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La prima volta che ti ho visto eri seduta in un angolo nella sede dell’associazione studentesca. Non ti sei accorta di me, non subito, anche se ero molto diverso dagli altri: l’unico che indossava giacca e cravatta in mezzo a una folla di studenti. Circondata dalle tue amiche, ridevi così tanto che ti lacrimavano gli occhi. Ho preso un caffè e sono venuto a sedermi al tavolo accanto al vostro. Sfogliavo il giornale e vi ascoltavo: saltavate da un argomento all’altro senza una logica apparente, come accade sempre tra donne. Alla fine ho posato il giornale e vi ho osservato, ti ho osservato. Ho capito che eravate tutte studentesse del corso d’arte, e che tu frequentavi l’ultimo anno. Avrei dovuto dedurlo dalla tua disinvoltura, da come gridavi per chiamare altre amiche che stavano dalla parte opposta del locale. Ridevi senza preoccuparti di quello che la gente poteva pensare.

È stato così che ho scoperto il tuo nome: Jenna. All’inizio sono rimasto un po’ deluso. I tuoi magnifici capelli e la carnagione chiara ti davano un’aria preraffaellita e avevo immaginato qualcosa di più classico. Aurelia, o magari Eleanor. Eri comunque la più attraente del gruppo. Dovevate avere più o meno tutte la stessa età – una quindicina di anni meno di me, almeno – ma già allora sembravi molto matura. Ti sei guardata intorno, come se stessi cercando qualcuno; ti ho sorriso ma tu non mi hai notato e, qualche minuto dopo, mi sono alzato per andare alla mia conferenza.

Avevo accettato di tenere un ciclo di sei lezioni nell’ambito di un progetto per integrare la formazione universitaria con il mondo del lavoro. Erano lezioni piuttosto facili: alcuni studenti si addormentavano, altri erano attentissimi, seduti a bordo delle sedie per cogliere tutto quello che dicevo a proposito di imprenditorialità. Niente male per uno che all’università non ci è neppure andato. Tra gli iscritti c’erano diverse ragazze, fatto strano per un corso di gestione d’impresa. Non mi erano sfuggiti gli scambi di occhiate la prima volta che ero entrato in aula. Immagino che per loro fossi una piacevole novità: più grande dei compagni di corso, ma non così vecchio come i professori e i docenti regolari. Indossavo abiti sartoriali, camicie su misura con gemelli d’argento. Non avevo ancora tracce di grigio nei capelli né una pancia da nascondere sotto la giacca.

Durante la lezione, facevo pause studiate e mi fermavo a guardare negli occhi le studentesse, una diversa ogni volta. Loro arrossivano e sorridevano, prima di abbassare lo sguardo, e io proseguivo con l’esposizione. Mi divertivano le scuse con cui si trattenevano in aula alla fine della lezione. Inciampavano una nell’altra nel tentativo di raggiungermi prima che raccogliessi i miei libri e uscissi. Mi appoggiavo alla cattedra e mi chinavo per ascoltarle.

Quando capivano che non le avrei invitate a uscire, nei loro occhi vedevo spegnersi la fiamma della speranza. Non mi interessavano. Non quanto te.

La settimana dopo eri di nuovo lì con le tue amiche e quando sono passato davanti al tuo tavolo mi hai guardato e hai sorriso, non per educazione, un sorriso vero. Indossavi una canottiera azzurra, sotto cui si intravedeva la spallina e il pizzo di un reggiseno, e ampi pantaloni militari a vita bassa. In vita spuntava un lembo di pelle liscia e abbronzata. Mi sono chiesto se ne eri consapevole, se non ti dava fastidio.

I vostri discorsi spaziavano dagli esami ai ragazzi, anche se voi li chiamavate uomini. Le tue amiche parlavano a voce più bassa e dovevo sforzarmi per origliare. Mi aspettavo che ti unissi al coro, che raccontassi anche tu delle avventure di una sera e di cotte passeggere. Ma ti avevo giudicato bene, e dalle tue labbra sono uscite solo risate e frecciatine dirette alle tue amiche. Eri diversa.

Per tutta la settimana non ho fatto altro che pensare a te. In pausa pranzo venivo a passeggiare dalle parti dell’università sperando di incontrarti.

Una volta ho visto la tua amica, quella alta, con i capelli tinti; l’ho seguita per un po’ ma poi è entrata in biblioteca, forse avevate un appuntamento.

Il giorno della mia quarta lezione sono arrivato presto e sono stato premiato: eri lì da sola, al solito tavolo. Stavi leggendo una lettera e ho capito che avevi pianto, il mascara sbavato intorno agli occhi. So che non mi crederesti, ma eri ancora più bella. Ho preso un caffè e sono venuto al tuo tavolo.

«Posso sedermi?».

Hai infilato la lettera in borsa. «Prego».

«Ci siamo già visti, mi sembra» ho detto prendendo posto di fronte a te.

«Davvero? Mi spiace, non ricordo».

Era irritante che tu non ricordassi, ma eri sconvolta in quel momento e forse non eri in grado di pensare lucidamente.

«Sto tenendo un ciclo di lezioni». Avevo imparato che il fatto che appartenessi al corpo docenti esercitava un certo fascino sulle studentesse. Non saprei dire perché: forse volevano conoscere qualcuno che potesse “mettere una buona parola per loro” o semplicemente mi mettevano a confronto con i ragazzi poco più che adolescenti che frequentavano. Comunque funzionava sempre.

«Sul serio?». I tuoi occhi si sono illuminati. «Quale materia?».

«Gestione d’impresa».

«Oh». La scintilla si è spenta subito. Ho provato fastidio nel vederti liquidare così in fretta qualcosa di tanto importante. Difficilmente avresti potuto sfamare dei figli con la tua arte, o risollevare l’economia di una città.

«E che cosa fai quando non insegni?» hai chiesto.

Non avrei dovuto curarmi della tua opinione, e invece desideravo stupirti. «Ho un’azienda di software. Vendiamo programmi in tutto il mondo». Non ho accennato al fatto che Doug possedesse il sessanta per cento della società contro il mio quaranta. E non ho specificato che «in tutto il mondo» significava in Irlanda, al momento. Gli affari erano in crescita, come avevo già detto al direttore di banca al quale avevamo chiesto l’ultimo finanziamento.

«Frequenti l’ultimo anno, vero?» ti ho domandato per cambiare argomento.

«Sì, faccio…».

Ho alzato una mano. «Non dirmelo, lascia che indovini».

Hai riso, il gioco ti piaceva, e io mi sono preso un po’ di tempo fingendo di pensare, lasciando correre lo sguardo sul tuo vestito di lycra e sul foulard che portavi nei capelli. Eri più in carne, allora, e i seni riempivano il vestito tendendo il tessuto. Potevo vedere il profilo dei capezzoli. Avrei voluto sapere di che colore fossero, rosa o marrone.

«Arte» ho detto alla fine.

«Sì! Come hai fatto?».

«Sembri un’artista».

Non hai replicato, ma sei arrossita e non hai potuto fare a meno di sorridere.

«Ian Petersen». Ho teso la mano per stringere la tua; ho sentito la tua pelle fresca contro le mie dita e ho indugiato un istante più del necessario.

«Jenna Gray».

« È un nome insolito. È il diminutivo di…».

«Jennifer. Ma mi chiamano tutti Jenna». Non c’era più traccia delle lacrime e della vulnerabilità che avevo trovato tanto irresistibile.

«Non ho potuto fare a meno di notare che poco fa eri triste». Ho indicato la lettera che spuntava dalla borsa. «Hai ricevuto brutte notizie?».

Il tuo volto si è rabbuiato all’istante. «È di mio padre».

Sono rimasto in silenzio, fermo, e ho aspettato. Raramente le donne hanno bisogno di essere spronate per parlare dei loro problemi e tu non hai fatto eccezione.

«Se n’è andato quando avevo quindici anni, e da allora non l’ho più visto. Il mese scorso l’ho rintracciato e gli ho scritto, ma non vuole saperne di me. Dice che ha un’altra famiglia e che è meglio che “il passato resti passato”». Avevi un tono sarcastico ma non riuscivi a mascherare l’amarezza che provavi.

«È terribile. Come si può non desiderare di rivederti?».

Ti sei sciolta all’istante. «Peggio per lui» hai detto, anche se avevi di nuovo gli occhi lucidi e hai abbassato lo sguardo.

Mi sono avvicinato. «Posso portarti un caffè?».

«Sarebbe gentile da parte tua».

Quando sono tornato al tavolo ti avevano raggiunto alcuni amici. Due delle tre ragazze le avevo già viste. C’era anche un ragazzo con il piercing alle orecchie e i capelli lunghi. Avevano occupato tutte le sedie, e ho dovuto prenderne una dal tavolo accanto per potermi sedere con voi. Speravo che spiegassi ai tuoi amici che avevano interrotto la nostra conversazione, ma ti sei limitata a ringraziarmi del caffè e me li hai presentati. Ho dimenticato i loro nomi all’istante.

Una delle ragazze mi ha chiesto qualcosa, ma io non riuscivo a toglierti gli occhi di dosso. Eri intenta a parlare di un progetto di fine corso con il ragazzo dai capelli lunghi. Una ciocca ti è scivolata sul viso, l’hai sistemata dietro l’orecchio. Devi esserti accorta che ti fissavo, ti sei voltata verso di me. Mi hai sorriso, come per scusarti di quell’intrusione, e io ti ho perdonato all’istante.

Il mio caffè si era raffreddato. Non avrei voluto essere il primo ad andarmene, ma la lezione stava per cominciare. Mi sono alzato e ho aspettato di incrociare il tuo sguardo.

«Grazie per il caffè»

Avrei voluto chiederti se potevamo rivederci, ma era impossibile con tutti i tuoi amici intorno.

«Magari ci si ritrova la prossima settimana» ho detto, fingendo noncuranza. Ma tu avevi già ripreso a chiacchierare, e mentre andavo via ti ho sentito ridere.

Ho deciso di non ripresentarmi la settimana seguente. Ho aspettato quella successiva e, quando ho visto il sollievo sul tuo viso, ho capito che avevo fatto bene a starti lontano. Non ti ho chiesto se potevo sedermi, ho preso direttamente due caffè, il tuo senza latte e con un cucchiaino di zucchero.

«Ti ricordi come mi piace il caffè!».

Ho nicchiato, come se fosse una cosa da nulla; in realtà l’avevo annotato sull’agenda, accanto alla data in cui ci eravamo conosciuti. Faccio sempre così.

Quella volta ho cercato di farti più domande e ti sei schiusa come un fiore che riceve la pioggia. Mi hai mostrato i tuo disegni, ho sfogliato le pagine piene di schizzi ben fatti ma per nulla originali. A te ho detto che erano eccezionali. Quando sono arrivati i tuoi amici, mi sono alzato per prendere altre sedie. Ma tu hai spiegato che eri occupata e che vi sareste visti più tardi. In quel momento, ogni dubbio è svanito e ti ho guardato negli occhi fino a quando sei arrossita e hai abbassato lo sguardo.

«La prossima settimana non ci vedremo» ho annunciato. «Quella di oggi è la mia ultima lezione».

Mi ha colpito la tua espressione delusa.

Stavi per dire qualcosa ma ti sei interrotta. Avrei potuto prendere l’iniziativa, ma ho preferito aspettare e godermi quel momento. Volevo sentirlo da te.

«Magari potremmo bere qualcosa insieme una sera» hai chiesto.

Ho tentennato, fingendo sorpresa. «E se andassimo a cena? C’è un nuovo ristorante francese in città: potremmo provarlo questo fine settimana?».

Il tuo entusiasmo era commovente. Ho ripensato a Mary e alla sua apatia: indifferente a ogni iniziativa e annoiata dalla vita. Non pensavo che l’età fosse così importante fino a quel momento. Ma quando ho visto il tuo entusiasmo infantile all’idea di cenare in un bel ristorante ho capito che avevo fatto bene a cercare una donna più giovane. Più ingenua. Forse non eri del tutto pura, ma almeno non eri ancora diventata cinica e diffidente.

Sono venuto a prenderti al pensionato dove alloggiavi, ignorando gli sguardi curiosi degli studenti che passavano davanti alla tua porta. È stato bello vederti uscire con un elegante abito nero, le lunghe gambe avvolte in collant coprenti.

Quando ti ho aperto la portiera dell’auto sei rimasta sorpresa.

«Potrei abituarmici».

«Sei bellissima, Jennifer».

«Nessuno mi chiama mai Jennifer».

«Ti dà fastidio?».

«No. Suona solo strano».

Il ristorante non meritava le ottime recensioni che avevo letto ma a te sembrava non importare. Hai ordinato patate arrosto con il pollo. «È raro trovare una donna che non si preoccupi di ingrassare». ho detto scherzando.

«Non faccio diete. La vita è troppo breve». Hai finito tutta la salsa del pollo ma hai lasciato le patate. Quando il cameriere ci ha portato la lista dei dolci io ho rifiutato con un cenno.

«Solo due caffè, grazie». Eri delusa, ma non era il caso che mangiassi altri grassi. «Che cosa farai dopo la laurea?».

«Non lo so. Un giorno mi piacerebbe aprire una galleria, ma per ora ho solo bisogno di trovare un lavoro».

«Come artista?».

«Magari fosse facile! Faccio soprattutto sculture. Vorrei provare a venderle, ma avrò bisogno anche di un lavoro normale, in un bar o in un supermercato, per pagare le bollette. Probabilmente tornerò a vivere da mia madre».

«Andate d’accordo?».

Hai storto il naso come fanno i bambini. «Non proprio. È molto legata a mia sorella. Con me, invece, non è mai andata troppo d’accordo. È stata colpa sua se mio padre se n’è andato senza una parola».

Ho versato altro vino nei bicchieri. «Che cosa ha fatto?».

«L’ha mandato via. Ci ha detto che le dispiaceva, ma doveva pensare alla sua vita e non poteva più andare avanti così. Poi si è sempre rifiutata di parlarne. È un’egoista».

Ti ho preso la mano.

«Risponderai a tuo padre?».

Hai scosso la testa decisa. «È stato fin troppo chiaro. Vuole che lo lasci in pace. Non so che cosa gli ha fatto mia madre, ma dev’essere stato qualcosa di molto grave».

Ho intrecciato le dita alle tue, accarezzandoti con il pollice. «Non possiamo sceglierci i genitori, purtroppo».

«Tu sei legato ai tuoi?».

«Sono morti». Avevo raccontato quella bugia molte volte. Cominciavo quasi a crederci. Avrebbe potuto anche essere vero, per quanto ne sapevo.

Quando mi sono trasferito a sud, non li ho informati del mio nuovo indirizzo, e non credo che si siano disperati per la mia partenza.

«Mi dispiace».

Mi hai stretto la mano e i tuoi occhi sono diventati lucidi.

Ho sentito una contrazione all’inguine e ho distolto lo sguardo. «È stato tanto tempo fa».

«Abbiamo qualcosa in comune». Hai sorriso. Forse eri convinta di aver capito qualcosa di me. «Sentiamo tutti e due la mancanza di un padre».

Non era chiaro cosa intendessi con quella frase ambigua. Ti sbagliavi sul mio conto, ma ti ho lasciato credere di avermi letto dentro. «Dimenticalo, Jennifer. Non meriti di essere trattata così. Starai molto meglio senza di lui».

Hai annuito, ma non ti avevo convinta. Non ancora.

Mi hai chiesto di salire da te, io però non avevo nessuna voglia di passare la serata in un monolocale per studenti, a bere caffè economico in tazze sbeccate. Non potevo nemmeno portarti a casa mia: c’erano ancora in giro le cose di Mary e sapevo che mi avresti fatto delle domande a riguardo. E poi stavolta era diverso, non cercavo l’avventura di una notte: ti volevo davvero.

Ti ho accompagnato alla porta.

«La galanteria non è morta, quindi» hai detto.

Ho fatto un mezzo inchino e tu hai riso. Per quanto fosse ridicolo, ero contento di averti reso felice.

«Non credo di essere mai uscita con un gentiluomo prima d’ora».

«Bene» ho detto prendendoti la mano e portandomela alle labbra. «Faremo in modo che diventi un’abitudine».

Sei arrossita. Hai sollevato il mento, in attesa del mio bacio.

«Sogni d’oro». Sono tornato verso la macchina senza mai voltarmi indietro. Mi volevi, era ovvio, ma non ancora abbastanza.