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Bethan viene verso di me, indossa un cappello fatto a maglia. Comincia a parlarmi quando è ancora lontana. Sa che non posso sentirla. Vuole solo trattenermi, evitare che me ne vada. Mi fermo e aspetto che mi raggiunga.

Io e Beau abbiamo fatto una passeggiata nei campi, tenendoci alla larga dalle scogliere e dal mare impetuoso. Ho paura dell’acqua, ma ho ancora più paura di quello che può fare la mia mente. Mi sembra di impazzire e so che fuggire non servirà a niente.

«Mi sembrava che fossi tu».

Il campeggio è lontano: non può aver visto che un puntino sulla collina. Il suo sorriso è ancora sincero e caloroso, come se non fosse successo nulla dall’ultima volta che ci siamo parlate. Eppure deve sapere dell’arresto. Tutto il paese lo sa.

«Sto andando a fare una passeggiata» dice. «Ti va di venire con me?».

«Tu non fai passeggiate».

«Be’, allora si vede che ho proprio voglia di vederti, no?».

Ci incamminiamo insieme, Beau corre davanti a noi a caccia di conigli, come sempre.

È una giornata fredda e limpida. Mentre camminiamo il respiro si condensa in nuvolette.

È quasi mezzogiorno ma il terreno è ancora duro per la gelata notturna.

La primavera è lontanissima. Ho cominciato a spuntare i giorni sul calendario, la data in cui dovrò ripresentarmi alla polizia è segnata con una croce nera. Ne restano ancora dieci. Mi hanno detto che potrebbe passare molto tempo prima del processo, ma è improbabile che riesca a vedere un’altra estate qui a Penfach.

Chissà quante ne perderò.

«Immagino che tu abbia saputo» dico, incapace di sopportare oltre il silenzio.

«Difficile non sapere a Penfach». Bethan ha il fiatone, rallento. «Non che dia molto credito ai pettegolezzi» prosegue. «Preferirei sentire la tua versione, ma ho avuto la sensazione che ultimamente mi stessi evitando».

Non ribatto.

«Hai voglia di parlarne?».

Scuoto il capo, d’istinto. Ma poi mi rendo conto che devo farlo. Prendo fiato.

«Ho ucciso un bambino. Si chiamava Jacob».

Bethan non dice niente. Sento solo un suono debolissimo, forse un sospiro. Guardo il mare. Ci stiamo avvicinando alle scogliere.

«Era buio e pioveva. Quando l’ho visto era troppo tardi».

Bethan inspira profondamente. «È stato un incidente».

Non me lo sta chiedendo. Non sembra avere nessun dubbio a riguardo. Il suo affetto mi commuove.

«Sì».

«Ma non è tutto, giusto?».

È proprio vero, a Penfach le voci corrono.

«No, non è tutto».

Arriviamo sulla scogliera e proseguiamo verso la baia.

Non riesco quasi a parlare.

«Non mi sono fermata. Me ne sono andata e l’ho lasciato lì, per terra, con sua madre». Non ce la faccio, a guardarla negli occhi. Per un po’ restiamo in silenzio. Poi va dritta al punto.

«Perché?».

È la domanda più difficile, ma finalmente posso dire la verità. «Perché avevo paura».

Mi faccio coraggio: guardo Bethan in faccia, ma non riesco a capire che cosa pensi. Sta osservando il mare. Rimaniamo ferme, una accanto all’altra.

«Mi odi?».

Ha un sorriso triste. «Jenna, hai fatto una cosa terribile e pagherai per il resto della tua vita. Penso che questa sia una punizione sufficiente, non credi?».

«Al negozio si rifiutano di servirmi». Mi sento meschina, a lamentarmi per una sciocchezza simile, ma l’umiliazione brucia più di quanto io stessa voglia ammettere.

Bethan si stringe nelle spalle. «È gente strana. Non amano i forestieri e, appena possono, cercano una scusa per isolarli…».

«Non so come comportarmi».

«Ignorali. Fai la spesa da un’altra parte e cammina a testa alta. Quello che è successo riguarda te e la giustizia, non è affar loro».

Le sorrido con gratitudine. Il pragmatismo di Bethan è disarmante.

«Ieri ho portato uno dei gatti all’ambulatorio» dice con noncuranza.

«Hai parlato con Patrick?».

Si ferma e si volta a guardarmi. «Lui non sa che cosa dirti».

«Non ho avuto quest’impressione l’ultima volta che l’ho visto». Ricordo il tono gelido e la totale assenza di emozioni nel suo sguardo quando se n’è andato.

«È un uomo, Jenna, sono creature semplici, lo sai. Parlagli. Parla con lui come hai fatto con me. Digli quanto eri spaventata. Capirà che sei pentita».

Bethan lo conosce bene, erano molto uniti da ragazzi. Per un istante oso sperare che abbia ragione, che ci sia ancora una possibilità per me e Patrick. Ma lei non ha visto il modo in cui mi ha guardato.

«No» dico. «È finita».

Siamo arrivate alla baia.

Una coppia sta portando a passeggio il cane sulla spiaggia deserta deserta, non c’è nessun altro.

La marea sta salendo, lambisce la riva. Al centro della spiaggia un gabbiano sta beccando un granchio. Faccio per salutare Bethan, quando vedo qualcosa vicino all’acqua. Mi strofino gli occhi e guardo di nuovo. C’è una scritta, ma la risacca smuove la sabbia e non riesco a leggere. Un’altra onda ed è scomparsa del tutto. Eppure io sono sicura di averla vista.

All’improvviso ho freddo e mi stringo nel giaccone. Sento un rumore sul sentiero alle nostre spalle e mi volto di scatto. Non c’è niente. Passo in rassegna il sentiero, la scogliera, e poi di nuovo la spiaggia. Ian è qui, da qualche parte? Mi sta spiando?

Bethan mi guarda preoccupata. «Che cosa c’è? Qualcosa non va?».

Sono di fronte a lei, ma non riesco a vederla. Continuo a pensare a quella scritta.

Non so dire se l’ho vista davvero o se esiste solo nella mia testa. Le nuvole bianche sembrano girare in un vortice, il sangue mi pulsa nelle orecchie. Non riesco più a distinguere il rumore del mare.

«Jennifer» dico in un sussurro.

«Jennifer?» Bethan guarda verso la spiaggia, dove il mare si allunga sulla sabbia liscia.

«Chi è Jennifer?».

Mi sforzo di deglutire, ma sono come paralizzata.

«Io. Sono io, Jennifer».