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«Hai ucciso Jacob di proposito?» dico mettendo faticosamente insieme le parole. «Ma perché?».

«Avrebbe rovinato tutto. Se Anya mi avesse lasciato in pace, non sarebbe successo. È stata colpa sua».

Ripenso alla donna fuori dal tribunale, alle sue scarpe da tennis consunte. «Aveva bisogno di soldi?».

Ian ride. «I soldi erano il minore dei problemi. No, lei voleva un padre. Voleva che vedessi il bambino nei fine settimana, che gli comprassi dei fottuti regali di compleanno…». S’interrompe mentre io cerco di mettermi in piedi, aggrappandomi al lavandino e verificando che le gambe mi reggano. I piedi si stanno scaldando e pulsano. Guardo nello specchio ma non mi riconosco.

«Lo avresti scoperto» dice Ian. «Avresti scoperto di Anya. E mi avresti lasciato».

È dietro di me e mi posa le mani sulle spalle, con gentilezza. Ha l’espressione che ho visto tante volte dopo i pestaggi. Non mi ha mai chiesto scusa, ma ho sempre pensato che si sentisse in colpa.

Adesso capisco che aveva paura. Paura che lo vedessi finalmente per l’uomo che era davvero. Paura che smettessi di avere bisogno di lui.

 

Avrei amato Jacob, lo avrei accolto come un figlio. Avrei giocato con lui e gli avrei comprato dei giocattoli per farlo felice. E all’improvviso mi sento come se Ian mi avesse portato via non uno ma due bambini, e nelle loro vite spezzate trovo il coraggio che non ho mai avuto.

 

Chino la testa sul lavandino, fingendomi debole, poi la butto all’indietro di scatto con tutte le mie forze. Sento uno scricchiolio, il rumore di un osso fratturato.

Ian mi lascia andare e si porta le mani alla faccia, il sangue gli cola tra le dita. Corro oltre la camera, sul ballatoio, ma lui è più veloce e mi afferra il polso prima che riesca a scendere. Le dita sporche di sangue scivolano sulla mia pelle bagnata, riesco a liberarmi tirandogli una gomitata nello stomaco. Ma lui mi assesta un pugno che mi toglie il respiro. Non c’è luce e ho perso l’orientamento: da che parte sono le scale? Con il piede nudo trovo il profilo di metallo del primo gradino.

Sguscio sotto il braccio di Ian, faccio leva sulla parete e con il corpo lo spingo forte all’indietro. Lui emette un grido strozzato e perde l’equilibrio. Precipita dalle scale.

Silenzio.

Accendo la luce.

È a terra, immobile, a faccia in giù. Ha un taglio dietro la testa, da cui esce sangue. Resto a guardarlo, mentre il mio corpo è scosso da un tremito incontrollabile.

Mi attacco al corrimano e scendo piano le scale, senza mai smettere di guardarlo. Sull’ultimo gradino mi blocco. La schiena di Ian si solleva impercettibilmente.

Allungo una gamba e appoggio il piede sul pavimento accanto a lui, cauta come un bambino che gioca a Un, due, tre, stella!

Supero il suo braccio teso.

Mi afferra la caviglia e grido. Sono a terra e lui si trascina sopra di me, la faccia e le mani insanguinate. Cerca di parlare, ma non escono parole. Ha la faccia contorta per lo sforzo.

Mentre si tira su, piego il ginocchio e lo colpisco forte all’inguine. Lui si piega in due per il dolore, e io balzo in piedi. Corro alla porta e armeggio con il chiavistello, che per ben due volte mi scivola tra le dita. Finalmente riesco ad aprire. La sera è fredda e le nuvole oscurano il cielo, lasciando filtrare solo uno spicchio di luna argentata. Corro alla cieca. Non mi sono allontanata molto quando sento il passo pesante di Ian alle spalle, si lamenta, ha il respiro affannato.

Fa male correre sul sentiero sassoso a piedi nudi, ma mi sembra di aver guadagnato terreno. Cerco di trattenere il fiato per fare meno rumore possibile.

A un tratto sento le onde che si infrangono a riva e capisco di aver oltrepassato la strada per il campeggio. A questo punto ho solo due possibilità: prendere il sentiero che scende alla spiaggia oppure girare a destra e proseguire sulla scogliera allontanandomi da Penfach. È un sentiero che ho fatto molte volte con Beau, ma mai al buio; costeggia lo strapiombo e ho sempre temuto che lui potesse scivolare. Esito solo un secondo, ma il pensiero di restare intrappolata sulla spiaggia mi terrorizza: riuscirò a cavarmela se continuo a correre? Svolto a destra e seguo il sentiero. Si è alzato il vento e le nuvole si aprono, lasciando filtrare la luce della luna. Mi guardo alle spalle, il sentiero è libero. Rallento e mi fermo ad ascoltare. Si sente solo il rumore del mare, e il cuore comincia a calmarsi. Le onde s’infrangono sulla spiaggia, mentre in lontananza risuona la sirena di una nave. Riprendo fiato e cerco di capire dove mi trovo.

«Non puoi andare da nessuna parte, Jennifer».

Mi volto, ma non riesco a vederlo. Strizzo gli occhi nel buio, riesco a distinguere macchie di vegetazione; in lontananza intravedo una piccola costruzione, un rifugio per pastori.

«Dove sei?» grido, ma il vento si porta via le mie parole e le trascina verso il mare. Prendo fiato per gridare ancora, ma in un istante mi è alle spalle, mi serra la gola, mi trascina indietro fino a farmi soffocare. Gli tiro una gomitata nelle costole e la sua morsa si allenta, abbastanza da farmi riprendere fiato. Non morirò adesso, penso. Ho passato la vita a nascondermi, a scappare, ad avere paura, e adesso, quando finalmente mi sento al sicuro, lui è tornato per portarmi via tutto. Non glielo permetterò. Sento una scarica di adrenalina, cerco di divincolarmi e lui perde l’equilibrio. Riesco a liberarmi.

Ma non scappo. Sono scappata per troppo tempo.

Viene verso di me. Tendo il braccio e lo colpisco con la mano aperta sotto il mento. Indietreggia barcollando sul ciglio della scogliera. Prova ad afferrare la mia vestaglia, le dita sfiorano il tessuto. Grido e cerco di sottrarmi, ma perdo l’equilibrio. Per un momento penso che lo seguirò, che precipiterò in mare insieme a lui. Ma mi ritrovo sdraiata a faccia in giù sul ciglio dello strapiombo. Guardo in basso e faccio in tempo a scorgerlo per un ultima volta, il viso stravolto in una smorfia terrificante. Poi le onde lo inghiottono.