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Un suono metallico mi riscuote.

Dopo che l’ispettore Stevens ha lasciato la mia cella ieri sera, sono rimasta a fissare l’intonaco scrostato del soffitto.

Il freddo filtrava dal pavimento di cemento attraverso il materasso. E il sonno a un tratto si è insinuato indesiderato nei miei pensieri. Mi metto a sedere, il corpo mi fa male e la testa mi pulsa.

Dalla porta giunge un altro rumore metallico: lo sportellino al centro viene aperto e una mano mi porge un vassoio di plastica.

«Andiamo, non ho tutto il giorno».

Prendo il vassoio. «Posso avere un analgesico?».

Dallo sportellino riesco a vedere solo un uniforme nera e qualche ciocca disordinata di capelli biondi.

«Il dottore non c’è. Dovrai aspettare fino a quando andrai in tribunale». Lo sportellino si richiude con un rumore sordo che rimbomba per tutto il corridoio. Sento i passi dell’agente di custodia che si allontanano.

Mi siedo sul letto e bevo il tè che è rimasto, una parte si è rovesciata sul vassoio. È tiepido e troppo zuccherato ma lo bevo d’un fiato e mi rendo conto che non toccavo cibo da ieri mattina. Ci sono anche salsicce e fagioli in un contenitore per microonde. La plastica si è un po’ arricciata agli angoli e i fagioli sono ricoperti da una salsa arancione. Lascio tutto sul vassoio insieme alla tazza vuota, devo andare in bagno. Non c’è un water, solo un catino di metallo e fogli di carta ruvida. Faccio in fretta, prima che torni la guardia.

Il cibo avanzato è diventato freddo, quando sento di nuovo il rumore di passi. Si interrompono davanti alla mia cella, un mazzo di chiavi tintinna, e la porta pesante si spalanca. Compare una ragazza scorbutica di circa vent’anni. Riconosco l’uniforme nera e i capelli biondi e unti dell’agente che mi ha portato la colazione. Indico il vassoio posato sul materasso.

«Mi spiace, non sono riuscita a mangiare».

«Non mi sorprende» dice soffocando una risata. «Non toccherei quella roba nemmeno se stessi morendo di fame».

 

Mi siedo sulla panca di metallo di fronte al banco della sala di custodia e mi allaccio gli stivali. Con me ci sono altri tre uomini. Indossano tutti pantaloni della tuta e felpe col cappuccio, quasi una specie di divisa. Sembrano a loro agio, seduti con la schiena appoggiata al muro, tanto quanto io sono impacciata.

Mi giro a leggere gli avvisi affissi alla parete, ma non riesco a coglierne il senso: Informazioni su avvocati, interpreti, reati per cui è previsto il “mandato di comparizione”. Dovrei sapere che cosa sta succedendo? Ogni volta che mi assale il terrore, ripenso a quello che ho fatto. Non ho il diritto di provare paura.

Aspettiamo per almeno mezz’ora, finché suona un citofono. Il sergente controlla il monitor di una telecamera a circuito chiuso. Lo schermo è interamente occupato da un grosso furgone bianco.

«È arrivata la limousine, ragazzi» dice.

Il ragazzo accanto a me sbuffa, mormora frasi incomprensibili, che non voglio nemmeno provare ad ascoltare.

Il sergente apre la porta e fa entrare due guardie, un uomo e una donna. «Oggi sono quattro, Ash» dice all’uomo. «Ehi, il City ieri sera le ha prese, eh?». Se la ride e l’uomo di nome Ash gli affibbia un pugno leggero sulla spalla.

«Ci rifaremo» replica. «Mi dai le loro carte?». Sembra si sia accorto di noi.

Mentre gli uomini continuano a parlare di calcio, la donna viene verso di me.

«Tutto a posto, tesoro?» chiede. Ha un’aria materna, che stride con la sua uniforme, e a un tratto sento il bisogno ridicolo di piangere.

Mi dice di alzarmi, mi tasta lungo le braccia, la schiena e le gambe. Fa scorrere un dito all’interno della vita dei pantaloni e controlla l’elastico del reggiseno attraverso la camicia.

I ragazzi sulla panca si danno gomitate divertiti. Mi sento come se fossi nuda. La guardia ammanetta il mio polso destro al suo sinistro e mi conduce fuori.

 

Il furgone a scomparti ricorda i box dei cavalli che vedevo alle fiere di campagna.

Mia madre ci portava sempre a visitarle, da bambine. Ogni volta che fa una curva, rischio di perdere l’equilibrio, il sedile è stretto e i polsi sono legati a una lunga catena. Lo spazio angusto mi rende claustrofobica. Dal finestrino oscurato, vedo scorrere gli edifici di Bristol in un caleidoscopio di forme e colori. Cerco di capire dove stiamo andando, ma mi viene la nausea e chiudo gli occhi, la fronte appoggiata contro il vetro.

Lascio quel cubicolo mobile per prendere posto in un’altra cella, nei sotterranei della Corte dei Magistrati.

Mi danno del tè, questa volta bollente, e del pane tostato secco, che si blocca in gola, in tante piccole schegge. Mi dicono che il mio avvocato arriverà alle dieci.

Com’è possibile che non siano ancora le dieci? Mi sembra di essere sveglia da una vita.

 

«Signora Gray?».

L’avvocato è giovane e distaccato, sfoggia un costoso completo a righe.

«Non ho chiesto un avvocato».

«Ha diritto ad avere un rappresentante legale, signora Gray, oppure può difendersi da sola. È questo che vuole?». La sua espressione suggerisce che solo un pazzo sceglierebbe la seconda opzione.

Scuoto la testa.

«Bene. Da quanto vedo, durante l’interrogatorio lei ha ammesso l’omicidio per guida pericolosa, e anche l’omissione di soccorso. Dico bene?».

«Sì».

Scorre le carte che ha portato con sé in un faldone, il nastro rosso slacciato e abbandonato sul tavolo. Non mi ha ancora guardato in faccia.

«Intende dichiararsi colpevole o innocente?».

«Colpevole».

È la prima volta che pronuncio questa parola ad alta voce. Sono colpevole.

Si china e scarabocchia qualche frase che non riesco a sbirciare. «Chiederò la libertà provvisoria. È incensurata e si è presentata alla centrale di polizia senza ritardi. Certo, la sua latitanza prima dell’arresto non gioca a nostro favore… Soffre di disturbi mentali?».

«No».

«Peccato. Farò del mio meglio. Ha domande?».

Molte, penso.

«Nessuna» dico.

 

«Entra la corte».

Mi aspettavo più gente: a parte un giovanotto con l’aria annoiata e un taccuino in mano, seduto nell’area riservata alla stampa, in aula non c’è quasi nessuno. Il mio avvocato è seduto al centro della stanza e mi dà le spalle. Una donna giovane con una gonna blu siede accanto a lui, intenta a evidenziare alcuni passaggi di un foglio scritto al computer. Allo stesso tavolo, ma qualche metro più in là, siede il pubblico ministero con un’assistente, una coppia quasi identica alla difesa.

L’usciere accanto a me mi tira per la manica, mi accorgo di essere l’unica ancora in piedi. Il magistrato, un uomo dalla faccia emaciata e i capelli fini, è arrivato e l’udienza ha inizio. Il cuore mi batte forte e ho le guance in fiamme per la vergogna. Le poche persone tra i banchi del pubblico mi guardano incuriosite, come se fossi un pezzo esposto in un museo. Mi torna in mente una cosa che lessi una volta sulle esecuzioni in Francia: la ghigliottina montata al centro della piazza, perché tutti potessero vederla; le tricoteuses, le donne che lavoravano a maglia aspettando l’esecuzione. Un brivido mi corre lungo la schiena quando realizzo che il condannato oggi sono io.

«L’imputata si alzi, per favore».

Mi rimetto in piedi e pronuncio il mio nome quando mi viene chiesto.

«Come si dichiara?».

«Colpevole». La mia voce vacilla. Mi schiarisco la gola, ma non mi chiedono di aggiungere altro.

Gli avvocati discutono della libertà provvisoria, un fiume di parole che mi fa girare la testa.

«La posta in palio è troppo alta. L’accusata potrebbe fuggire».

«L’accusata si è attenuta alle condizioni della libertà provvisoria, continuerà a rispettarle».

«C’è un’accusa di omicidio di cui tener conto».

«C’è una vita di cui tener conto».

Non si affrontano direttamente, si parlano attraverso il magistrato, come farebbero due bambini litigiosi con un genitore. Usano termini eccessivamente emotivi, accompagnati da una gestualità teatrale, che stride nell’aula deserta. Discutono di me: devo restare in carcere in attesa del processo o posso essere rilasciata con l’obbligo di non lasciare la mia casa? Vorrei tirare il mio avvocato per la manica e dirgli che non mi interessa la libertà provvisoria. A parte Beau, non c’è nessuno che mi aspetti. Nessuno sentirà la mia mancanza. In prigione sarò al sicuro. Ma resto seduta in silenzio, le mani in grembo, a chiedermi che impressione sto dando. Non che qualcuno mi stia guardando. Sono invisibile. Cerco di seguire le argomentazioni degli avvocati, per capire chi vincerà quella battaglia di parole, ma la teatralità di quella scena mi confonde e mi distrae.

Nell’aula cala il silenzio e il magistrato mi fissa, grave. Sento il bisogno di dirgli che non sono come gli altri imputati. Sono cresciuta in una famiglia per bene, ho frequentato l’università, ho organizzato cene e intrattenuto amici. Ero sicura di me ed estroversa.

Fino a poco tempo fa non avevo mai infranto la legge. Quello che è successo è stato solo un terribile sbaglio. Ma dal suo sguardo distaccato capisco che non gli importa di me e del mio passato. Sono una criminale, come tanti altri. Ancora una volta è come se cancellassero la mia identità.

«L’arringa del suo avvocato è stata appassionante, signora Gray» dice il magistrato. «Sembrerebbe che la sua latitanza sia improbabile almeno quanto una sua fuga sulla luna». Si sente ridacchiare tra il pubblico, due signore in seconda fila, con un thermos davanti. Le tricoteuses dei nostri giorni. Il magistrato accenna un sorriso, compiaciuto. «L’abbandono della scena del crimine è stata dettata da un momento di follia, a quanto pare. È un comportamento che non le appartiene e che non si ripeterà, secondo il suo avvocato. Spero, signora Gray, per il bene di tutti, che abbia ragione».

Fa una pausa. Io trattengo il fiato.

«La libertà provvisoria è accordata».

Sospiro, ma non per sollievo.

Il giovane con il taccuino scivola fuori dai banchi per la stampa, fa un cenno verso la panca ed esce, lasciando oscillare la porta alle sue spalle.

«La Corte si ritira».

Mentre il magistrato abbandona all’aula, il brusio aumenta, il mio avvocato si china a parlare con il pubblico ministero. Ridono per qualcosa, poi viene verso di me.

«Un buon risultato» dice, sorridendo. «Il caso è stato rinviato a giudizio, la sentenza è fissata per il diciassette marzo. Riceverà informazioni in merito al supporto legale. Buon rientro a casa, signora Gray».

È strano poter lasciare l’aula liberamente, dopo ventiquattro ore passate in cella. Prendo un caffè al bar del tribunale e mi scotto la lingua, impaziente di assaggiare qualcosa di più forte del tè insapore della centrale di polizia.

Davanti al tribunale, una piccola folla di persone si ripara dalla pioggia sotto una tettoia di vetro. Parlano concitate, tra un tiro e l’altro di sigaretta. Mentre scendo i gradini una donna mi viene addosso. Il caffè fuoriesce, mi sporco le mani.

«Mi scusi» dico istintivamente. Quando alzo lo sguardo, mi accorgo che la donna è ferma davanti a me e ha in mano un microfono. Un lampo di luce mi abbaglia, c’è anche un fotografo a pochi passi.

«Cosa prova alla prospettiva di andare in prigione, Jenna?».

«Cosa? Io…».

Il microfono è così vicino che quasi mi sfiora le labbra.

«Continuerà a dichiararsi colpevole? Come crede che si senta la famiglia di Jacob?».

«Io, sì, io…».

La gente mi spintona, un giornalista urla, in sottofondo si ode un coro le cui parole non riesco a decifrare. C’è così tanto rumore che sembra di essere allo stadio, o a un concerto. Non riesco a respirare e, quando provo a tornare verso l’ingresso, vengo ributtata indietro.

Mi tirano per il giaccone e perdo l’equilibrio, finisco addosso a qualcuno. Sopra la folla di manifestanti spunta un cartello dipinto a mano. GIUSTIZIA PER JACOB!

Ecco. È questa lo slogan che gridano in coro.

«Giustizia per Jacob! Giustizia per Jacob!» Lo ripetono all’infinito, mi circondano, non mi lasciano spazio per respirare. Il bicchiere con il caffè mi sfugge di mano e il liquido si sparge sulle mie scarpe e sui gradini. Inciampo di nuovo, ho paura di finire schiacciata sotto quella folla inferocita.

«Feccia!».

Riesco a distinguere una bocca distorta, un volto di donna e un paio di enormi orecchini pendenti. Emette un suono profondo, gutturale, poi mi sputa in faccia. Mi volto appena in tempo, la saliva calda mi colpisce sul collo e scivola sul giaccone. Sono scioccata, come se mi avesse tirato un pugno, e grido, mi copro il viso con le braccia, in attesa del prossimo attacco.

«Giustizia per Jacob! Giustizia per Jacob!».

Mi tirano per la spalla, mi irrigidisco, cerco disperatamente di divincolarmi e fuggire.

«Che ne dice di fare un’altra strada?».

È l’ispettore Stevens. Con espressione severa e determinata, mi trascina su per le scale e di nuovo dentro il tribunale. Mi lascia andare solo dopo che abbiamo passato il controllo di sicurezza. Lo seguo in silenzio attraverso un paio di porte scorrevoli fino ad arrivare in un cortiletto tranquillo sul retro. Mi indica un cancello.

«Da lì arriverà alla stazione degli autobus. Sta bene? Posso chiamare qualcuno?».

«Sto bene. Grazie. Non so che cosa avrei fatto senza di lei». Devo ancora riprendermi.

«Maledetti avvoltoi. I giornalisti non si fermano davanti a niente pur di trovare una storia da raccontare. E sappia che molti dei manifestanti sono solo perditempo, gente che non ha nient’altro da fare e a cui non importa dell’incidente. Quindi non la prenda troppo sul personale».

«Ci proverò». Sorrido impacciata e mi volto, ma lui mi trattiene.

«Signora Gray?».

«Sì?».

«Ha mai abitato al 127 di Grantham Street?».

Mi si gela il sangue, cerco di restare impassibile.

«No, ispettore. Non ci ho mai abitato».

Lui annuisce e mi saluta con un cenno. Quando esco dal cancello è ancora lì, che mi guarda mentre mi allontano.

 

Fortunatamente, il treno per Sawnsea è quasi vuoto; mi appoggio al sedile sfinita e chiudo gli occhi. Sto ancora tremando. Guardo fuori dal finestrino, la prospettiva di tornare in Galles mi è di conforto.

Quattro settimane. Ho ancora quattro settimane prima di andare in prigione. Sembra impossibile eppure è vero. Chiamo Bethan e le dico che stasera sarò a casa.

«Ti hanno concesso la libertà provvisoria?».

«Fino al diciassette marzo» dico senza entusiasmo

«E non sei contenta?».

«Sei stata in spiaggia oggi?»

«Ho portato i cani lungo la scogliera all’ora di pranzo. Perché?».

«Hai visto niente sulla sabbia?».

«Niente di insolito. Che cosa ti aspettavi?».

Sono sollevata. Comincio a pensare di avere solo immaginato quella scritta. «Non importa» dico. «Ci vediamo tra un po’».

 

Bethan mi invita a cena, ma rifiuto scusandomi: non sarei una buona compagnia. Lei insiste perché prenda almeno qualcosa da mangiare. Aspetto, mentre versa un po’ di zuppa in una vaschetta di plastica, la saluto e mi avvio con Beau lungo il sentiero che porta al cottage.

La porta si è deformata per l’umidità e il freddo. Ora non riesco più a girare la chiave. Spingo con la spalla, quanto basta a forzare il chiavistello. Beau si mette ad abbaiare furioso e gli dico di stare buono.

La chiave adesso gira a vuoto. Credo di aver rotto definitivamente la serratura, ma non mi importa. Se Iestyn fosse venuto ad aggiustarla subito, sarebbe stato un lavoretto da nulla. Adesso il danno è ancora più grande.

Verso la zuppa di Bethan in una pentola e la metto sulla stufa, con il pane accanto. Il cottage è freddo, cerco qualcosa da mettermi, ma di sotto non trovo niente. Beau è agitato, corre da una parte all’altra, come se fosse stato lontano da casa molto più di ventiquattro ore.

Mentre salgo le scale mi accorgo che c’è qualcosa di strano. Non era ancora buio quando sono entrata in casa, eppure non arriva luce dalla piccola finestra del piano di sopra. È come se qualcosa la ostruisse.

Solo in cima alle scale capisco cosa.

«Non hai mantenuto le tue promesse, Jennifer».

Ian flette un ginocchio e mi sferra un calcio al centro del petto. Perdo la presa sul corrimano e precipito all’indietro, rotolo giù dalle scale fino a schiantarmi sul pavimento di pietra.