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Al buio, in macchina, finalmente piango. Calde lacrime che mi cadono sui pugni chiusi mentre la donna mi parla, senza fare nessuno sforzo per mascherare il disprezzo nei miei confronti. Merito di peggio, lo so, ma non per questo fa meno male. Mai, nemmeno per un attimo, ho dimenticato la madre di Jacob. Non ho mai smesso di pensare alla sua perdita, una perdita ancora più grande della mia. Mi odio per quello che ho fatto.
Cerco di respirare lentamente e a fondo. Non voglio singhiozzare e attirare l’attenzione dei poliziotti. Li immagino bussare alla porta di Iestyn e brucio di vergogna. Le voci sulla mia storia con Patrick si sono diffuse in poco tempo; anche la notizia di questo scandalo avrà già cominciato a circolare in paese.
Niente potrà essere peggio del suo sguardo quando sono tornata in cucina insieme ai poliziotti. Si sentiva tradito, glielo si leggeva in viso. Tutto quello che credeva di sapere di me era falso, tante bugie per coprire un crimine imperdonabile. Non posso biasimarlo. Non avrei mai dovuto legarmi a qualcuno, non avrei dovuto permettere a nessuno di legarsi tanto a me.
Siamo già alla periferia di Bristol. Devo restare lucida. Mi porteranno nella saletta per gli interrogatori, suppongo; mi diranno che posso chiamare un avvocato. La polizia mi farà delle domande e io risponderò cercando di mantenere la calma. Non piangerò né cercherò di giustificarmi, mi sottoporranno al processo e poi finirà tutto. Finalmente sarà fatta giustizia. È così che funziona? Non ne sono sicura. Quel poco che so l’ho imparato dai romanzi gialli e dai casi di cronaca che ho visto in Tv, non avrei mai immaginato che un giorno avrei vissuto tutto questo in prima persona. Immagino i quotidiani con la mia faccia in primo piano. La faccia di un’assassina.
Una donna è stata arrestata per l’omicidio di Jacob Jordan.
Non so se pubblicheranno il mio nome, di sicuro daranno la notizia. Mi porto la mano al petto e sento il cuore battere forte. Sono calda e debole, come se avessi la febbre. Tutto sta venendo a galla.
L’auto rallenta ed entra nel parcheggio vicino a un cupo agglomerato di edifici grigi. Si differenziano dai palazzi circostanti solo per lo stemma sul portone d’ingresso, Corpo di Polizia delle contee di Avon e Somerset. L’auto viene parcheggiata con una manovra esperta in un piccolo spazio tra due volanti; la donna scende e mi apre la portiera.
«Tutto bene?» chiede. Ha un tono più gentile ora, come se si fosse pentita delle domande di prima.
Annuisco con patetica gratitudine.
Non c’è abbastanza spazio per spalancare la portiera, e ho difficoltà a scendere dalla macchina con i polsi ammanettati. La mia goffaggine mi fa sentire ancora più spaventata e disorientata. Forse è questo lo scopo delle manette. Dopotutto, se fuggissi ora, dove potrei andare? Il cortile è circondato da muri alti, i cancelli elettrici sono sbarrati. Quando riesco finalmente a mettermi in piedi, il detective Evans mi prende per il braccio e ci allontaniamo dall’auto. Non mi stringe forte, ma mi manca lo stesso il respiro, e devo combattere contro la tentazione di scrollarmela di dosso. Arriviamo davanti a una porta di metallo dove l’altro agente preme un pulsante e parla all’interfono.
«Ispettore Steven» dice. «Zero nove con una donna».
La porta si apre con uno scatto e si richiude alle nostre spalle con un tonfo che mi rimbomba nelle orecchie a lungo. Attraversiamo una grande stanza dalle pareti sporche. L’aria è viziata, nonostante il condizionatore rumoroso appeso al soffitto, e si sente un rumore ritmico, come una serie di colpi, che proviene da qualche ufficio dietro la parete. In un angolo c’è un ragazzo di circa vent’anni, su un sedile di metallo grigio inchiodato al pavimento. Si mangia le unghie e le sputa a terra. Indossa pantaloni della tuta con l’orlo sfilacciato, scarpe da ginnastica e una felpa grigia sudicia con un logo irriconoscibile. L’odore che emana mi prende alla gola. Volto il capo perché non capisca quello che sto provando: paura e pietà.
Ma non sono abbastanza svelta.
«Vuoi dare un’occhiata, dolcezza?». La sua voce è squillante e nasale, proprio quella di un ragazzino. Lo guardo ma non rispondo.
«Puoi venire a toccare con mano, se vuoi!». Si afferra il cavallo dei pantaloni e ride, un suono fuori luogo in quell’ambiente grigio e squallido.
«Dacci un taglio, Lee» dice l’ispettore Stevens. Il tizio si appoggia alla parete e sorride compiaciuto.
Il detective Evans mi prende di nuovo per il gomito, le unghie affondano nella pelle mentre mi conduce fino a un bancone alto. Dietro il computer c’è un poliziotto in divisa, la camicia bianca tesa sul ventre enorme. Fa un cenno alla sua collega e mi rivolge un’occhiata frettolosa.
«Dati?».
Il detective Evans mi toglie le manette e mi sembra subito di poter respirare meglio. Massaggio i segni rossi sui polsi e insieme a una fitta di dolore provo un piacere perverso.
«Sergente, questa è Jenna Gray. Il 26 novembre del 2012 Jacob Jordan venne investito da un’auto a Fishponds. Il conducente del veicolo non si è fermato. L’auto è stata identificata come una Ford Fiesta rossa, targata J634 OUP e intestata a Jenna Gray. Stamattina ci siamo recati a Blaen Cedi, un cottage appena fuori Penfach, in Galles, dove alle 19.33 ho arrestato la Gray con l’accusa di omicidio per guida pericolosa e omissione di soccorso».
Lee fa un fischio, basso e lungo, e l’ispettore Stevens gli lancia un’occhiataccia di avvertimento. «Che diavolo ci fa qui?» chiede.
«Sta aspettando il suo avvocato. Ora ve lo tolgo di torno». Senza voltarsi, il sergente grida: «Sally, riporta Roberts nella cella due, per favore». Una guardia robusta sbuca dall’ufficio dietro il bancone, con un grosso mazzo di chiavi appeso alla cintura. Sta mangiando e si spazzola le briciole dalla cravatta. Mentre svoltano l’angolo, Lee mi guarda disgustato. È così che sarà in prigione, quando sapranno che ho ucciso un bambino. Mi guarderanno tutti con disprezzo. Mi mordo il labbro pensando che sarà molto, molto peggio di così. Il mio stomaco si contrae per la paura, per la prima volta mi chiedo se riuscirò ad affrontare il processo e il carcere. Poi ricordo a me stessa che sono sopravvissuta a ben altro.
«Cintura» dice il sergente prendendo un sacchetto di plastica trasparente.
«Scusi?». Mi parla come se conoscessi le procedure.
«La cintura, deve toglierla. Porta gioielli?». Comincia a spazientirsi mentre io armeggio con la cintura, la sfilo dai passanti e la lascio cadere nel sacchetto.
«No, non ho gioielli».
«Niente fede?».
Scuoto il capo, istintivamente sfioro il lieve avvallamento sull’anulare. Il detective Evans sta perquisendo la mia borsa. Non c’è nulla di personale dentro, ma è come se un ladro mi mettesse a soqquadro la casa. Un assorbente interno rotola sul bancone.
«Questo le serve?» Lo chiede in tono professionale, l’ispettore Stevens e l’agente di custodia rimangono impassibili, ma io avvampo.
«No».
Lo lascia cadere nel sacchetto, poi apre il portafogli. Mette da parte le monete. Ed è allora che mi accorgo del bigliettino da visita azzurro, tra gli scontrini e la carta di credito. La stanza è sprofondata nel silenzio, riesco quasi a sentire il cuore che batte. Il detective Evans ha smesso di scrivere e mi sta fissando. Vorrei distogliere lo sguardo, ma non riesco. Lascialo, penso, lascialo. Con un gesto lento e studiato prende il biglietto da visita. Mi aspetto che mi chieda qualcosa, ma si limita a registrarlo e a infilarlo nel sacchetto con il resto dei miei oggetti personali. Riprendo a respirare.
Cerco di concentrarmi sulle parole del sergente ma mi perdo in una sequela di procedure e diritti. No, non voglio avvertire nessuno. No, non voglio un avvocato…
«È sicura?» si intromette l’ispettore Stevens. «Ha diritto a un avvocato d’ufficio, lo sa?».
«Non mi serve un avvocato. Sono stata io».
Silenzio. I tre poliziotti si guardano.
«Firmi qui,» dice il sergente « e anche qui». Prendo la penna e scarabocchio il mio nome accanto alle X nere. Poi si rivolge all’ispettore Stevens: «Subito in sala interrogatori?».
L’aria è soffocante e puzza di tabacco, nonostante il divieto di fumare incollato alla parete. L’ispettore Stevens mi indica dove sedermi. Cerco di avvicinare la sedia ma è inchiodata al pavimento. Qualcuno ha inciso delle imprecazioni sulla superficie del tavolo. L’ispettore Stevens aziona un interruttore sulla parete accanto a lui. Si sente un fischio acuto.
«Sono le 22.45 del 2 gennaio 2014, ci troviamo nella sala interrogatori della stazione di polizia di Bristol. Io sono il detective ispettore 431 Ray Stevens e con me c’è il detective agente 3908 Kate Evans». Si volta verso di me. «Può dire il suo nome e la data di nascita per la registrazione, per favore?».
Deglutisco e cerco di articolare le parole. «Jenna Alice Gray, 28 agosto 1976».
Il suo discorso mi scivola addosso. Mi ricorda la gravità delle accuse a mio carico, le conseguenze per la famiglia della vittima e per tutta la comunità. Non dice nulla di nuovo, nulla che possa rendere più insopportabile il senso di colpa che già mi opprime.
Tocca a me parlare.
Scandisco lentamente, lo sguardo fisso sul tavolo, sperando che non mi interrompa. Non voglio dovermi ripetere.
«Era stata una giornata pesante. Avevo inaugurato una mostra dall’altra parte della città ed ero molto stanca. Pioveva e non riuscivo a vedere bene». Mi sforzo di mantenere un tono calmo e misurato. Voglio fornire ogni dettaglio ma non voglio addurre scuse: come potrei tentare di giustificarmi per quello che è successo? Ho pensato spesso a che cosa avrei detto, ma adesso che sono qui, le parole suonano false e inadeguate.
«È spuntato dal nulla» dico. «Un secondo prima la strada era libera, e poi, all’improvviso lui era lì e stava attraversando di corsa. Un bambino, con un cappellino azzurro di lana e i guanti rossi. Era troppo tardi, troppo tardi per fare qualunque cosa».
Il passato sta per sopraffarmi. Mi aggrappo al tavolo, come per rimanere ancorata al presente. Sento lo stridere dei freni, l’odore acre della gomma bruciata sull’asfalto. Quando ha colpito il parabrezza, Jacob è stato a pochi centimetri da me. Per un attimo, avrei potuto tendere la mano e accostarla al suo viso attraverso il vetro. Poi è volato in aria ed è atterrato sulla strada. Solo allora mi sono accorta della madre, china sul corpo del bambino, gli tastava il polso. Ha urlato, con tutto il fiato che aveva nei polmoni, un grido primordiale. Non c’era battito. Dal parabrezza ho visto la pozza di sangue che si allargava sotto la testa del bambino e tingeva l’asfalto bagnato di rosso.
«Perché non si è fermata? Perché non è scesa dall’auto e non ha cercato aiuto?».
Mi trascino indietro, torno nella sala interrogatori, davanti all’ispettore Stevens. Avevo quasi dimenticato di trovarmi qui.
«Non potevo».