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Non mi hai mai perdonato per quella notte a Venezia.

Non hai mai perso l’espressione vigile, non ti sei mai più data completamente. Anche quando la ferita è guarita, e avremmo potuto dimenticare tutto, sapevo che non avevi smesso di pensarci. Mi ripetevi che era tutto a posto, ma non mi perdevi mai di vista, nemmeno quando mi alzavo per andare a prendermi una birra, e tentennavi sempre prima di rispondermi.

Per il nostro anniversario siamo usciti a cena. Avevo trovato un volume rilegato in pelle su Rodin in un negozio di libri antichi di Chapel Road. L’avevo incartato in un foglio di giornale con la data del nostro matrimonio.

«Nel primo anniversario si festeggiano le nozze di carta». I tuoi occhi si sono illuminati.

«È perfetto!». Hai ripiegato il foglio di giornale con cura e lo hai infilato nel libro. Ti avevo scritto una dedica: A Jennifer, ti amo ogni giorno di più. Mi hai dato un bacio sulle labbra, di slancio. «Anch’io ti amo» hai detto.

A volte non ne ero così sicuro, mentre io ti amavo così tanto. Avevo quasi paura: ero disposto a fare qualunque cosa per non perderti.

Se avessi potuto portarti su un’isola deserta, lontano da tutti, non avrei esitato un istante.

«Mi hanno chiesto di tenere un altro corso» hai detto mentre ci accompagnavano al tavolo.

«Quanto ti pagano?».

«Non molto, le tariffe sono ridotte, è un corso terapeutico, per malati di depressione. Ma è una cosa che sento di dover fare».

«Mi sembrano un mucchio di sciocchezze».

«C’è uno stretto legame tra la creatività e lo stato d’animo. Posso aiutare delle persone a stare meglio» hai detto. «E poi dura solo otto settimane. Lo incastrerò tra tutte le altre lezioni».

«Purché ti avanzi del tempo per lavorare». Le tue opere erano in vendita in cinque negozi della città.

«Ce la farò. Posso gestire gli ordini di routine, e per un po’ metterò un limite alle nuove commissioni. Non voglio insegnare per sempre, lo sai. L’anno prossimo ridurrò le ore».

«Be’, conosci il proverbio. Quelli che sanno fare fanno, e quelli che non sanno fare insegnano!». Ho riso

Tu non hai replicato.

Sono arrivate le nostre ordinazioni, il cameriere è stato molto premuroso con te, ha sfilato il tuo tovagliolo dal bicchiere e ti ha versato il vino.

«Ho pensato che forse dovrei aprire un conto separato per la mia attività» hai detto.

«Che bisogno c’è?» Non poteva essere una tua idea. Perché avevi parlato con degli estranei della gestione dei nostri risparmi?

«Se tenessi tutto sul mio conto, sarebbe più semplice fare la denuncia dei redditi».

«Sarebbero soltanto scartoffie in più». Ho tagliato in due la bistecca per controllare che fosse cotta al punto giusto e ho rimosso con cura il grasso, spostandolo in un angolo del piatto.

«Non è un problema».

«No, è più semplice se resta tutto sul mio conto. Sono io che pago il mutuo e le bollette».

«Sì, certo». Hai piluccato il risotto.

«Ti servono più contanti? Questo mese posso darti qualcosa in più per la casa se vuoi».

«Sì, magari».

«Per che cosa ti servono?».

«Pensavo di fare un po’ di shopping… Qualche vestito nuovo».

«Potrei venire con te. Lo sai come finisce, quando compri i vestiti: una volta arrivata a casa, ti accorgi che sono orribili e torni a restituirli quasi tutti». Ho riso, e ti ho stretto la mano. «Mi prendo un giorno di ferie, così passiamo un po’ di tempo insieme. Pranziamo fuori e saccheggiamo i negozi. Puoi usare la mia carta di credito. Che ne dici?».

Hai annuito e sono tornato a concentrarmi sulla bistecca. Ho ordinato un’altra bottiglia di vino rosso. Quando l’ho finita eravamo rimasti gli unici nel ristorante. Ho lasciato una mancia un po’ troppo generosa e sono caduto addosso al cameriere quando mi ha portato il cappotto.

«Mi dispiace, mio marito ha bevuto un po’ troppo».

Il cameriere ha sorriso educatamente. Ho aspettato che fossimo fuori dal locale e poi ti ho afferrato un braccio. «Non devi mai più scusarti per me».

Eri sconvolta. Non capivo come mai: non era quello che ti aspettavi?

«Scusami» hai detto. Ti ho lasciato andare il braccio e ti ho preso per mano.

Era tardi quando siamo arrivati a casa, sei andata dritta di sopra. Ho spento le luci e ti ho raggiunto, eri già a letto. Quando mi sono steso accanto a te, ti sei girata e mi hai baciato, accarezzandomi il petto.

«Mi dispiace. Io ti amo» hai detto.

Ho chiuso gli occhi, e ho aspettato che scivolassi giù tra le mie gambe. Sapevo che sarebbe stato inutile: avevo bevuto due bottiglie di vino e quando l’hai preso in bocca non è successo niente. Ti ho lasciato provare per un po’, poi ti ho spinto via.

«Non mi ecciti più» Mi sono voltato dall’altra parte. Ti sei alzata e sei andata in bagno. Mentre mi addormentavo, ho sentito che piangevi.

 

Non avevo programmato di tradirti dopo il matrimonio, ma tu a un certo punto non facevi più il minimo sforzo a letto. Puoi biasimarmi per aver cercato altre donne? Il massimo che mi offrivi tu era la posizione del missionario e non tenevi nemmeno gli occhi aperti. Ho cominciato a uscire il venerdì dopo il lavoro, rientrando a notte fonda, quando ne avevo abbastanza. Non sembrava che t’importasse. Dopo un po’ non tornavo nemmeno a dormire. Mi presentavo il sabato all’ora di pranzo e ti trovavo nel tuo studio; non mi chiedevi mai dov’ero stato e con chi. Era diventato una specie di gioco, volevo vedere quanto potevo spingermi in là prima che tu mi accusassi apertamente di esserti infedele.

Il giorno in cui ti sei decisa, stavo guardando una partita di football, Manchester United-Chelsea. Ero seduto con i piedi sul tavolino e una birra in mano. Ti sei piazzata davanti alla televisione.

«Vuoi levarti da lì? Sono ai supplementari».

«Chi è Charlotte?».

«Di cosa stai parlando?». Ho allungato il collo cercando di seguire un’azione.

«È scritto su una ricevuta che ho trovato nel tuo cappotto. C’è anche un numero di telefono. Chi è?».

Il Manchester United aveva segnato appena prima del fischio finale. Ho preso il telecomando e ho spento.

«Contenta?» Ho acceso una sigaretta, per dispetto.

«Ti dispiace andare a fumare fuori?».

«Sì, mi dispiace». Ti ho buttato il fumo in faccia. «Perché questa è casa mia, non tua».

«Chi è Charlotte?». Stavi tremando.

Sono scoppiato a ridere. «Non ne ho idea». Era la verità: quel nome non mi diceva niente. Poteva essere una delle tante…

«Sarà una cameriera che si è invaghita di me. Avrò messo via la ricevuta, senza accorgermi del numero di telefono». Ho risposto tranquillo, per nulla sulla difensiva. Vacillavi.

«Mi stai accusando di qualcosa?». Ho sostenuto il tuo sguardo e tu hai ceduto per prima, senza aggiungere altro. Per poco non ho riso. Era così facile avere la meglio su di te.

Mi sono alzato. Indossavi una canottiera, sotto non portavi il reggiseno, si vedevano chiaramente le forme dei capezzoli. «Sei uscita così?».

«Solo fino al negozio qui all’angolo».

«Con le tette di fuori? Vuoi che la gente pensi che sei una sgualdrina?».

Hai tentato di coprirti con le braccia ma io ti ho afferrato i polsi. «Gli estranei possono guardarti, ma io no, giusto? Deciditi, Jennifer: sei o non sei una puttana?».

«Non lo sono» hai detto piano.

«A me non sembra». Ho teso il braccio e ti ho schiacciato la sigaretta sul petto, tra i seni. Hai urlato, io ero giù uscito dalla stanza.