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Tre giorni dopo ti sei tolta l’anello ed è stato come se mi avessi dato un pugno. Hai detto che temevi di rovinarlo e che avevi paura di perderlo. Hai preso l’abitudine di portarlo al collo, appeso a una catenina d’oro sottile. Siamo andati in giro per gioiellerie a cercare una fede nuziale, qualcosa di semplice che potessi indossare sempre.

«Puoi metterla subito» ho detto appena usciti dalla gioielleria.

«Ma ci sposiamo fra sei mesi!».

Ti stringevo la mano, sempre più forte, mentre attraversavamo la strada. «Al posto dell’anello di fidanzamento, intendo.».

Tu non hai capito.

«Non è un problema, Ian, davvero. Posso aspettare finché non saremo sposati».

«Ma come fa la gente a sapere che siamo fidanzati?». Non volevo cedere. Mi sono fermato e ti ho presa per le spalle. Ti sei guardata intorno, la strada era piena di gente in giro per compere; hai cercato di divincolarti ma io ho ti ho trattenuta. «Come sapranno che sei mia, se non porti il mio anello?».

Avevi la tipica espressione di Marie, un misto di timore e disprezzo, un’espressione che mi faceva infuriare. Come osavi aver paura di me? Stavo per perdere il controllo, ho visto una smorfia di dolore sul tuo viso. Ho allentato le presa.

«Mi ami?» ti ho chiesto.

«Lo sai che è così».

«Allora perché non vuoi che tutti sappiano che stiamo per sposarci?».

Ho preso la confezione della gioielleria e l’ho aperta. Volevo cancellare quell’espressione sul tuo volto, mi sono messo in ginocchio e ti ho preso la mano. I passanti bisbigliavano, alcuni si fermavano a guardare, e tu sei diventata rossa. Ero orgoglioso di averti. La mia bellissima Jennifer.

«Mi vuoi sposare?».

Ti sei commossa. «Sì».

Questa volta la tua risposta non si era fatta aspettare e la rabbia che provavo è svanita all’istante. Ti ho infilato l’anello al dito e mi sono alzato per baciarti. La gente intorno a noi applaudiva, qualcuno mi ha dato persino una pacca sulla spalla. Ero felice. È così che avrei dovuto fare la prima volta, ho pensato, avrei dovuto rendere il momento magico, speciale. Tu meritavi di più.

Abbiamo passeggiato mano nella mano per le vie affollate. Sotto il pollice sentivo il metallo del tuo anello.

«Sposiamoci subito» ho detto. «Andiamo in comune e chiediamo a un paio di passanti di farci da testimoni».

«Ma abbiamo organizzato tutto per settembre! Ci sarà anche la mia famiglia. Non possiamo farlo adesso da soli».

Era stato faticoso convincerti che una sfarzosa cerimonia in chiesa non era l’ideale: non ci sarebbe stato tuo padre ad accompagnarti all’altare e avremmo dovuto sprecare soldi per invitare amici che ormai non vedevi da tempo. Alla fine avevamo organizzato una cerimonia civile all’Hotel Coutryard e un pranzo per una ventina di persone. Doug era il mio testimone, gli altri invitati erano tutti dalla tua parte. Avevo provato a immaginare i miei genitori in piedi accanto a noi durante la funzione. Ma riuscivo a vedere solo l’espressione di delusione e disprezzo sul volto di mio padre, la stessa che aveva l’ultima volta che ci siamo parlati. Avevo subito allontanato quell’idea dalla mia mente.

Sei stata irremovibile. «Non possiamo cambiare programma ora. Solo sei mesi, Ian: non dobbiamo aspettare a lungo».

Contavo i giorni che mi dividevano dal momento in cui saresti diventata la signora Petersen. Ero sicuro che dopo mi sarei sentito meglio, più tranquillo. Avrei avuto la certezza che mi amavi e che saresti stata mia per sempre.

La notte prima delle nozze hai insistito per dividere la stanza con Eve in albergo, mentre io ho passato una serata imbarazzante al pub con Doug e Jeff. Doug aveva organizzato un vero addio al celibato, ma nessuno ha battuto ciglio quando ho spiegato che preferivo andare a dormire presto.

Il giorno della cerimonia, in albergo, mi sono calmato i nervi con un doppio whisky. Jeff ha cercato di essere socievole, mi ha dato qualche pacca sulla spalla, mi ha detto che ero un tipo in gamba. Ma non avevamo mai avuto niente in comune, non ha nemmeno bevuto insieme a me. Mancava mezz’ora all’inizio della cerimonia, quando ha indicato l’ingresso: era appena entrata una donna con un cappello blu.

«Pronto per conoscere la madre della sposa? Vedrai che non è poi così male». Di solito trovavo Jeff irritante, la sua allegria sopra le righe, le sue battute sempre pronte, ma quel giorno mi ha aiutato a distrarmi. Volevo chiamarti, per assicurarmi che saresti venuta. Non riuscivo a placare la sensazione di panico che mi attanagliava lo stomaco al pensiero che potessi lasciarmi lì da solo, che mi umiliassi davanti a quelle persone.

Siamo andati incontro a tua madre. Mi ha teso la mano e io l’ho stretta, poi mi sono avvicinato e le ho dato un bacio sulla guancia scavata.

«Grace, che piacere conoscerla. Ho sentito tanto parlare di lei».

Mi avevi detto che non le somigliavi affatto, ma aveva zigomi identici ai tuoi. Avrai anche ereditato da tuo padre il colore della carnagione e dei capelli, oltre che i geni dell’artista, ma la costituzione sottile e l’espressione diffidente erano le stesse di tua madre.

«Purtroppo non posso dirle altrettanto». Grace aveva un sorrisetto divertito. «Per sapere che cosa succede nella vita di Jenna, devo parlare con Eve».

Ho nicchiato, lasciando intendere che la vostra assenza di comunicazione dispiacesse anche a me. Le ho offerto da bere e lei ha preso un bicchiere di champagne. «Per festeggiare» ha detto, ma non ha proposto un brindisi.

Sembrava un matrimonio come tanti: ti ho aspettata per un quarto d’ora – un ritardo canonico, credo – e Doug ha fatto finta di aver perso gli anelli. Ma quando sei entrata, ho pensato che nessuna sposa fosse bella quanto te. Indossavi un abito semplice, con la scollatura a cuore. La gonna scivolava sulle anche e scendeva fino a terra in uno scintillio di raso. Avevi un piccolo bouquet di rose bianche e i tuoi capelli, ricci e lucenti, erano raccolti.

In piedi, uno accanto all’altra, ascoltavamo il funzionario comunale che celebrava la cerimonia. Quando abbiamo pronunciato le nostre promesse, mi hai guardato negli occhi e io non ho più pensato a Jeff, a Doug e a tua madre. Anche se ci fossero state mille persone in quella stanza, io non avrei visto altri che te.

«Vi dichiaro marito e moglie».

È seguito un timido applauso, ti ho baciato sulle labbra, e siamo usciti insieme dalla sala. Il rinfresco era stato allestito vicino al bar. Ti guardavo mentre ti aggiravi tra gli ospiti, mostrando il tuo anello.

«Ha un aspetto fantastico, vero?».

Non mi ero accorto che Eve fosse al mio fianco. «Lei è fantastica». Ha annuito.

Poi mi ha guardato dritto negli occhi. «Non le farai del male, vero?».

Ho riso. «È il giorno del mio matrimonio. Che razza di domanda è? ».

«La più importante di tutte, non credi?». Ha bevuto un sorso di champagne, continuando a scrutarmi. «Mi ricordi mio padre».

«Bene, forse è per questo che Jennifer mi ha scelto».

«Può darsi. Spero solo che non la deluderai anche tu».

«Non ho intenzione di abbandonare tua sorella. Comunque non sono affari tuoi. È una donna ormai, non è più una bambina che piange per quel dongiovanni del padre».

«Mio padre non era un dongiovanni». Non sembrava un tentativo di difesa. Era una constatazione. Avevo sempre dato per scontato che tuo padre avesse lasciato tua madre per un’altra donna.

«Allora perché se n’è andato?».

Ha ignorato la mia domanda. «Prenditi cura di Jenna. Merita di essere trattata bene».

Ero stanco di ascoltare quelle noiose raccomandazioni da sorella maggiore. E non sopportavo più la sua espressione presuntuosa. L’ho piantata lì al bar e sono venuto ad abbracciarti. Ad abbracciare mia moglie.

 

Ti avevo promesso di portarti a Venezia, non vedevo l’ora di arrivare. All’aeroporto hai esibito orgogliosa il tuo nuovo passaporto, sorridendo mentre ripetevano ad alta voce il tuo nuovo cognome.

«Suona così strano!».

«Ti ci abituerai presto, signora Petersen».

Quando hai scoperto che avremmo viaggiato in prima classe hai voluto approfittare di tutti i servizi disponibili. Il volo durava appena due ore, ma in quel lasso di tempo hai provato una maschera per gli occhi, fatto zapping tra i film disponibili e bevuto champagne.

Ti guardavo: era bello vederti felice e sapere che era merito mio.

La navetta per l’albergo era in ritardo, così quando siamo arrivati in città era ormai molto tardi. Lo champagne mi aveva fatto venire mal di testa e il servizio scadente mi aveva messo di cattivo umore. Una volta tornati a Bristol avrei chiesto un rimborso.

«Lasciamo i bagagli e usciamo» hai detto quando siamo entrati nell’atrio rivestito di marmo.

«Ci fermiamo due settimane. Abbiamo tutto il tempo. Ordiniamo il servizio in camera e disfiamo le valigie. E poi…» ti ho messo un braccio intorno alla vita e ti ho stretto una natica, «è la nostra prima notte di nozze».

Mi hai baciato, ma poi ti sei allontanata. «Non sono neanche le dieci! Facciamo un giro qui intorno e beviamo qualcosa, e poi ti prometto che andiamo a letto».

L’uomo al banco della reception ci guardava divertito. «Una scaramuccia tra innamorati?». Ti sei messa a ridere. Gli ho lanciato un’occhiataccia.

«Sto cercando di convincere mio marito a fare una passeggiata prima di andare a dormire. Venezia è così bella». Biascicavi le parole, era chiaro che avevi bevuto troppo.

«È bellissima, signora, ma non quanto lei». Ha fatto un inchino ridicolo.

Mi sarei aspettato che quel commento ti infastidisse, ma sei arrossita. Eri lusingata, lusingata dai complimenti di quel playboy viscido con le unghie curate e un fiore nel taschino della giacca.

«La nostra chiave, per favore» ho detto sporgendomi sul bancone. Per un attimo è rimasto interdetto, ma poi mi ha dato il cartoncino con le nostre due chiavi elettroniche.

«Buona serata, signore».

Adesso non sorrideva più.

Un facchino era pronto a portare i nostri bagagli, ma io ho rifiutato. Ho lasciato che trascinassi la tua valigia fino all’ascensore, dove ho premuto il pulsante del terzo piano. Ti guardavo attraverso lo specchio.

«È stato gentile, vero?» hai detto.

Ho sentito un sapore acido in gola. Era stato tutto così perfetto all’aeroporto, così bello in aereo; e adesso avevi rovinato tutto. Parlavi ma io non ti ascoltavo: pensavo a come gli avevi sorriso, a come eri arrossita. Avevi flirtato con lui, ti era piaciuto.

La nostra stanza era in fondo al corridoio. Ho infilato la chiave, impaziente di sentire lo scatto della serratura. Sono entrato subito, senza preoccuparmi di tenerti aperta la porta. Nella stanza faceva caldo, troppo, ma le finestre non si aprivano. Mi sono slacciato il colletto della camicia per respirare. Il sangue mi pulsava nelle orecchie e tu continuavi a chiacchierare, come se non fosse successo niente; come se non mi avessi umiliato.

Ho serrato il pugno senza rendermene conto, la pelle tesa sulle nocche. Sentivo una bolla di rabbia dentro il petto, riempiva ogni spazio, premeva sui polmoni. Ti ho guardato: non la smettevi di ridere, di blaterare; ho alzato il pugno e ti ho colpito in faccia.

La bolla di rabbia è scoppiata all’istante. Una grande calma mi ha invaso, simile al calo di adrenalina che segue un amplesso o un allenamento in palestra. Il mal di testa è svanito e il muscolo vicino all’occhio ha smesso di pulsare. Hai fatto un verso strano, un suono strozzato.

Sono uscito dalla stanza, ho preso l’ascensore e ho attraversato la hall senza voltarmi verso la reception. Ho trovato un bar e ho bevuto due birre, ignorando i tentativi di conversazione del barista.

 

Un’ora dopo sono tornato in albergo.

«Posso avere del ghiaccio, per favore?».

«Sì, signore». L’uomo è scomparso nel retro ed è tornato con un secchiello per il ghiaccio. «Vuole anche i bicchieri, signore?».

«No, grazie».

Ero di nuovo tranquillo, il respiro lento e controllato. Sono salito a piedi, per prendere tempo.

Quando ho aperto la porta eri raggomitolata sul letto. Ti sei tirata su di scatto, arretrando verso la spalliera. Sul comodino c’era un mucchietto di fazzoletti di carta sporchi e avevi del sangue rappreso sul labbro superiore. Sul naso e intorno all’occhio si stava formando un livido. Sei scoppiata a piangere, le lacrime si mischiavano al sangue e colavano sulla camicia tingendola di rosa.

Ho posato il secchiello sul tavolo e ho messo qualche cubetto di ghiaccio dentro un tovagliolo. Sono venuto a sedermi vicino a te. Tremavi, ti ho tamponato la pelle con delicatezza.

«Sono stato in un bel bar. Credo che ti piacerebbe. E ho fatto due passi: ho visto un paio di posti in cui potremmo andare a pranzo domani, se te la sentirai».

Ho spostato il ghiaccio. Hai spalancato gli occhi. Stavi ancora tremando.

«Hai freddo? Ecco, mettiti questa». Ho preso la coperta ai piedi del letto e te l’ho avvolta intorno alle spalle. «Sei stanca, è stata una giornata lunga». Ti ho dato un bacio sulla fronte, non smettevi di piangere. Era un peccato che avessi rovinato la nostra prima notte di nozze. Avevo pensato che fossi diversa, che non avrei più avuto bisogno di sfogare la mia rabbia. E invece, alla fine, eri uguale a tutte le altre.