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Le infermiere sono state gentili. Mi hanno curato con efficienza e sono state pazienti, anche quando continuavo a chiedere se Ian fosse morto.

«È finita» dice il dottore. «Adesso cerchi di riposare».

Non provo sollievo né un senso di liberazione, solo una stanchezza devastante che non mi abbandona. Patrick resta al mio fianco per tutto il tempo. Durante la notte mi sveglio di soprassalto e lo trovo lì, pronto a placare i miei incubi. Alla fine accetto i sedativi che mi offre l’infermiera. Sento che Patrick parla al telefono, ma scivolo nel sonno prima di potergli chiedere chi sia.

Al mio risveglio, si sta facendo giorno. I raggi del sole filtrano attraverso le persiane, tracciando linee orizzontali sul mio letto. C’è un vassoio sul tavolino.

«Il tè ormai sarà freddo» dice Patrick. «Vado a vedere se possono portartene un’altra tazza.

«Non c’è problema». Cerco faticosamente di mettermi a sedere, il collo mi fa male. Il telefono di Patrick fa un trillo e lui lo prende per leggere un messaggio.

«Che succede?».

«Niente». Cambia argomento. «Il dottore dice che avrai dolori per qualche giorno, ma non c’è niente di rotto. Ti hanno applicato del gel per curare le ustioni da candeggina, dovrai continuare a metterlo, per impedire alla pelle di seccarsi».

Sposto le gambe per fargli posto sul letto accanto a me. Ha un’espressione angosciata, mi dispiace avergli dato tante preoccupazioni. «Sto bene. Davvero, voglio solo tornare a casa».

Mi scruta in cerca di risposte: vuole capire che cosa ne sarà di noi. Non ne ho idea, so solo che non posso fidarmi del mio giudizio. Mi sforzo di sorridere e poi chiudo gli occhi, più per evitare il suo sguardo che per il bisogno di dormire.

Mi sveglio al rumore di passi fuori dalla porta, spero che sia il dottore, ma poi sento Patrick.

«È qui. Vado al bar a prendere un caffè, così potete stare un po’ sole».

Non ho idea di chi possa essere. Mi ci vuole un po’ a capire, anche dopo che la porta si apre e una figura snella avvolta in un cappotto giallo dai bottoni enormi mi compare davanti.

Eve corre verso di me e mi abbraccia forte. «Mi sei mancata tanto!».

Restiamo così, fino a quando i singhiozzi si calmano. Poi ci sediamo a gambe incrociate sul letto, una di fronte all’altra, tenendoci le mani come se fossimo ancora bambine, nel nostro letto a castello.

«Hai tagliato i capelli» le dico. «Stai bene».

Si accarezza il caschetto liscio. «Credo che Jeff li preferisca lunghi, ma a me piacciono così. A proposito, ti manda i suoi saluti. E i bambini hanno fatto questo per te». Rovista nella borsa ed estrae un disegno stropicciato, piegato in due come un biglietto d’auguri. «Ho raccontato che eri in ospedale e si sono immaginati che avessi la varicella».

Guardo il disegno che mi ritrae a letto ricoperta di macchie e rido. «Mi mancano. Mi mancate tutti».

«Anche tu ci sei mancata». Respira a fondo. «Non avrei mai dovuto dirti quelle cose. Non ne avevo il diritto».

Ripenso a quando ero in ospedale, dopo la morte di Ben. Non avevano ancora portato via la culla accanto al mio letto; potevo vederla con la coda dell’occhio, sembrava lì per tormentarmi. Arrivò Eve. Non l’avevamo avvertita di quello che era successo, ma dalla sua espressione ho capito subito che era stata informata dalle infermiere. Aveva cercato di nascondere nella borsa un pacchetto per me, intravedevo la carta stropicciata e sgualcita. Forse un giorno avrebbe regalato il completino fatto a mano per mio figlio a un altro bambino.

In un primo momento era rimasta in silenzio, poi non era più riuscita a trattenersi.

«È stato Ian! È così, non è vero?».

Mi sono girata dall’altra parte, ho guardato la culla vuota e ho chiuso gli occhi. A Eve non era mai piaciuto, anche se lui era sempre stato molto attento a non mostrarsi per quello che era. Io ho sempre negato che ci fossero problemi: all’inizio ero troppo accecata dall’amore per vedere i difetti della mia relazione, e in seguito mi vergognavo ad ammettere di aver vissuto per tanto tempo accanto a un uomo che mi faceva del male.

In quel momento desideravo solo che Eve mi abbracciasse. Che mi tenesse stretta e alleviasse un po’ il dolore, un dolore così forte da non riuscire quasi a respirare. Ma mia sorella era arrabbiata: esigeva delle risposte, una ragione, un responsabile.

«È pericoloso» ha detto, e io a quel punto mi sono preparata alla sua tirata. «Tu puoi anche essere cieca ma io non lo sono. Avresti dovuto lasciarlo quando hai scoperto di essere incinta, forse adesso avresti ancora il tuo bambino. Sei responsabile anche tu».

L’ho guardata, incredula. Mi aveva ferito nel profondo. «Vattene» ho detto, la voce rotta ma determinata «La mia vita non è affar tuo e non hai il diritto di dirmi che cosa devo fare. Vattene! Non voglio più vederti».

Se n’era andata lasciandomi distrutta, stringevo il mio ventre vuoto. Non stavo male per le sue parole. Stavo male perché mia sorella aveva detto la verità: Ben era morto per colpa mia.

Nelle settimane successive, Eve provò a mettersi in contatto con me ma io mi sono sempre rifiutata di parlarle. Alla fine smise di provarci.

 

«Tu avevi capito com’era Ian. Avrei dovuto ascoltarti».

«Lo amavi» risponde semplicemente. «Proprio come la mam ma amava papà».

Mi metto a sedere. «Che cosa intendi?».

C’è un momento di silenzio, capisco che Eve sta riflettendo su quello che deve dirmi. Scuoto la testa, all’improvviso mi rendo conto. «La picchiava, è così?».

Lei annuisce in silenzio.

Penso al mio papà affascinante e intelligente, che mi raccontava sempre storie divertenti, che mi faceva volteggiare tenendomi per le braccia, anche quando ormai ero troppo grande per giochi di quel genere. Penso a mia madre: sempre silenziosa, inavvicinabile, fredda. Penso a quanto l’ho odiata per averlo mandato via.

«Ha sopportato per anni» dice Eve. «Un giorno, tornavo da scuola, sono entrata in cucina e l’ho sorpreso mentre la picchiava. Gli ho gridato di smetterla e lui si è girato e mi ha colpito in faccia».

«Oh, Dio, Eve!». Abbiamo ricordi di infanzia così diversi, è sconvolgente.

«Lui era turbato: ha detto che gli dispiaceva, che non sapeva che fossi lì, ma io avevo visto il suo sguardo prima che mi colpisse. In quel momento mi aveva odiata, credo che avrebbe potuto uccidermi. Da allora è scattato qualcosa nella mamma: gli ha detto di andarsene e lui ha obbedito senza fiatare».

«Dopo il corso di danza, sono tornata a casa e non c’era più». Ricordo il dolore che ho provato.

«La mamma lo minacciò di chiamare la polizia se si fosse avvicinato di nuovo a noi. Era distrutta, ma disse che aveva il dovere di proteggerci».

«Non me l’ha mai raccontato». Ma so che non gliene ho mai dato l’opportunità. Come ho fatto a non capire? Vorrei che mia madre fosse ancora viva, per scusarmi.

Mi sento scoppiare il cuore e comincio a singhiozzare.

«Lo so, tesoro, lo so». Eve mi accarezza i capelli come faceva quando eravamo bambine, poi mi prende tra le braccia e piange anche lei.

Si ferma un paio d’ore. Per tutto il tempo Patrick fa avanti e indietro dal bar alla mia stanza, non vuole che mi stanchi troppo.

Eve mi lascia una pila di riviste che non riuscirò a leggere e mi promette che verrà a trovarmi quando tornerò al cottage. Il dottore ha detto che ci vorranno ancora due o tre giorni.

Patrick mi prende la mano. «Iestyn ha mandato due ragazzi della fattoria a ripulire tutto. E ha detto che cambierà la serratura, così sarai l’unica ad avere la chiave». Deve aver visto la mia espressione preoccupata. «Metteranno tutto a posto, vedrai» aggiunge. «Sarà come se non fosse successo niente».

No, penso, non potrà mai essere così.

Ma anch’io gli stringo la mano e sul suo viso vedo solo onestà e gentilezza. Forse, nonostante tutto, la vita può continuare con un uomo come lui. La vita può essere bella.