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Arriverò a Swansea tra due ore. Ho un bisogno disperato di vedere il mare, ma il tempo che passerò su questo treno è prezioso, per stare sola e riflettere. In cella non ho chiuso occhio, la mia mente ha lavorato in modo frenetico, in attesa del mattino. Avevo paura che, se mi fossi addormentata, gli incubi sarebbero tornati. Così sono rimasta sveglia, seduta sul sottile materasso di plastica ad ascoltare le grida e i colpi che giungevano dal corridoio. Stamattina la guardia mi ha offerto di fare una doccia, indicandomi una struttura in calcestruzzo nel bagno delle donne. Le piastrelle erano bagnate e un groviglio di capelli ostruiva lo scarico come un ragno acquattato. Ho rifiutato, e così ho ancora addosso l’odore stantio della cella.
Mi hanno interrogato di nuovo, la donna e l’agente più anziano. Erano frustrati per la mia reticenza, ma non sono riusciti a strapparmi altri dettagli.
«L’ho ucciso io,» ho ripetuto «non vi basta?».
Alla fine hanno rinunciato. Mi hanno fatto sedere sulla panca di metallo, vicino al banco della sala di custodia cautelare, mentre loro parlavano a bassa voce con il sergente.
«Le concediamo la libertà provvisoria» ha detto l’ispettore Stevens alla fine. Io l’ho guardato senza capire, finché non mi ha spiegato. Non mi aspettavo di essere rilasciata e ho provato sollievo al pensiero di tornare fuori per qualche settimana. Ma subito mi sono sentita in colpa.
Dalla fila accanto, due donne scendono affannate a Cardiff, trascinandosi sporte di provviste e quasi dimenticando i cappotti. Lasciano a bordo una copia del Bristol Post di oggi. La prendo, anche se non sono certa di voler sapere quello che c’è scritto.
È in prima pagina: Arrestato il pirata della strada.
Trattengo il fiato, scorro veloce l’articolo in cerca del mio nome. Non l’hanno pubblicato.
«Una donna tra i trenta e i quarant’anni è stata arrestata per l’omicidio di Jacob Jordan, cinque anni, investito a Fishponds nel novembre del 2012. La donna è in libertà provvisoria e dovrà presentarsi alla Centrale di polizia di Bristol il mese prossimo».
Immagino le reazioni in tutta Bristol: i genitori che scuotono la testa e stringono i bambini. Rileggo l’articolo, in cerca di dettagli che possano suggerire dove abito, ma non ne trovo.
Ripiego accuratamente il giornale, la prima pagina sul lato interno. Alla stazione degli autobus di Swansea lo infilo in un cestino sotto incarti di fast-food e lattine di Coca Cola. Cerco di pulirmi le mani sporche di inchiostro, ma le dita restano nere.
L’autobus per Penfach è in ritardo. Quando finalmente arrivo in paese, sta cominciando a fare buio. Lo spaccio dell’ufficio postale è ancora aperto. Prendo un cestino per comprare qualcosa da mangiare. Il negozio ha due casse, quella della posta e, sul lato opposto, quella dell’emporio. Sono entrambe gestite da Nerys Maddock. La figlia sedicenne la aiuta, ma solo dopo la scuola. Non puoi pagare le buste alla cassa degli alimentari, né il tonno in scatola o le mele alla cassa dell’ufficio postale. Devi aspettare che Nerys attraversi il negozio trascinando i piedi. Oggi all’emporio c’è la figlia. Riempio il cestino con uova, latte e frutta, prendo una confezione di cibo per cani e appoggio la mia spesa sul bancone. Sorrido alla ragazza, che di solito è piuttosto amichevole; lei interrompe la lettura della sua rivista, mi guarda, ma non dice nulla. Un attimo dopo torna a leggere.
«Ciao» dico in tono incerto.
Il campanello sulla porta suona, entra una donna anziana che conosco. La ragazza si alza e va a chiamare la madre. Le dice qualcosa in gallese e poco dopo Nerys raggiunge la figlia dietro la cassa.
«Salve» dico, «prendo queste cose, grazie». È gelida come la figlia. Sembra che abbiano discusso. Nerys non mi guarda nemmeno e si rivolge alla donna anziana.
«Come posso aiutarla?».
Si mettono a parlare. Non capisco una parola del dialetto gallese, ma dalle occhiate che mi rivolgono e dall’espressione di disprezzo sul volto della figlia, capisco che stanno parlando di me.
La donna paga il giornale e Nerys chiude la cassa. Prende il mio cestino e lo posa a terra dietro il banco. Poi si volta, ignorandomi.
Ho le guance in fiamme. Metto via il portafogli e mi volto. Nella fretta di uscire, urto un espositore e faccio cadere alcuni barattoli di salsa. Varco la porta trafelata, ignorando gli strepiti che provengono dall’interno del negozio. Attraverso svelta il paese, senza osare guardarmi attorno. Quando arrivo al campeggio non riesco più a controllarmi e scoppio a piangere. La saracinesca è alzata, Bethan dovrebbe essere dentro. Ma non me la sento di vederla. Proseguo fino al cottage. Una volta arrivata, realizzo che la macchina di Patrick non era nel parcheggio. Non so perché mi illudevo di trovarlo qui: non l’ho chiamato dalla stazione di polizia, non poteva sapere che sarei tornata. Il fatto che non ci sia mi riempie di paura. Chissà per quanto tempo è rimasto al cottage. Forse se ne è andato subito dopo l’arresto e ora non vuole più avere niente a che fare con me. Anche se mi ha voltato le spalle, sono sicura che non abbandonerebbe mai Beau.
Ho già la chiave in mano, la porta è macchiata di rosso, per un attimo penso sia la luce del tramonto. Ma poi sento odore di vernice fresca e trovo per terra un ciuffo d’erba reciso sporco di pittura. Una parola è stata scritta di fretta, schizzi di vernice imbrattano il gradino di pietra sulla soglia.
VATTENE
Mi guardo intorno, come se potessi sorprendere qualcuno a spiarmi, ma è buio ormai e non vedo a una spanna. Ho i brividi e comincio a lottare con la serratura. Per la frustrazione, prendo a calci la porta. Una scheggia di vernice secca si stacca e vola via. Sferro un altro calcio, in un accesso di rabbia incontrollabile. È tutto inutile, ovviamente, la porta è ancora bloccata. Appoggio la fronte al legno cercando di ritrovare la calma. Provo di nuovo a girare la chiave.
Il cottage è freddo e inospitale, come se si fosse coalizzato con il resto del paese. Non provo nemmeno a chiamarlo, so che Beau non c’è .Vado in cucina ad accendere la stufa e trovo un biglietto sul tavolo.
Beau è all’ambulatorio. Manda sms quando torni.
P.
Mi basta per capire che è finita. Non riesco a trattenere le lacrime, serro le palpebre per impedire che scorrano lungo le guance. Sono stata io a scegliere questa strada e adesso devo percorrerla fino in fondo. Mando a Patrick un messaggio altrettanto asciutto. Risponde subito: mi porterà Beau al cottage dopo il lavoro. Mi aspettavo che mandasse qualcun altro, a un tratto sono nervosa all’idea di incontrarlo.
Arriverà tra due ore, ma non voglio stare qui dentro. Mi rimetto il giaccone ed esco.
Fa uno strano effetto stare in spiaggia al buio. Le scogliere sono deserte, scendo fino in riva e mi fermo sulla secca. Gli stivali scompaiono, inghiottiti dall’acqua, ogni volta che un’onda mi raggiunge. Faccio un altro passo avanti e l’acqua lambisce l’orlo dei pantaloni. L’umidità sale lentamente lungo le gambe.
Continuo ad avanzare. Il fondale su questa spiaggia declina dolcemente, ti accompagna per un centinaio di metri e anche oltre. Poi le rocce si interrompono bruscamente e la profondità diventa vertiginosa. Guardo l’orizzonte e metto un piede davanti all’altro, affondando nella sabbia. Sono immersa fino alle ginocchia, le onde mi lambiscono le mani, e io immagino di giocare con Eve, riempiendo secchielli di alghe e saltando incontro ai cavalloni spumeggianti. L’acqua è ghiacciata, quando arriva alle cosce trattengo il respiro, ma non mi fermo. Ho smesso di pensare, cammino e basta. Sento un ruggito: viene dal mare, sembra un avvertimento o forse è un richiamo. Adesso procedere è più difficile: le onde mi arrivano al petto, trascino le gambe. E poi di colpo precipito, sotto la superficie, nel vuoto. Voglio lasciarmi andare, ma le braccia cominciano a muoversi, mio malgrado. A un tratto penso a Patrick. Sarà costretto a cercare il mio corpo finché le correnti non lo restituiranno a riva, dilaniato dalla rocce e mangiato dai pesci.
Mi sento come se avessi ricevuto un colpo in pieno viso. Scuoto la testa decisa e inspiro. Non posso farlo. Non posso continuare a fuggire dai miei errori. Ho perso l’orientamento, non so dove sia la spiaggia, e annaspo in preda al panico. Ma poi le nuvole si aprono e la luna illumina le scogliere. Comincio a nuotare. La corrente mi ha trascinato al largo, cerco continuamente il fondale con i piedi, ma trovo solo acqua gelata. Un’onda mi investe, non riesco più a respirare, tossisco e sputo fuori l’acqua. I vestiti bagnati sono sempre più pesanti, non riesco a sfilare gli stivali, che con il loro peso mi trascinano sotto.
Mi fanno male le braccia, il petto mi brucia, ma sono lucida. Prendo fiato e mi immergo, cercando di concentrarmi su ogni bracciata. Sollevo la testa per prendere aria e ho la sensazione di essere un po’ più vicina alla riva. Torno sotto e riprendo a nuotare, ancora e ancora, finché non trovo un appiglio con la punta dello stivale. Qualche altra bracciata e stavolta riesco ad appoggiare i piedi su una superficie solida. Arranco per tornare a riva, l’acqua nei polmoni, nelle orecchie e negli occhi. Quando arrivo sulla spiaggia mi getto sulla terraferma e resto così per un po’. Tremo, in modo incontrollabile per il freddo e perché d’improvviso mi rendo conto di cosa stavo per fare.
Quando arrivo al cottage mi tolgo i vestiti e li lascio sul pavimento in cucina. Indosso abiti caldi e asciutti e torno di sotto ad accendere il fuoco. Sento Beau abbaiare e, prima che Patrick possa bussare, spalanco la porta. Mi inginocchio per salutare il cucciolo e per nascondere il mio disagio.
Mi alzo in piedi. «Vuoi entrare?».
«Devo tornare».
«Solo un minuto. Ti prego».
Esita, poi fa un passo avanti e si chiude la porta alle spalle. Restiamo in piedi per qualche istante, Beau scodinzola tra di noi. Patrick vede i vestiti fradici in cucina: hanno formato una pozza d’acqua. È confuso, ma non dice nulla. Quello che provava per me non esiste più. Non gli importa di sapere perché quegli abiti, persino il giaccone che mi ha regalato, sono bagnati. L’unica cosa che conta è la terribile verità che gli ho nascosto.
«Mi dispiace». Sono parole sincere quanto inadeguate.
«Per cosa?». Non ha intenzione di rendermi il compito più facile.
«Per averti mentito. Avrei dovuto dirti che avevo…». Mi interrompo, ma Patrick finisce la frase al mio posto.
«Ucciso qualcuno?».
Chiudo gli occhi. Quando li riapro Patrick sta andando verso la porta.
«Non sapevo come dirtelo» le parole si accavallano nella concitazione. «Avevo paura del tuo giudizio».
Scuote il capo per l’esasperazione. «Dimmi solo una cosa: è vero che sei scappata? Posso capire l’incidente, ma davvero sei scappata senza soccorrere quel povero bambino?». I suoi occhi mi scrutano in cerca di una spiegazione che non sono in grado di dargli.
«Sì» dico. «È così».
Apre la porta con violenza. Faccio un passo indietro, d’istinto, e lui se n’è già andato.