l’Universo si riempirà gradualmente di particelle miniaturizzate man mano che l’umanità utilizzerà la miniaturizzazione in modo sempre più massiccio, vero?»

«E anche se fosse, che male ci sarebbe? Miliardi di anni di attività umana non potrebbero disseminare nell’Universo una quantità significativa di particelle miniaturizzate. Comunque non accade. La miniaturizzazione è uno stato metastabile, il che significa che c’è sempre la possibilità che una particella miniaturizzata riacquisti spontaneamente la vera stabilità, cioè torni allo stato non miniaturizzato.» (Con la coda dell’occhio, Morrison vide che la Boranova alzava una mano in segno di avvertimento, ma quando Dezhnev cominciava a parlare a briglia sciolta non era facile fermarlo.)

«Naturalmente» continuò Dezhnev «non si può prevedere quando una particolare particella miniaturizzata si espanderà, ma si può stare sicuri che quasi tutte saranno già oltre la Luna quando accadrà. Per quanto riguarda le poche particelle che escono quasi subito dalla miniaturizzazione... sì, qualcuna c’è sempre... il corpo di Shapirov è in grado di assorbirla.»

Fu a quel punto che parve accorgersi del gesto della Boranova, fattosi nel frattempo perentorio «Ah, ma ti sto annoiando» disse. «Come disse mio padre in punto di morte: “I miei proverbi vi avranno annoiato, però adesso finalmente non li sentirete più, così mi piangerete meno e quindi soffrirete meno”. Il vecchio genitore sarebbe rimasto sorpreso, e magari deluso, se avesse saputo quanto abbiamo pianto noi bambini, malgrado tutto... Ma io preferisco non approfittare del buon cuore dei miei compagni di viaggio...»

«Appunto» scattò Konev «quindi smettila, per favore, soprattutto dal momento che ci stiamo avvicinando al capillare in cui dobbiamo entrare. Albert, sporgiti e studia la cerebrografia. D accordo?»

La Kaliinin, rivolgendosi come sempre alla Boranova, disse: «Nelle sue condizioni Albert non può essere tormentato con delle cerebrografie.»

«Lasciami provare» disse Morrison, armeggiando con la cintura.

«No» fece autoritaria la Boranova. «Yuri può assumersi la responsabilità di questa decisione.

«D’accordo» disse Konev imbronciato. «Arkady, puoi avvicinarti alla parete destra e inserirti nella corrente che svolta nel capillare?

Arkady rispose: «Ho corso coi globuli rossi e ne ho raggiunto uno che sta spostandosi verso la parete destra. Ci spingerà... o il piccolo mulinello che lo spinge spingerà anche noi... Ah, visto, succede proprio così, come le altre volte che abbiamo dovuto prendere una diramazione. Ogni volta sono riuscito a sfruttare correttamente la corrente naturale.» Un ampio sorriso gli increspò la faccia felice. «Applaudite. E dite: “Bravo, Arkady”.»

Morrison lo accontentò e disse: «Bravo, Arkady.» E la nave entrò nel capillare.

 

 

47

 

Morrison si era ripreso a sufficienza ed era stanco del suo ruolo di invalido. Oltre lo scafo trasparente, la parete del capillare era suddivisa in tante mattonelle cellulari molto evidenti, e sembrava piuttosto vicina su ogni lato. Era molto simile all’altro capillare, quello in cui lui aveva girato la nave.

«Voglio vedere la cerebro grafia» disse.

Sganciò la cintura del sedile, il primo gesto risoluto da quando era tornato a bordo, e mentre lo faceva fissò con espressione ribelle la Kaliinin che lo osservava allarmata.

Si spinse adagio verso l’alto, e si mise in posizione per guardare oltre le spalle di Konev con ripetute correzioni... prima in su, poi in giù. «Come sai che siamo in quello giusto, Yuri?» chiese.

Konev alzò lo sguardo. «Coi calcoli e col punto stimato. Guarda... Se riduciamo la scala della cerebrografia, questa è l’arteriola che abbiamo seguito dalla carotide. Abbiamo preso questa diramazione, e questa, poi si tratta solo di contare i capillari che si ramificano sulla destra.

«Qui abbiamo bisticciato con il globulo bianco, e nel tempo che ha avuto a sua disposizione, il globulo può avere raggiunto solo questo capillare. Dopo l’inversione di direzione siamo tornati nell’arteriola, abbiamo seguito la sua struttura che andava restringendosi, confrontandola con la cerebrografia. La serie di diramazioni incontrate corrispondeva quasi alla perfezione con lo schema della cerebrografia, e solo questo fatto mi garantisce che stiamo seguendo la rotta giusta. Adesso siamo entrati in questo capillare.»

La sinistra di Morrison scivolò dalla superficie liscia dello schienale del sedile di Konev, e nel tentativo di rimediare Morrison finì in una comica verticale sulle dita tese della mano destra. Mentre si dava da fare per raddrizzarsi, pensò furibondo che le versioni successive della nave avrebbero dovuto essere dotate, tra l’altro, di sostegni sui sedili e in altri punti strategici.

Ansimando, disse: «E dove ci porterà questo capillare?»

Konev rispose: «In uno dei centri che a tuo avviso rappresentano. Un crocevia dei processi di pensiero astratto... Riduciamo ancora la scala della cerebrografia... Ecco, qui.»

Morrison annuì. «Ricorda che li ho localizzati negli esseri umani solo indirettamente, basandomi sui miei studi del cervello degli animali. Comunque, se ho ragione, quello dovrebbe essere il nodo scettico esterno superiore.»

«Stando a quanto affermi, i nodi di questo tipo dovrebbero essere otto, quattro per lato. Questo comunque è il più grande e il più intricato del lato sinistro, quindi è più probabile che possa fornirci i dati che ci occorrono. Dico bene?»

«Credo di sì» rispose cauto Morrison. «Ma, per favore, ricorda che le mie teorie non sono state accettate dalla comunità scientifica.»

«E adesso cominci a dubitarne anche tu, Albert?»

«La prudenza è un atteggiamento scientifico ragionevole, Yuri. Il mio concetto del nodo scettico ha senso correlato alle mie osservazioni, però non ho mai potuto verificare la questione direttamente... ecco tutto... E non vorrei che dopo diceste che vi ho tratto in inganno.»

Dezhnev soffocò una risatina. «Nodo scettico! Non c’è da meravigliarsi se i tuoi compatrioti sono scettici riguardo questa teoria, Albert. Mio padre diceva: “La gente è già fin troppo pronta a ridere di te, non incoraggiarla con delle smorfie”... Perché non l’hai chiamato “nodo del pensiero” in chiaro e semplice russo? Avrebbe avuto un suono molto, migliore.»

«O “nodo del pensiero” in inglese» disse Morrison paziente. «Ma la scienza è internazionale, e si usa il greco o il latino se è possibile. “Pensiero” in greco si dice “skeptis”, da cui deriva scettico sia in inglese che in russo per indicare un atteggiamento abituale di dubbio... proprio perché il dubbio implica pensiero. Sicuramente saprete tutti che il modo più efficace di accettare gli stupidi dogmi che ci propina l’ortodossia sociale è quello di astenersi dal pensare.»

A quelle parole ci fu un silenzio imbarazzato, al che Morrison (dopo aver lasciato che il significato della frase aleggiasse nell’aria per un periodo sufficiente, con una punta di cattiveria) soggiunse: «Come sanno gli esseri umani in tutte le nazioni.»

La tensione si allentò subito percettibilmente e Dezhnev disse: «In tal caso, vedremo quanto dobbiamo essere scettici riguardo il nodo scettico, quando ci arriveremo.»

«Spero che non la consideri una cosa su cui scherzare, buffone» borbottò Konev rabbuiandosi. «Quel nodo è il punto che forse ci permetterà di captare i pensieri di Shapirov. In caso contrario, questa impresa sarà stata inutile.»

Dezhnev disse: «A ciascuno il suo compito. Io ti porterò là, manovrando abilmente la nave. Una volta arrivati, tu capterai i pensieri... o lo farà Albert, se tu non ci riuscirai. E se sarai in gamba coi pensieri come io lo sono con la nave, non avrai motivo di rattristarti. Mio padre diceva...»

«Tuo padre sta meglio dov’è» disse Konev. «Non riesumarlo ancora.»

«Yuri» intervenne brusca la Boranova» hai detto una cosa molto offensiva. Devi chiedere, scusa.

«Non importa» disse Dezhnev. «Mio padre diceva: “Il momento di offendersi arriva quando un uomo, dopo essersi calmato, ripete un insulto lanciato in preda alla collera”... Non sono sicuro di poter seguire sempre quel consiglio, ma in onore di mio padre, questa volta sorvolerò sulle stupide parole di Yuri.» Si chinò sui comandi, l’espressione truce.

Morrison aveva seguito l’alterco (una semplice sgarberia di Konev, evidentemente perché era sottoposto a una tensione notevole) solo in modo distratto. La sua mente tornò a qualcos’altro, alle chiacchiere disinvolte di Dezhnev e alla mano ammonitrice della Boranova.

Si abbassò sul sedile, agganciò la cintura per stabilizzarsi, e si girò verso la Boranova. «Natalya! Una domanda.»

«Sì, Albert?»

«Quelle particelle miniaturizzate sprigionate nell’Universo normale...»

«Sì, Albert?»

«Alla fine, si deminiaturizzano.»

La Boranova esitò. «Come ti ha detto Arkady, sì.»

«Quando?»

Lei si strinse nelle spalle. «È imprevedibile. Come il decadimento radioattivo di un singolo atomo.»

«Come lo sapete?»

«Perché è così.»

«Voglio dire, che esperimenti avete fatto? Nulla è mai stato ridotto al nostro livello attuale di miniaturizzazione, quindi non potete sapere cosa accade a particelle tanto miniaturizzate per osservazione diretta.»

«Abbiamo studiato i livelli di miniaturizzazione che abbiamo raggiunto, e in questo modo abbiamo individuato quelle che dovrebbero essere le leggi del comportamento degli oggetti miniaturizzati. Le nostre estrapolazioni...»

«Le estrapolazioni non sono sempre affidabili quando escono troppo dal campo dello studio diretto.»

«È vero.»

«Hai paragonato la deminiaturizzazione spontanea al decadimento radioattivo. La deminiaturizzazione ha un semiperiodo? Anche se non siete in grado di dire quando una particolare particella miniaturizzata si deminiaturizzerà, siete in grado di dire quando si deminiaturizzerà la metà di un numero piuttosto grande di tali particelle?»

«Abbiamo dei dati semiperiodici, e pensiamo che siano espressioni di reazioni cinetiche di prim’ordine, come i semiperiodi radioattivi.»

Morrison chiese: «Potete generalizzare da un tipo di particella a un altro?»

La Boranova arricciò le labbra e, per un attimo, parve immersa nei propri pensieri. Infine rispose: «Sembra che il semiperiodo di un oggetto miniaturizzato sia inversamente proporzionale all’intensità di miniaturizzazione e anche alla massa normale dell’oggetto.»

«Dunque, più ci miniaturizziamo, minore è la durata probabile della miniaturizzazione... e più piccoli siamo in partenza, minore è la durata probabile della miniaturizzazione.»

«Esatto» confermò asciutta la Boranova.

Morrison la fissò serio. «Ammiro la tua integrità, Natalya. Non sei ansiosa di rivelarmi le cose. Non dai informazioni spontaneamente. Però non arrivi al punto di darmi informazioni false.»

«Sono un essere umano e a volte dico bugie per necessità o perché la mia personalità e le mie emozioni non sono perfette. Ma sono anche una scienziata, e non traviserei mai dei dati di fatto scientifici se non per motivi più che impellenti.»

«Dunque, in conclusione, anche questa nave, per quanto molto più massiccia di un nucleo di elio, ha un semiperiodo, o periodo di dimezzamento.»

«Molto lungo» si affrettò a precisare la Boranova.

«Ma il fatto che siamo miniaturizzati a un livello così intenso ha ridotto questo semiperiodo molto lungo.»

«Che resta comunque lungo.»

«E i componenti individuali della nave? Le molecole dell’acqua che beviamo, le molecole d’aria che respiriamo, i singoli atomi che compongono il nostro corpo? Potrebbero avere... devono avere... un semiperiodo cortis...»

«No!» esclamò la Boranova, sembrando risollevata ora che poteva negare qualcosa. «Il campo di miniaturizzazione si sovrappone quando si tratta di particelle sufficientemente unite e reciprocamente immobili, o quasi immobili. Un corpo esteso, come questa nave e tutto ciò che contiene, equivale a una particella grande ma singola, e ha un semiperiodo di deminiaturizzazione conforme. Qui la miniaturizzazione è diversa dalla radioattività.»

«Ah» fece Morrison «però quando sono uscito non ero più in contatto con la nave! Forse ero una particella separata, con una massa molto più piccola rispetto alla nave e al suo contenuto, con un semiperiodo molto più piccolo di quello che abbiamo ora, no?»

«Non so di preciso se la distanza tra te e la nave sia stata sufficiente a renderti un corpo separato. Può darsi, nel periodo di tempo in cui non eri in contatto.»

«Dunque allora avevo un semiperiodo più corto... molto più corto.»

«Può darsi... del resto hai interrotto il contatto solo per qualche minuto.»

«Be’, qual è il semiperiodo di questa nave al livello attuale di miniaturizzazione?»

«Non si può parlare di semiperiodo di un singolo oggetto.»

«Già, perché i semiperiodi sono statistici. Per qualsiasi particella la deminiaturizzazione può avvenire, spontaneamente, in qualsiasi momento, anche dopo pochissimo tempo, anche se il semiperiodo di un grande numero di particelle identiche è piuttosto lungo.»

«Se il semiperiodo statistico è lungo, è improbabile che la deminiaturizzazione spontanea si verifichi entro pochissimo tempo.»

«Improbabile, ma non impossibile, vero?»

«No» rispose la Boranova. «Non è impossibile.»

«Quindi potremmo deminiaturizzarci di colpo tra cinque minuti, o addirittura tra un minuto, o tra un secondo.»

«In teoria.»

«Lo sapevate tutti?» Morrison si guardò attorno. «Certo che lo sapevate tutti. Perché non mi è stato detto?»

La Boranova rispose: «Siamo volontari, Albert Lavoriamo per la scienza e per la nostra nazione. Conosciamo tutti i pericoli e li accettiamo. Tu sei stato costretto a partecipare a questa impresa, e non hai le nostre motivazioni. Se fossi stato al corrente di tutti i pericoli, forse ti saresti rifiutato di salire a bordo volontariamente... e anche se ti avessimo trascinato a bordo con la forza, forse non ci saresti stato di alcun aiuto, essendo bloccato dal...» Si interruppe.

«Dalla paura, stavi per dire» concluse Morrison. «Mi pare di avere il diritto di avere paura..Ne ho ben donde.»

La Kaliinin intervenne, la voce leggermente alterata. «È ora di smetterla di insistere sulla paura di Albert, Natalya. È lui che è uscito dalla nave con una tuta inadeguata. È lui che ha girato la nave rischiando la vita. Dov’era la sua paura allora? Se ne aveva, l’ha soffocata dentro di sé e non ha permesso che gli impedisse di fare quello che bisognava fare.»

Dezhnev disse: «Eppure proprio tu in passato non esitavi a dire che gli americani erano tutti dei vigliacchi.»

«Mi sbagliavo. Parlavo in modo ingiusto, e chiedo scusa ad Albert.»

Fu allora che Morrison colse lo sguardo di Konev. Konev si era girato sul sedile e gli lanciava occhiate minacciose. Morrison non pretendeva di essere un genio nel decifrare le espressioni del volto, però in questo caso non ebbe dubbi e intuì subito da cosa fosse tormentato Konev. Quell’uomo era geloso... la sua era una gelosia rabbiosa e impressionante.

 

 

48

 

La nave continuò la sua lenta avanzata lungo il capillare verso la destinazione indicata da Konev: il nodo scettico. Non si affidava alla corrente, che adesso era lentissima. I motori erano in funzione, come Morrison poteva dedurre da due particolari. Innanzitutto, la nave era più stabile procedendo in modo attivo che non andando alla deriva, e questo attenuava ulteriormente l’effetto già quasi impercettibile del moto browniano. In secondo luogo, la nave sorpassava un globulo rosso dopo l’altro.

Nella maggior parte dei casi, i globuli rossi venivano sospinti di lato e rotolavano tra lo scafo e la parete, rimanendo indietro. Di tanto in tanto, però, qualche globulo rosso veniva centrato in pieno dalla prua, e spinto in avanti fino a scoppiare. I resti galleggiavano in direzione opposta, senza macchiare lo scafo. Con almeno cinque milioni di globuli rossi per millimetro cubo di sangue, il numero delle vittime era trascurabile, e Morrison si era abituato a quella carneficina.

Era meglio pensare ai globuli rossi che alla possibilità di deminiaturizzarsi spontaneamente. Morrison sapeva che erano scarse le probabilità di un’espansione esplosiva entro brevissimo termine... e anche se fosse successo sarebbe stato soltanto un “blackout” improvviso. La morte per surriscaldamento del cervello sarebbe stata così rapida da risultare inavvertibile.

Poco tempo prima, Morrison si era surriscaldato molto più lentamente nel flusso sanguigno. Si era sentito morire. Dopo quell’esperienza, la morte istantanea non lo terrorizzava più.

Comunque, preferiva pensare ad altro.

Lo sguardo di Konev! Cos’era che ribolliva in lui e lo lacerava? Aveva abbandonato Sophia con indicibile crudeltà. Pensava davvero che la bambina non fosse sua? Alla gente la ragione non serviva per giungere a una conclusione emotiva, e il sospetto di sbagliarsi originava un atteggiamento di difesa che portava a rafforzare definitivamente la conclusione raggiunta. Una situazione patologica. Bastava pensare a Leonte nel Racconto d’inverno. Shakespeare inquadrava sempre alla perfezione certe situazioni. Konev respingeva Sophia e la odiava per il torto che le aveva fatto. La spingeva tra le braccia di un altro uomo e la odiava per questo... ed era anche geloso, poi.

E lei? Era al corrente di quella gelosia e ne approfittava? Che intendesse servirsi di Morrison, un americano, per distruggere Konev?... Strofinando teneramente l’americano con la salvietta umida... difendendolo in continuazione... con Konev sempre presente, naturalmente.

Morrison serrò le labbra. Non gli piaceva fare la pallina da tennis, essere sballottato tra i due contendenti per produrre la massima sofferenza.

Non erano affari suoi, in fin dei conti, e non doveva prendere partito. Ma come poteva evitarlo? Sophia Kaliinin era una donna attraente mossa da un tacito dolore. Yuri Konev era un individuo cattivo e corrucciato, mosso da una rabbia soffocata. Morrison non poteva fare a meno di apprezzare Sophia e detestare Konev.

Notò allora che la Boranova lo fissava con aria grave, e si chiese se stesse male interpretando il suo silenzio assorto. Pensava che stesse rimuginando sulla possibilità di morire a causa della miniaturizzazione... mentre lui invece si sforzava coraggiosamente di non farlo?

Evidentemente la Boranova lo pensava proprio, perché d’un tratto disse: «Albert, nessuno di noi è uno sconsiderato. Io ho un marito. Ho un figlio. Voglio tornare da loro viva, e intendo riportare a casa vivi tutti quanti. Voglio che tu lo capisca.»

«Le tue intenzioni sono buone, non ne dubito» disse Morrison. «Ma cosa puoi fare in caso di una deminiaturizzazione, trattandosi di qualcosa di spontaneo, imprevedibile, inarrestabile!»

«Spontaneo e imprevedibile, d’accordo... ma chi ha detto che il fenomeno sia inarrestabile?»

«Puoi arrestarlo, allora?»

«Posso provare. Ognuno ha un compito, qui. Arkady manovra la nave. Yuri la guida a destinazione. Sophia provvede alla struttura elettrica dello scafo. Tu studierai le onde cerebrali. Per quanto riguarda me, io me ne sto seduta qua dietro a decidere... finora la mia decisione più importante è stata sbagliata, lo ammetto... a decidere e a controllare il flusso termico.»

«Il flusso termico?»

«Sì. Prima che si verifichi la deminiaturizzazione, c’è una piccola emanazione di calore, che presenta caratteristiche precise. È questa emissione ad avere un effetto destabilizzante; sposta il delicato equilibrio e, dopo un breve intervallo, avvia il processo di deminiaturizzazione. Quando accade, se sono abbastanza rapida, posso intensificare il campo miniaturizzante in maniera tale da riassorbire il calore e ristabilire la metastabilità.»

Morrison osservò dubbioso: «E questo è mai stato fatto... fatto in condizioni di impiego reale? O è solo teoria?»

«È stato fatto... a livelli di miniaturizzazione molto minori, naturalmente. Tuttavia, mi sono allenata e ho i riflessi pronti. Spero di non lasciarmi cogliere alla sprovvista.»

«È stata la de miniaturizzazione spontanea a mandare in coma Shapirov, Natalya?»

La Boranova esitò. «In realtà non sappiamo se sia stato un incontro sfortunato con le leggi della natura o un errore umano... o entrambe le cose. Forse si è trattato solo di un’oscillazione lievemente più grande del solito dal punto di equilibrio metastabile. Non posso analizzare dettagliatamente la cosa con te, perché ti mancano le basi necessarie di fisica e matematica della miniaturizzazione, basi che io non ho il permesso di rivelarti.»

«Capisco. Materiale riservato.»

«Naturalmente.»

Dezhnev li interruppe. «Natasha, abbiamo raggiunto il nodo scettico... almeno, così dice Yuri.»

«Allora fermati ordinò la Boranova.»