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«Fermati» ho detto.
Non hai accostato e ho afferrato il volante.
«Ian, no!». Hai sterzato di colpo e siamo finiti contro il marciapiede e poi di nuovo in mezzo alla strada, schivando un’auto che veniva nella direzione opposta. Non hai potuto far altro che schiacciare il freno. Ci siamo fermati di traverso in mezzo alla strada.
«Scendi».
Hai obbedito, ma una volta scesa sei rimasta immobile vicino alla portiera, sotto la pioggia fine. Ti ho raggiunto. «Guardami».
Non hai alzato gli occhi da terra.
«Ho detto guardami!».
Hai sollevato piano la testa ma mi ignoravi. Ho cercato di incrociare il tuo sguardo, ma tu hai distolto gli occhi ancora una volta.
Ti ho afferrato per le spalle e ti ho scosso con forza. Volevo sentirti gridare: mi sono detto che avrei smesso solo quando ti avessi sentito urlare. Ma tu non hai emesso alcun suono. Avevi la mascella contratta per lo sforzo.
Stavi giocando con me, Jennifer, ma avrei vinto io. Ti avrei fatto urlare.
Ti ho lasciato andare. Non sei riuscita a nascondere il sollievo, te lo leggevo in faccia. Era ancora lì quando ho stretto il pugno e ti ho colpito.
La tua testa è schizzata all’indietro andando a sbattere contro il tetto dell’auto Hai barcollato e sei scivolata a terra. Finalmente hai emesso un suono, un guaito, come un cane preso a calci. Non ho potuto fare a meno di sorridere di quella piccola vittoria. Ma non era abbastanza. Volevo sentirti implorare il mio perdono; sentirti ammettere che avevi flirtato con quel tipo; che scopavi con un altro.
Ti contorcevi sull’asfalto bagnato, ma non provavo il solito appagamento: la bolla di rabbia dentro di me non si era sgonfiata, anzi, continuava a espandersi. Avremmo continuato a casa.
«Sali in macchina».
Cercavi di rimetterti in piedi, perdevi sangue dalla bocca e ti sei pulita con la sciarpa. Stavi per salire al posto di guida ma, ti ho strattonato. «Dall’altra parte». Ho acceso il motore e sono partito prima ancora che avessi chiuso la portiera.
Hai lanciato un grido, hai chiuso di scatto e ti sei allacciata la cintura in tutta fretta.
Ho riso, ma neanche questo è servito a smorzare la rabbia. Ho persino temuto che fosse un attacco di cuore: avvertivo un senso di compressione al petto e respiravo a fatica.
Era tutta colpa tua.
«Rallenta,» hai detto «stai andando troppo veloce». Le parole sono uscite insieme a bolle di sangue, l’ho visto schizzare sul portaoggetti. Ho accelerato, per dimostrarti che non mi facevo comandare da te. Eravamo in una strada tranquilla di una zona residenziale, con villette a schiera e auto parcheggiate lungo il marciapiede. Mi sono spostato verso il centro della strada per evitarle, nonostante i fari nella direzione opposta, e ho spinto più forte sul pedale. Ti sei coperta il viso con le mani: si è sentito un colpo di clacson e un lampo di luce ci ha investito. Sono tornato sulla nostra carreggiata giusto in tempo.
La compressione al petto si è un po’ allentata. Ho tenuto il piede sull’acceleratore e abbiamo svoltato a sinistra in una strada lunga costeggiata da alberi. L’ho riconosciuta subito, anche se ci ero stato una volta sola. Era la casa di Anya, dove me l’ero scopata. Ho perso il controllo del volante e siamo finiti su un cordolo.
«Ti prego, Ian, rallenta. Ti prego!».
Un centinaio di metri più avanti, c’era una donna sul marciapiede, teneva per mano un bambino, che portava un cappello con il pon pon. Ho stretto forte le mani sul volante. Credevo di avere le allucinazioni. Mi stavo immaginando tutto solo perché eravamo nella sua via. Non poteva essere Anya.
Aveva i capelli sciolti e la testa scoperta, nonostante la pioggia. Guardava verso di me e rideva, con il bambino che correva al suo fianco.
Ho sentito una fitta nella testa. Era lei.
Avevo licenziato Anya dopo essermela scopata. Non mi interessava ripetere l’esperienza e non volevo vedere la sua faccia insulsa in giro per l’ufficio.
Quando si era ripresentata, non l’avevo quasi riconosciuta. Sapevo che non mi avrebbe lasciato in pace. Veniva dritto verso di noi.
Vuole sapere chi è suo padre, vuole conoscerti.
Avrebbe rovinato tutto. Quel bambino avrebbe rovinato tutto. Tu tenevi il capo chino e le mani in grembo.
Perché non mi guardavi più? Una volta mi appoggiavi la mano sulla gamba, mentre guidavo, e stavi girata verso di me. Adesso a malapena mi guardavi negli occhi. Ti stavo già perdendo e se avessi saputo del bambino sarebbe finita.
Stavano attraversando la strada. La mia testa pulsava. Tu piagnucolavi, sembrava il ronzio di una mosca nelle orecchie.
Ho schiacciato l’acceleratore fino in fondo.