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Passano due settimane prima che abbia il coraggio di farmi vedere in giro; i lividi violacei sulle braccia adesso sono di un verde sbiadito. Fino a un paio di anni fa le contusioni erano parte di me, come il colore dei capelli. Adesso mi fanno impressione.
Ho finito il cibo per cani e sono costretta a uscire.
Lascio Beau a casa, così posso prendere l’autobus fino a Swansea e andare in un supermercato, dove sarò sicura di non essere notata nonostante lo sguardo basso e lo sciarpone al collo.
Imbocco il sentiero che porta al campeggio. Non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che qualcuno mi stia osservando. Controllo che non ci sia nessuno alle mie spalle. A un tratto mi sembra di aver sbagliato strada. Mi guardo intorno, il panico mi assale. Continuo a girare, la vista annebbiata da macchie scure. Sono in preda al terrore, la paura è così intensa che mi sento scoppiare il petto.
Procedo a tentoni, un po’ di corsa, un po’ camminando, e finalmente vedo le roulotte e lo spaccio di Bethan. Il cuore comincia a rallentare, lentamente riprendo il controllo.
In momenti come questo il pensiero della prigione è confortante.
Il parcheggio sarebbe riservato ai clienti del campeggio, ma la vicinanza alla spiaggia lo rende molto invitante. Bethan di solito è tollerante, tranne in alta stagione, quando espone grandi cartelli con scritto “parcheggio privato”, e si precipita fuori dallo spaccio ogni volta che compare l’utilitaria di qualche famiglia armata di tutto l’occorrente per fare un bel picnic. In questo periodo dell’anno il campeggio è chiuso, ci sono solo le macchine di escursionisti o di gente che porta i cani a passeggio.
«Tu puoi usufruirne, naturalmente» mi aveva detto Bethan al mio arrivo qui.
«Non ho una macchina» le avevo spiegato.
Lei aveva aggiunto che l’offerta valeva per chiunque fosse venuto a trovarmi. Ma nessuno mi faceva mai visita, a parte Patrick, che lasciava la sua Land Rover lì e poi raggiungeva il cottage a piedi. Allontano quell’immagine dalla mente prima che diventi troppo dolorosa.
Ci sono poche auto posteggiate. La Volvo malconcia di Bethan, un furgoncino che non riconosco e… Mi strofino gli occhi e scuoto la testa. Non è possibile. Quella non può essere la mia macchina. Comincio a sudare e ad ansimare. Il paraurti è ammaccato e al centro del parabrezza c’è una spaccatura simile alla tela di un ragno, grande quanto un pugno.
È la mia macchina.
Non capisco. Quando me ne sono andata da Bristol ho lasciato lì la macchina. Temevo che la polizia prima o poi la identificasse, ma soprattutto non ne sopportavo la vista.
Per un attimo penso che la polizia l’abbia portata qui per testare la mia reazione.
Mi guardo intorno, mi aspetto che spuntino agenti armati da ogni parte.
Ho di nuovo perso la lucidità. So che la macchina è importante per la polizia. Hanno insistito tanto, volevano sapere a ogni costo dove fosse finita.
Devo farla sparire.
Cerco di pensare ai film che ho visto. Potrei farla precipitare da una scogliera? Darle fuoco? Mi servono dei fiammiferi, del combustibile, anche solo della benzina. Ma non posso bruciarla qui nel parcheggio.
Guardo verso lo spaccio, Bethan non è alla finestra. Respiro a fondo e attraverso il parcheggio. Le chiavi sono nel cruscotto, apro la portiera e mi siedo al posto di guida. I ricordi mi assalgono all’istante: le urla della madre di Jacob e il mio grido di terrore. Comincio a tremare e mi sforzo di mantenere il controllo. La macchina parte al primo tentativo ed esco rapida dal parcheggio. Se Bethan guardasse fuori ora, vedrebbe solo un’auto che solleva una nuvola di polvere. Mi dirigo in paese.
«È bello essere di nuovo al volante?».
Sterzo a sinistra e inchiodo. Ho già la mano sulla portiera quando capisco che la voce viene dal lettore CD.
«Ho pensato che avessi nostalgia della tua macchinetta e te l’ho riportata. Non c’è bisogno che mi ringrazi».
È solo il suono della voce di Ian, ma a un tratto mi sento piccolissima e sprofondo nel sedile come se potessi scomparire.
«Hai dimenticato le tue promesse nuziali, Jennifer?».
Mi porto la mano al petto e premo forte, come per rallentare il battito impazzito del cuore.
«Mi hai guardato e hai promesso di amarmi, onorarmi e rispettarmi per il resto della nostra vita».
Si prende gioco di me, ripete quei voti come fossero una cantilena. È pazzo. Ora mi è chiaro. Ho vissuto con lui per anni senza sapere di cosa fosse davvero capace.
«Correre alla polizia a raccontare la tua storiella non significa onorarmi, vero, Jennifer? Spifferare che cosa succedeva tra le mura di casa nostra non equivale a rispettarmi. Ricorda, io ti davo solo ciò che volevi…».
Non posso sentire altro. Colpisco con forza l’autoradio e il CD fuoriesce con una lentezza estenuante. Cerco di distruggerlo, ma non si piega nemmeno. La mia espressione stravolta si riflette sulla sua superficie. Scendo dalla macchina, disperata, e lancio il CD tra le siepi.
«Lasciami in pace!» grido. «Devi lasciarmi in pace!».
Procedo febbrilmente lungo la strada che dal paese porta verso l’interno. Tremo in maniera incontrollabile, non sono neppure in grado di cambiare marcia; percorro tutta la strada in seconda, con il motore che arranca. Continuo a sentire le parole di Ian nella mia testa.
Per il resto della nostra vita.
Non molto lontano dalla strada c’è un fienile diroccato, nessuna casa intorno. Imbocco la strada sterrata, e mi accorgo che il tetto è crollato, le travi sono in vista. In un angolo ci sono pneumatici accatastati e alcuni attrezzi agricoli arrugginiti. È perfetto. Porto dentro la macchina e la parcheggio in un angolo. C’è un telone arrotolato per terra. Lo apro e l’acqua sporca raccolta tra le pieghe mi cade addosso. Lo stendo sull’auto, che scompare del tutto; nel fienile sembra tutto intatto.
Mi incammino verso casa, ripensando al giorno in cui sono arrivata a Penfach, senza nessuna certezza.
Ora invece so che cosa mi riserva il futuro: dovrò rimanere qui ancora due settimane, poi tornerò a Bristol per la sentenza e sarò al sicuro.
Raggiungo la fermata dell’autobus, ma vado oltre. Trovo conforto nel ritmo dei miei passi. A poco a poco comincio a calmarmi. Ian sta solo giocando con me. Se avesse voluto uccidermi, lo avrebbe fatto quel giorno nel cottage.
Arrivo a casa nel tardo pomeriggio, il cielo è scuro e minaccioso. Entro solo per infilarmi l’impermeabile ed esco subito con Beau, diretta alla spiaggia. Vicino al mare torno a respirare normalmente: ecco che cosa mi mancherà più di tutto.
La sensazione di essere osservata è opprimente. Mi volto verso la scogliera, c’è un uomo sul sentiero, e guarda verso di me. Chiamo Beau e lo afferro per il collare ma lui abbaia e si libera, corre verso il sentiero, verso quella figura immobile.
«Beau, vieni qui!».
Non mi ascolta e continua a correre. Io sono paralizzata. L’uomo si china per accarezzarlo e riconosco all’istante quei gesti. È Patrick.
Dovrei tenermi alla larga dopo il nostro ultimo incontro, ma provo un tale sollievo che, senza rendermene conto, seguo le impronte di Beau sulla sabbia e vado verso di loro.
«Come stai?» chiede.
«Bene». Siamo due estranei che cercano di fare conversazione.
«Ho lasciato dei messaggi».
«Lo so». Li ho ignorati tutti. Li ascoltavo, all’inizio, ma poi non sono più riuscita a sopportare il pensiero di quello che gli avevo fatto e li ho cancellati senza sentirli. A un certo punto ho spento il telefono.
«Mi manchi, Jenna».
Era più facile affrontare la sua rabbia. Ora è calmo e mi sta implorando, e la mia determinazione tentenna. «Non dovresti essere qui». Resisto alla tentazione di guardarmi attorno per controllare che nessuno ci osservi: sono terrorizzata all’idea che Ian ci veda insieme.
Sento una goccia di pioggia sul viso e tiro su il cappuccio. Patrick fa un passo in avanti. «Parlami, Jenna. Smetti di fuggire!».
Non ho fatto altro nella vita, sono sempre fuggita.
Un lampo squarcia il cielo e la pioggia scroscia così violenta che mi toglie il respiro.
In un attimo il cielo si oscura e le nostre ombre scompaiono. Beau si accuccia a terra, le orecchie basse.
Corriamo verso il cottage, un tuono fragoroso rimbomba mentre apro la porta. Beau corre di sopra, lo chiamo ma non risponde.
«Vado a vedere se sta bene». Patrick sale le scale, io chiudo a chiave e lo seguo. Lo trovo seduto per terra, con Beau in braccio che trema di paura. «Sono tutti uguali, dal più esile dei barboncini al mastino più robusto, hanno tutti paura dei tuoni e dei fuochi d’artificio».
Mi inginocchio anch’io e accarezzo Beau sulla testa. Lui uggiola appena.
«Quella cos’è?» chiede Patrick. La mia scatola di legno spun ta da sotto il letto.
«È roba mia» rispondo secca e con un calcio la spingo sotto.
Patrick sgrana gli occhi, ma non dice niente. Si alza e porta Beau di sotto. «Un po’ di musica lo farà sentire meglio». Mi parla in modo distaccato, come se fossi uno dei suoi clienti dell’ambulatorio. Forse lo fa per abitudine o forse ha deciso che ne ha abbastanza.
Sistema Beau sul divano, lo avvolge in una coperta e sintonizza la radio su una stazione di musica classica.
«Lo terrò io quando sarai via». Ora ha di nuovo un tono gentile.
Mi mordo il labbro.
«Lascialo qui. Non dovremo vederci, se non vuoi. Verrò a prenderlo e starà con me mentre tu sei…» si blocca. «Mentre tu non ci sei».
«Potrei stare via per anni». La mia voce mi s’incrina.
«Affronteremo un giorno alla volta». Si china verso di me e mi dà un bacio dolcissimo sulla fronte.
Gli do la chiave di scorta e Patrick se ne va senza aggiungere altro. Ricaccio indietro le lacrime che non ho alcun diritto di versare. Mi sono messa io in questa situazione e, per quanto sia dolorosa, è quello che merito. Ma qualche minuto dopo sento bussare alla porta, e ho un tuffo al cuore. Mi precipito ad aprire.
«Voglio che se ne vada» grida Iestyn senza preamboli.
«Che cosa?». Mi appoggio al muro. «Perché?».
Accarezza Beau, e senza guardarmi negli occhi, dice: «Domattina deve andarsene».
«Ma Iestyn, non posso! Conosce la mia situazione. Sono in libertà provvisoria e non posso allontanarmi da qui fino al processo».
«Non è un problema mio». Finalmente alza lo sguardo, ma i suoi occhi sono tristi. Scuote piano la testa. «Ascolti, Jenna, tutta Penfach sa che è stata arrestata per aver investito quel povero bambino e tutti sanno che vive nel mio cottage. Per come la vedono loro, io sono suo complice. È solo questione di tempo e succederà ben di peggio». Indica la scritta sulla porta, che nonostante gli sforzi non sono riuscita a cancellare. «Sterco di cane nella cassetta della posta, petardi, benzina. Tutte cose che si leggono sui giornali».
«Non so dove altro andare, Iestyn» lo supplico, ma lui è irremovibile.
«Il negozio in paese non compra più i miei prodotti, perché ospito un’assassina».
Sussulto.
«E questa mattina si sono rifiutati di servire Glynis. Finché ce l’hanno con me, passi, ma se cominciano a prendersela con mia moglie…».
«Solo pochi giorni, Iestyn» lo imploro. «Devo presentarmi in tribunale per la sentenza tra due settimane, e allora non mi vedrà più. La prego, mi lasci restare fino a quel giorno».
Infila le mani in tasca e guarda verso il mare per un momento. Aspetto, non c’è altro che io possa dire per fargli cambiare idea.
«Due settimane, non un giorno di più. E se ha un briciolo di buon senso, stia alla larga dal paese».