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Beau affonda il muso nell’incavo della mia gamba, dietro il ginocchio, e io tendo la mano per accarezzarlo. Non ho potuto impedirmi di amarlo, così ora dorme sul mio letto, dove ha desiderato stare sin dal primo giorno. Quando arrivano gli incubi e mi sveglio gridando, lui mi lecca la mano e mi rassicura. Un po’ alla volta, il mio dolore è cambiato: da grezzo e tagliente, impossibile da mettere a tacere, a cupo e smussato. Ora sono in grado di chiuderlo in un angolo della mia mente. Se lo lascio lì, silenzioso e indisturbato, riesco a fingere che le cose vadano abbastanza bene, e che non abbia mai avuto una vita diversa da questa.

«Andiamo, dai». Spengo la luce accanto al letto, ormai solo un pallido lumicino al confronto di quella che entra dalla finestra. Ho imparato a conoscere le stagioni di Penfach, ed è bello pensare che ormai sono qui da quasi un anno. La baia cambia da un giorno all’altro. Cambiano le maree, cambia il tempo, in modo imprevedibile, e persino i detriti portati dalle onde sulla spiaggia cambiano ogni ora. Oggi il mare è gonfio per la pioggia caduta nella notte, la sabbia è grigia e bagnata sotto le pesanti nuvole. Non ci sono più tende al campeggio di Bethan, solo roulotte fisse e alcuni camper di villeggianti che approfittano dei prezzi bassi di fine stagione. Presto il campeggio chiuderà e la baia tornerà a essere solo mia.

Beau corre sulla spiaggia davanti a me. La marea sta salendo e lui si inoltra nell’acqua, abbaiando alle onde. Adesso somiglia più a uno spaniel che a un collie. Ha le zampe lunghe e sproporzionate da cucciolo e così tanta energia che mi chiedo se possa mai arrivare a esaurirla del tutto.

Scruto attentamente la scogliera: è deserta. Provo una delusione cocente ma la scaccio immediatamente. È ridicolo sperare di vedere Patrick, ci siamo incontrati quaggiù solo una volta. Eppure il pensiero prende forma nella mia mente senza che io riesca a impedirlo.

Trovo una striscia di sabbia su cui scrivere. Suppongo che gli ordini diminuiranno durante l’inverno, ma per ora gli affari vanno abbastanza bene. Sono felice ogni volta che arriva una nuova commissione e mi piace immaginare le storie che si celano dietro ai messaggi. Molti dei miei clienti hanno un legame con questo posto e, dopo aver ricevuto la foto, mi scrivono per ringraziarmi e per raccontarmi che da bambini trascorrevano l’estate qui o in viaggio con la famiglia lungo la costa. Qualcuno vuole sapere il nome della spiaggia, ma io non rispondo mai.

Sto per mettermi al lavoro, ma Beau comincia ad abbaiare e vedo un uomo puntare verso di noi. Trattengo il respiro. Quando alza la mano per salutare, capisco che è lui. È Patrick. Non posso fare a meno di sorridere; mi batte il cuore, e questa volta non è per la paura.

«Speravo di trovarla qui» dice ancora prima di avermi raggiunta. «Non è che le serve un apprendista?». Oggi non porta gli stivali. I pantaloni di velluto a coste sono sporchi di sabbia e il collo della cerata ha un lembo sollevato. Resisto alla tentazione di sistemarglielo.

«Buongiorno» dico. «Un apprendista?».

Con un ampio gesto indica la baia. «Ho pensato che potrei aiutarla mentre lavora».

Non capisco se mi sta prendendo in giro e non replico.

Patrick mi toglie il bastone di mano e aspetta, immobile. L’idea mi piace e allo stesso tempo mi agita. «È più difficile di quanto sembri» dico in tono serio per mascherare l’imbarazzo. «Nella foto non devono vedersi impronte, e bisogna lavorare in fretta, prima che la marea salga».

Nessuno ha mai condiviso con me questa parte della mia vita: ho sempre tenuto l’arte separata dal resto, come se non appartenesse al mondo reale.

«Tutto chiaro». Ha un’espressione concentrata che mi intenerisce. Dopotutto, è solo un messaggio scritto sulla sabbia.

«Semplice e gentile: “Grazie, David”» leggo ad alta voce.

«Ma grazie per cosa di preciso? » chiede Patrick, chinandosi sulla sabbia per tracciare la prima lettera. «Grazie per aver dato da mangiare al gatto? Grazie per avermi salvato la vita? Grazie per avermi voluto sposare anche dopo quella scappatella con il postino?».

Mi viene da sorridere. «Grazie per avermi insegnato a ballare il flamenco» dico sforzandomi di restare seria.

«Grazie per la selezione di sigari cubani».

«Grazie per avermi concesso il fido».

«Grazie per…». Patrick tende il braccio per completare l’ultima parola e si sbilancia in avanti. Atterra con un piede proprio al centro della scritta. «Maledizione». Fa un passo indietro per contemplare il messaggio rovinato e mi guarda dispiaciuto.

Io scoppio a ridere. «L’avevo avvertita che è più difficile di quanto possa sembrare».

Mi restituisce il bastone. «Mi inchino davanti alle sue doti artistiche. Anche senza l’impronta il risultato non era un granché: le lettere sono tutte diverse».

«È stato un tentativo coraggioso». Mi guardo attorno per cercare Beau: sta giocando con un granchio e lo richiamo.

«E di questo cosa ne dice?» chiede Patrick. Mi volto, convinta che abbia provato a riscrivere il messaggio.

 

Usciamo?

 

«Va meglio,» dico «anche se non è uno dei…». M’interrompo, mi sento una stupida. «Oh, ora ho capito».

«Facciamo al Cross Oak… Stasera?». Patrick sembra esitante e capisco che è nervoso. Questo mi dà coraggio. Esito anch’io, ma solo per un secondo, ignorando i battiti impazziti del mio cuore. «Volentieri».

 

Per tutto il resto della giornata mi pento di essere stata tanto impulsiva e, quando arriva la sera, sono così in ansia che non riesco a smettere di tremare. Immagino che cosa potrebbe succedermi e ripercorro ogni parola di Patrick in cerca di un segnale d’allarme. È davvero una persona per bene come sembra? Esistono le persone per bene? Considero l’idea di andare a Penfach per chiamare l’ambulatorio e annullare l’appuntamento, ma so che non ne avrò il coraggio. Per tenermi occupata faccio un bagno; l’acqua troppo calda mi arrossa la pelle. Poi mi siedo sul letto e penso a cosa indossare. Sono passati dieci anni dal mio ultimo appuntamento e ho paura di sembrare inadeguata. Bethan mi ha dato altri vestiti che non le andavano più. Sono quasi tutti troppo larghi per me, ma provo una gonna color violetta che non mi sta male, anche se devo stringerla un po’ in vita con un foulard. Cammino per la stanza, godendomi la strana sensazione delle gambe che si sfiorano, del tessuto che le accarezza. Per un istante torno ragazza. Poi mi guardo allo specchio e mi accorgo che le ginocchia sono scoperte. Mi tolgo la gonna e l’appallottolo, nascondendola in fondo all’armadio. Infilo i jeans che indossavo prima, metto una maglia pulita e mi spazzolo i capelli. Sono vestita più o meno come un’ora fa, come sempre. Ripenso alla ragazza che passava ore a prepararsi: la musica in sottofondo, i trucchi sparsi per il bagno, l’aria impregnata di profumo. Allora non sapevo nulla della vita.

Mi incammino verso il campeggio, dove abbiamo stabilito di incontrarci. All’ultimo momento decido di portare con me Beau, e la sua presenza mi restituisce un po’ dell’audacia che avevo stamattina in spiaggia. Patrick è sulla porta dello spaccio e chiacchiera con Bethan. Stanno ridendo, spero non di me.

Bethan mi vede arrivare, e Patrick si volta e mi sorride. Mi aspetto che mi saluti con un bacio sulla guancia, invece mi sfiora dolcemente il braccio. Si sarà accorto che sono terrorizzata?

«Divertitevi!» dice Bethan con un sorrisino.

Patrick ride e ci dirigiamo in paese. È un abile intrattenitore. Sono sicura che esagera nel descrivere le stranezze di certi suoi pazienti, ma gli sono grata per queste storielle divertenti. Quando arriviamo sono un po’ più rilassata.

Il padrone del Cross Oak si chiama Dave Bishop e si è trasferito a Penfach da pochi anni. Lui e sua moglie sono perfettamente integrati nella comunità e, come tutti gli altri abitanti, conoscono ogni pettegolezzo. Non sono mai stata nel pub, ma mi è capitato di incontrare Dave durante le spedizioni all’ufficio postale con Beau.

La mie speranza di poter bere qualcosa e chiacchierare in tranquillità svanisce nel momento stesso in cui varchiamo la soglia.

«Patrick! Offri da bere?».

«Devi venire a vedere di nuovo la mia Rosie, non sta bene».

«Come sta il tuo vecchio? Non gli manca un po’ il clima del Galles?».

Le voci che si accavallano e lo spazio angusto del locale mi rendono nervosa. Stringo il guinzaglio di Beau e sento il cuoio scivolare contro il palmo sudato. Patrick risponde a tutti ma non si ferma a parlare con nessuno. Mi posa una mano sulla schiena e mi sospinge con dolcezza attraverso la folla. Sento il calore della sua mano e sono sollevata e delusa allo stesso tempo quando la sposta per incrociare le braccia sul bancone. «Che cosa prendi?».

Preferirei che ordinasse prima lui. Vorrei una bottiglia di birra fresca, ma mi guardo attorno per vedere se ci sono altre donne che bevono birra.

Dave richiama la mia attenzione. «Un gin tonic» dico, nervosa. Non ho mai bevuto gin prima d’ora. Ho avuto momenti di indecisione simili, ma ormai non ricordo più quando.

Patrick ordina una Becks e mi trovo a contemplare la sua bottiglia appannata.

«E così tu sei la fotografa che vive a Blaen Cedi. Ci chiedevamo dove ti nascondessi».

L’uomo che mi ha rivolto la parola ha più o meno l’età di Iestyn, porta un cappello di tweed e un paio di basette molto pronunciate.

«Lei è Jenna» interviene Patrick. «Ha un’attività e non ha il tempo di scolarsi litri di birra con voi avanzi di galera».

L’uomo ride, io arrossisco e guardo Patrick, riconoscente. Scegliamo un tavolo in un angolo; sento gli occhi della gente addosso e so che, di sicuro, in paese cominceranno a circolare voci su di noi; per fortuna dopo un po’ gli avventori tornano a concentrarsi sulle loro pinte.

Sto molto attenta a non parlare troppo ma, per fortuna, Patrick ha tante cose da raccontare e conosce molti aneddoti interessanti sulla storia del posto.

«È un luogo piacevole» dico.

Allunga le gambe. «Sì, è vero. Anche se non la pensavo così da giovane. I ragazzi non sanno apprezzare un bel paesaggio o i vantaggi di vivere in una piccola comunità. Non facevo che tormentare i miei perché ci trasferissimo a Sawnsea, ero certo che la mia vita sarebbe cambiata, che sarei diventato molto popolare, che avrei avuto tanti amici e un sacco di fidanzate». Ride. «Ma loro non presero mai in considerazione l’idea di spostarci e così frequentai le superiori qui».

«Hai sempre voluto fare il veterinario?».

«Sin da bambino. Mettevo in fila i miei pupazzi nell’ingresso e chiedevo a mia madre di portarli in cucina, dove li operavo uno alla volta». Mentre parla, il suo viso s’illumina. Piccole rughe si formano agli angoli degli occhi e un sorriso compare sulle labbra. «Dopo le superiori ho frequentato faticosamente i corsi di livello avanzato necessari e mi sono iscritto alla facoltà di Veterinaria dell’Università di Leeds, dove finalmente ho avuto la vita sociale che tanto sognavo».

«E un sacco di fidanzate» aggiungo. Patrick ride.

«Forse una o due. Ma dopo tanti anni passati a desiderare di andarmene, il Galles mi mancava moltissimo. Dopo la laurea ho trovato lavoro vicino a Leeds e, appena si è presentata l’opportunità di diventare socio dell’ambulatorio di Port Ellis, l’ho colta al volo. A quel punto i miei stavano cominciando a invecchiare e non sopportavo più di stare lontano dal mare».

«Quindi i tuoi vivono a Port Ellis?». Sono sempre incuriosita dalle persone che hanno un rapporto stretto con i genitori: non è invidia, semplicemente non riesco a immaginare come possa essere. Forse, se mio padre non fosse andato via, le cose sarebbe state diverse.

«Mia madre è nata qui. Mio padre si è trasferito con la sua famiglia da ragazzo. Si sono sposati quando avevano diciannove anni».

«Anche tuo padre era veterinario?». Faccio troppe domande, lo so… ma ho paura che, se smettessi, toccherebbe a me dare delle risposte. E Patrick, con il suo sorriso nostalgico, sembra contento di raccontarmi la storia della sua famiglia.

«È ingegnere. Adesso è in pensione ma ha lavorato tutta la vita per una società fornitrice di gas di Swansea. Se sono volontario nel Soccorso marino lo devo a lui. L’ha fatto per anni. Scappava sempre via a metà del pranzo della domenica e mia madre ci faceva recitare una preghiera perché tornasse sano e salvo. Da bambino pensavo che fosse un supereroe». Beve un sorso di birra. «A quei tempi l’unità di salvataggio era a Penfach, prima che costituissero quella di Port Ellis».

«Ti chiamano spesso?».

«Dipende. Più spesso d’estate, quando i campeggi sono affollati. Le scogliere sono piene di segnali di pericolo e di cartelli che riportano il divieto di entrare in acqua con l’alta marea, ma nessuno ci fa caso». A un tratto si fa serio. «Devi stare attenta quando nuoti nella baia: la corrente è molto forte».

«Non sono una grande nuotatrice» dico. «Sono entrata in acqua solo fino alle ginocchia».

«Non farlo» dice Patrick. Nei suoi occhi c’è un’intensità che mi spaventa, mi muovo a disagio sulla sedia. Patrick abbassa lo sguardo e beve un lungo sorso di birra. «La corrente ti trascina» dice laconico.

Annuisco, e gli prometto che non andrò mai a nuotare.

«Sembra strano, ma il punto più sicuro è proprio al largo». Gli occhi di Patrick si illuminano. «D’estate è bellissimo uscire in barca e puntare verso il mare aperto. Ti ci porterò, se ti va».

Lo ha detto così, tanto per dire, ma non posso fare a meno di tremare. L’idea di stare in mezzo all’oceano con Patrick, o con chiunque, mi terrorizza.

«L’acqua non è fredda come pensi» continua Patrick, fraintendendo il mio disagio. Poi tace, e tra noi cala un silenzio imbarazzante.

Mi chino per accarezzare Beau, che dorme sotto il tavolo, e penso a qualcosa da dire. Finalmente lo trovo: «I tuoi genitori vivono ancora qui?». Non sono stata sempre così noiosa. Ripenso agli anni dell’università, quando ero l’anima di ogni festa e gli amici ridevano di gusto alle mie battute. Adesso anche solo fare conversazione mi costa un’enorme fatica.

«Si sono trasferiti in Spagna un paio d’anni fa, fortunati loro. Mia madre ha l’artrite e il caldo le fa bene alle articolazioni, o, almeno, questa è la scusa. E tu? Hai ancora i genitori?».

«Non proprio».

Patrick sembra incuriosito. Avrei fatto meglio a rispondere semplicemente di no. Prendo un respiro profondo. «Non sono mai andata molto d’accordo con mia madre» dico. «Ha mandato via di casa mio padre quando avevo quindici anni e da allora non l’ho più visto. Non l’ho mai perdonata per questo».

«Avrà avuto delle buone ragioni». Non lo dice in modo provocatorio, ma mi metto comunque sulla difensiva.

«Mio padre era un uomo eccezionale» rispondo. «Lei non lo meritava».

«Quindi non hai più visto neanche tua madre?».

«Per diversi anni, poi abbiamo litigato quando…». M’interrompo. « Un paio di anni fa mia sorella mi ha scritto per dirmi che mia madre era morta». Patrick mi guarda con compassione, ma io preferisco ignorarlo. Sono un vero disastro. Dev’essere abituato a frequentare persone molto più solari: di sicuro si è pentito di avermi invitato a uscire. Abbiamo esaurito gli argomenti di conversazione e a me non viene in mente altro da dire. Ho paura delle domande che leggo nei suoi occhi: perché sono venuta a Penfach; per quale ragione ho lasciato Bristol; come mai sono qui da sola. Sono domande innocenti, non sa che è meglio non conoscere la verità. Che non posso dirgli la verità.

«Devo rientrare» dico.

«Subito?». Credo sia sollevato anche se non lo dà a vedere. «È presto. Potremmo bere qualcos’altro o ordinare da mangiare».

«No, davvero, devo andare. Ti ringrazio». Mi alzo per uscire prima che possa chiedermi di vederci ancora, ma lui spinge indietro la sedia e si alza a sua volta.

«Ti accompagno».

Nella testa mi risuona un campanello d’allarme. Perché vuole accompagnarmi? Il pub è caldo e accogliente, ci sono i suoi amici e non ha ancora finito la birra. Le tempie mi pulsano. Penso a quanto è isolato il cottage: nessuno potrebbe sentirci. Patrick sembra gentile ora, una persona per bene, ma io so come possono cambiare in fretta le cose.

«No, davvero».

Mi faccio strada tra la gente, incurante di quello che penserà di me. Esco dal pub, mi sforzo di camminare con calma finché svolto l’angolo, poi corro verso il campeggio e lungo il sentiero che porta a casa. Beau è dietro di me, sorpreso dal cambiamento di andatura. L’aria fredda mi gela i polmoni ma mi fermo solo quando arrivo al cottage, dove, ancora una volta, ingaggio una battaglia con la serratura. Finalmente riesco a entrare, tiro il chiavistello e mi appoggio alla porta.

Il cuore mi batte all’impazzata e ci metto un po’ a riprendere fiato. Non so neanche più se è Patrick a farmi paura: ormai il panico mi assale di continuo. Non mi fido più del mio istinto, ha sbagliato troppe volte in passato, e la cosa migliore che io possa fare è restare da sola.