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«Ehi, mi sembrava che fossi tu!» Bethan mi raggiunge sulla strada per Penfach, senza fiato e con il cappotto svolazzante. «Sto andando all’ufficio postale. Sono contenta di averti incontrata, ho delle novità».
«Quali novità?». Aspetto che Bethan riprenda fiato.
«Ieri è passato il rappresentante di una ditta di cartoline. Gli ho fatto vedere le tue foto e secondo lui sarebbero fantastiche, perfette per loro».
«Sul serio?».
Lei ride. «Certo, sul serio. Ha detto di fargli trovare qualche stampata la prossima volta che passerà da noi».
Non posso fare a meno di sorridere. «È davvero una bella notizia, grazie».
«E io le venderò in negozio. Anzi, dovresti metterle in rete su un tuo sito, potrei mandare il link ai nostri clienti. Molte persone cercano belle foto del posto in cui sono state in vacanza».
«Okay» le dico. Ma non ho la più pallida idea di come si faccia un sito internet.
«Perché non scrivi dei messaggi, oltre ai nomi? Tipo: “Buona fortuna”, “Congratulazioni”».
«Giusto». Provo a immaginare una serie di cartoline mie in un espositore, con una “J” come logo. Solo l’iniziale. Potrebbero interessare a tanti. Devo fare in modo di avere qualche entrata.
Non ho molte spese, mangio pochissimo, ma sto dando fondo ai miei risparmi e al momento non ho fonti di guadagno. E poi lavorare mi manca.
Nella mia testa sento una vocina derisoria e mi sforzo di metterla a tacere. Perché non dovrei intraprendere una nuova attività? Perché mai la gente non dovrebbe comprare le mie fotografie come un tempo comprava le sculture?
«Sì, lo farò» dico.
«Bene, allora è deciso» fa Bethan, soddisfatta. «Che cos’hai in programma oggi?».
Siamo arrivate a Penfach senza che me ne rendessi conto. «Pensavo di esplorare un po’ la costa» dico. «Scattare qualche foto di altre spiagge».
«Non ne troverai una più bella della nostra». Guarda l’orologio. «Ma tra dieci minuti parte l’autobus per Port Ellis: è un posto come un altro per cominciare».
Quando l’autobus arriva, la ringrazio e salgo. È vuoto e vado a sedermi in fondo, lontano dall’autista, per evitare di dover fare conversazione. Si inoltra nell’entroterra lungo strade strette e io guardo il mare scomparire alle mie spalle per poi cercarlo di nuovo quando stiamo per arrivare a destinazione.
La strada sterrata e tranquilla dove ci fermiamo è schiacciata tra due pareti di pietra e sembra attraversare tutta Port Ellis. La percorro sperando che porti in centro. Esplorerò il paese e poi andrò sul mare.
La borsa, un sacchetto di plastica nera annodato, è seminascosta nel piccolo fossato al lato della strada. All’inizio non ci faccio caso: sembra un sacchetto di spazzatura abbandonato dai turisti.
Ma poi si muove, impercettibilmente.
Tanto impercettibilmente che penso di essermelo immaginato: forse è solo il vento che ha smosso la plastica. Mi sporgo e afferro il sacchetto, con la sensazione che dentro ci sia qualcosa di vivo.
Mi inginocchio e strappo la plastica. Un odore spaventoso di putrefazione, paura ed escrementi mi assale e sono scossa dai conati, ma cerco di ricacciare indietro la nausea alla vista dei due cuccioli. Uno giace immobile, la pelle della schiena escoriata dal frenetico raspare delle zampe dell’altro, i cui guaiti sono ormai flebili. Con un singhiozzo prendo il cucciolo ancora vivo e lo infilo sotto il cappotto. Mi alzo e mi guardo intorno: c’è un uomo lungo la strada, un centinaio di metri più avanti.
«Aiuto! La prego, mi aiuti!».
L’uomo si volta e viene verso di me, imperturbabile. È anziano e ha le spalle curve, tanto che il mento tocca quasi lo sterno.
«C’è un veterinario in paese?» chiedo non appena è abbastanza vicino.
L’uomo guarda il cucciolo, calmo e tranquillo sotto il mio cappotto, e poi sbircia nel sacchetto a terra. Fa schioccare la lingua scuotendo piano il capo.
«Il figlio di Alun Mathews» dice poi. Gira di scatto la testa, forse indicando dove posso trovare un medico, e raccoglie il sacchetto con il suo macabro contenuto. Lo seguo, il calore del cucciolo che si spande sul mio petto.
L’ambulatorio è un piccolo edificio bianco in fondo a una stradina, con un’insegna che recita “Clinica veterinaria di Port Ellis”. All’interno, nella piccola sala d’aspetto, una donna è seduta su una sedia di plastica con un trasportino per gatti posato in grembo. La stanza odora di disinfettante e di cane.
La receptionist alza lo sguardo dal computer. «Salve, Mr Thomas, che cosa possiamo fare per lei?».
Il mio accompagnatore borbotta un saluto e solleva il sacco di plastica sopra il bancone. «Ha trovato due cuccioli abbandonati nel fosso. Vergogna». Si volta verso di me e mi tocca delicatamente il braccio. «Adesso si occuperanno di voi» dice ed esce dall’ambulatorio facendo trillare la campanella sopra la porta.
«Grazie per averli portati qui».
La receptionist porta una targhetta sopra il lungo grembiule azzurro con il nome “Megan” inciso in lettere nere.
«Molti non l’avrebbero fatto, sa».
Alcune chiavi tintinnano appese a un nastro pieno di figurine di animali e di spillette simili a quelle che le infermiere appuntano alle fasce dei neonati. Megan apre la borsa e ci guarda dentro per un istante, poi scompare dietro una porta portandola con sé.
Qualche secondo dopo si apre un’altra porta che affaccia sulla sala d’aspetto e Megan mi rivolge un sorriso. «Vuole portare dentro quel piccolino? Patrick vi riceve subito».
«Grazie».
Seguo Megan in una stanza dalla forma strana, con degli armadi incastrati negli angoli. In fondo c’è un piano di lavoro e un piccolo lavabo in acciaio, dove un uomo si sta lavando le mani con una sgradevole schiuma verde che gli arriva ai gomiti.
«Salve, io sono Patrick, il veterinario» aggiunge, e ride. «Ma questo probabilmente lo aveva capito». È alto persino più di me, e ha capelli biondo cenere dal taglio indefinito.
Sotto il camice azzurro porta dei jeans e una camicia a quadri con le maniche rimboccate.
Sfoggia un sorriso perfetto e curato. Dev’essere sui trentacinque, forse qualcosa di più.
«Io sono Jenna». Apro il cappotto per tirare fuori il cucciolo bianco e nero che, nel frattempo, si è addormentato e ora russa piano, apparentemente sereno.
«Chi abbiamo qui?» dice il veterinario prendendo il cucciolo con dolcezza. Nel trambusto il cane si sveglia e si ritrae, facendosi piccolo piccolo.
Patrick me lo restituisce. «Vuole tenerlo lei sul tavolo mentre lo visito? Non voglio traumatizzarlo ancora di più. Se è stato un uomo a metterli nel sacchetto, gli ci vorrà un po’ prima di tornare a fidarsi». Tasta il cane e io mi chino su di lui per sussurrargli paroline dolci all’orecchio, incurante di quello che può pensare Patrick.
«Che cane è?». chiedo.
«Un mix».
«Un mix?». Mi tiro su, tenendo una mano sul cucciolo che ora si è rilassato sotto il tocco gentile di Patrick.
Patrick sorride. «Sa, un po’ di questo, un po’ di quello: un incrocio di razze. Soprattutto Spaniel, a giudicare della orecchie, ma Dio solo sa le altre. Forse Collie, e forse anche un po’ Terrier. Non li avrebbero gettati via se fossero stati di razza pura, questo è certo». Prende il cucciolo e me lo porge.
«È orribile» dico, respirando il calore del piccolo. Lui spinge il naso contro il mio collo. «Chi può aver fatto una cosa del genere?».
«Lo diremo alla polizia, ma le probabilità di trovare chi li ha abbandonati sono quasi nulle. La gente di qui è piuttosto riservata».
«Che ne sarà di lui?» chiedo.
Patrick affonda le mani nelle tasche del camice e si appoggia al lavello.
«Lei potrebbe tenerlo?».
Ha piccole rughe bianche agli angoli degli occhi, come se avesse l’abitudine di strizzarli alla luce del sole. Deve passare molto tempo all’aria aperta.
«Considerato dove l’ha trovato, è improbabile che qualcuno venga a reclamarlo e i canili sono pieni. Sarebbe di grande aiuto se lei potesse dargli una casa. Da quanto vedo, è un buon cane».
«Oh, Dio, no, non posso prendermi cura di un cane!» esclamo. Non riesco a smettere di pensare che, se non fossi venuta a Port Ellis proprio oggi, tutto questo non sarebbe successo.
«Perché no?».
Esito. Come faccio a spiegargli le cose che succedono attorno a me? Mi piacerebbe avere di nuovo qualcuno da accudire, ma allo stesso tempo sono terrorizzata. E se non sono in grado di prendermi cura di lui? Se si ammala?
«Non so neppure se il mio padrone di casa sarebbe d’accordo» dico alla fine.
«Dove abita? Qui a Port Ellis?».
Scuoto il capo. «Sto a Penfach, in un cottage non lontano dal campeggio».
Negli occhi di Patrick passa un lampo. «Ha affittato il cottage di Iestyn?».
Annuisco. Non mi sorprende più scoprire che tutti conoscono Iestyn.
«Lasci fare a me. Iestyn Jones andava a scuola con mio padre e so abbastanza cose su di lui da convincerlo a farle tenere anche un branco di elefanti, se lo desidera».
Sorrido. È difficile non farlo.
«Credo che rinuncerò agli elefanti» dico, e mi sento arrossire.
«Gli spaniel sono perfetti per i bambini. Lei ne ha?».
La pausa che segue sembra durare in eterno.
«No» rispondo alla fine. «Non ho bambini».
Il cane si divincola dalla mia stretta e comincia a leccarmi il collo, frenetico. Sento il battito del suo piccolo cuore contro il mio.
«Okay» dico. «Lo tengo».