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Non riesco a respirare. Beau guaisce, mi viene vicino, mi lecca la faccia. Mi sforzo di pensare, cerco di muovermi, ma la violenza dell’impatto mi ha tolto il fiato. Non riesco ad alzarmi. Tutto intorno a me ruota. Mi sembra di girare su me stessa fino a diventare sempre più piccola. A un tratto sono tornata a Bristol, aspetto Ian, non so di che umore sarà quando rientrerà a casa. Sto preparando la cena, so già che me la sbatterà in faccia. Sono rannicchiata per terra nello studio e mi proteggo la testa dalla raffica di pugni che si abbatte su di me.

Ian scende le scale lentamente, scuotendo il capo, come se dovesse rimproverare un bambino disubbidiente. L’ho sempre deluso; per quanto ci provassi, non ho mai saputo quale fosse la cosa giusta da dire o da fare. Mi parla lentamente, sembrerebbe quasi gentile. Ma ormai basta il suono della sua voce a farmi tremare in maniera incontrollabile, come se fossi sdraiata sul ghiaccio.

È in piedi sopra di me, le gambe divaricate. Mi scruta dalla testa ai piedi. La piega dei pantaloni è affilata come un lama, la fibbia della cintura è così lucida che ci vedo riflessa la mia espressione di terrore. D’un tratto nota qualcosa sulla sua giacca, un filo, che stacca e lascia cadere a terra. Beau non smette di abbaiare e Ian gli sferra un calcio alla testa che lo scaraventa lontano.

«Non fargli del male, ti prego!».

Beau barcolla, ma si rimette in piedi e si rifugia in cucina.

«Sei stata alla polizia, Jennifer».

«Mi dispiace». È un sussurro strozzato, non sono certa che abbia sentito. Non devo supplicarlo, o si infurierà ancora di più. All’improvviso ricordo tutto perfettamente. È come camminare in equilibrio su una corda: devo fare quello che mi chiede, ma non devo mostrarmi debole, altrimenti perde il controllo. Un tempo sbagliavo quasi sempre.

Deglutisco. «Mi… mi dispiace».

Ha le mani in tasca, l’aria rilassata, tranquilla. Ma lo conosco, so con quanta rapidità può cambiare umore.

«Me ne fotto».

Si piega e mi blocca le braccia a terra con le ginocchia. «Pensi che basti a rimettere tutto a posto?». Si sposta in avanti e affonda le rotule nei miei bicipiti. Non riesco a soffocare il grido di dolore. Mi guarda con disprezzo. Sento salire la bile e deglutisco a forza.

«Hai spifferato tutto, vero?». Schiuma dalla bocca, schizzi di saliva mi bagnano la faccia. A un tratto mi tornano in mente i manifestanti fuori dal tribunale: sembra passato tanto tempo.

«No, non ho detto niente».

Stiamo facendo di nuovo il solito vecchio gioco, lui fa una domanda e io cerco di indovinare la risposta giusta. A un certo punto ero diventata piuttosto brava, pensavo che cominciasse a rispettarmi: abbandonava l’incontro all’improvviso e accendeva la televisione oppure se ne andava. Ma poi devo aver perso il mio smalto, o forse lui ha cambiato le regole. Facevo ogni volta la mossa sbagliata. Per il momento, però, sembra soddisfatto e cambia bruscamente argomento.

«Ti vedi con qualcuno, è così?».

«No, non c’è nessuno» rispondo svelta. È la verità, ma so che non mi crederà.

«Bugiarda». Mi colpisce sulla guancia con il dorso della mano. Si sente un rumore secco, come una frustata, che continua a echeggiarmi nelle orecchie. «Qualcuno ti ha aiutata a creare quel sito, a sistemarti in questo posto. Chi è?».

«Nessuno» dico, sento in bocca il sapore del sangue. «L’ho fatto da sola».

«Non sei in grado di fare niente da sola, Jennifer». Si china in avanti fino quasi a sfiorarmi. Cerco di restare immobile.

«Non sei neanche stata capace di scappare. È stato facilissimo arrivare qui, mi è bastato scoprire dove facevi le foto. La gente di Penfach mi ha aiutato volentieri. Ho detto che ero in cerca di una vecchia amica».

Non mi ero neppure chiesta come avesse fatto a trovarmi. Ho sempre saputo che ci sarebbe riuscito.

«A proposito, bella la cartolina che hai mandato alla tua so rellina».

Quella frase è come un altro ceffone. «Che cosa hai fatto a Eve?». Se dovesse succedere qualcosa a lei o ai bambini, non potrei mai perdonarmelo. Volevo solo che sapesse che pensavo a lei. Non credevo di metterla in pericolo.

Ian ride. «Perché dovrei farle qualcosa? Non mi importa di lei, né di te. Sei solo una patetica sgualdrina, Jennifer. Non sei niente senza di me. Niente. Che cosa sei tu?».

Non rispondo.

«Dillo. Che cosa sei?».

Sento un fiotto di sangue fluire in gola. Cerco di parlare senza soffocare. «Non sono niente».

Adesso ride, e si sposta indietro, allentando un po’ la pressione sulle braccia. Fa scorrere un dito sul mio viso, sulle guance, sulle labbra.

So che cosa sta per succedere, ma non per questo è più facile. Lentamente mi apre la camicia, un bottone alla volta, e solleva la maglietta fino a lasciarmi il petto scoperto. Mi guarda con repulsione, non c’è desiderio nei suoi occhi. Poi armeggia con la cintura. Chiudo gli occhi e mi rifugio in me stessa, incapace di muovermi, di parlare. Per un momento mi chiedo che cosa succederebbe se gridassi, se dicessi di no, se mi ribellassi. Se semplicemente lo spingessi via. Ma non lo faccio, non l’ho mai fatto, e per questo non posso che incolpare me stessa.

 

Non so quanto tempo sono rimasta sdraiata qui, quando mi riprendo il cottage è buio e freddo. Mi tiro su i jeans e mi giro su un fianco, portandomi le ginocchia al petto. Sento un dolore tra le gambe e una sensazione di umido. Sospetto sia sangue. Non so se sono svenuta, di certo non ho sentito Ian andare via.

Chiamo Beau. Per un istante interminabile non sento niente, poi lo vedo strisciare guardingo fuori dalla cucina, la coda tra le gambe e le orecchie basse.

«Mi dispiace tanto». Lo convinco ad avvicinarsi, ma quando tendo la mano per toccarlo, abbaia. Solo una volta, in segno di avvertimento, la testa rivolta alla porta. Cerco di alzarmi, sussultando per la fitta di dolore che mi trafigge, mentre qualcuno bussa alla porta.

Rimango lì immobile, in ginocchio al centro della stanza, e trattengo Beau per il collare. Lui ringhia piano, ma non abbaia.

«Jenna? Sei in casa?».

Patrick.

Mi travolge un’ondata di sollievo. Quando spalanco la porta, devo soffocare un singhiozzo. Non accendo la luce, non voglio che veda i segni che di certo ho sul viso.

«Stai bene? È successo qualcosa?».

«Io… devo essermi addormentata sul divano».

«Bethan mi ha detto che eri tornata». Esita, guarda a terra. «Sono venuto a chiederti scusa. Non avrei mai dovuto parlarti in quel modo, ero sconvolto».

«Non preoccuparti» dico. Alle sue spalle vedo le colline avvolte nell’oscurità, e mi chiedo se Ian sia là fuori a spiarci. Non posso permettere che mi veda con Patrick, non posso metterlo in pericolo come ho fatto con Eve, come ho fatto con tutte le persone che amavo. «Volevi dirmi qualcos’altro?».

«Posso entrare un momento?». Fa un passo in avanti ma io scuoto la testa.

«Jenna, va tutto bene?».

«Non voglio più vederti, Patrick». Mi impongo di andare fino in fondo.

«Non ti biasimo». Ha il viso tirato, come se non dormisse da giorni. «Mi sono comportato in modo ignobile, Jenna, e non so davvero come potrò farmi perdonare. Quando ho saputo quello che avevi… quello che era successo, sono rimasto così sconvolto che non ho pensato a nient’altro. Non riuscivo nemmeno a starti vicino».

Scoppio a piangere. Non posso farne a meno. Patrick mi prende la mano e io non voglio che la lasci.

«Aiutami a capire, Jenna. Sono sconvolto, non posso negarlo. Ma voglio sapere che cosa è successo. Voglio farlo per te».

Non replico, so che c’è solo una cosa che posso dire. L’unica che serva a proteggere Patrick.

«Mi manchi, Jenna».

«Non voglio più vederti». Ritraggo la mano. «Non voglio più avere niente a che fare con te».

Patrick indietreggia, bianco in volto, come se lo avessi colpito. «Perché?».

«Preferisco così». Mentirgli è una tortura.

«È perché ti ho lasciato sola?».

«Tu non c’entri niente. Questa storia non ti riguarda. Lasciami in pace e basta».

Patrick mi sta fissando e io riesco a non abbassare lo sguardo. Spero che non si accorga della mia disperazione. Alla fine alza le mani in segno di sconfitta, e se ne va.

Inciampa sul sentiero e si mette a correre.

Chiudo la porta e scivolo a terra. Mi stringo a Beau e piango a dirotto, contro la sua pelliccia. Non ho potuto salvare Jacob ma posso salvare Patrick.

 

Appena mi sento meglio, chiamo Iestyn per chiedergli di venire ad aggiustare la porta. «La chiave adesso non gira proprio più» dico. «La serratura è rotta e la porta non si chiude».

«Può stare tranquilla. Non ci sono ladri da questa parti».

«Voglio che venga ad aggiustarla subito!». La mia richiesta è perentoria, per un attimo nessuno dei due dice niente.

«Arrivo».

 

Meno di un’ora dopo si mette al lavoro. Rifiuta il tè che gli ho offerto. Fischietta piano mentre smonta la serratura e lubrifica il meccanismo. Poi la rimonta, adesso la chiave gira bene.

«Grazie» dico, sollevata. Iestyn mi scruta silenzioso e io mi stringo nel cardigan. I lividi violacei sulle braccia si sono allargati come macchie di inchiostro su un foglio di carta assorbente. Mi fa male dappertutto, come se avessi corso una maratona. La guancia destra si è gonfiata, sento un dente che dondola. Sposto i capelli, cercando di nascondere parte del viso.

Ora Iestyn sta osservando la scritta rossa sulla porta.

«La cancellerò» dico, ma lui non replica. Mi saluta con un cenno, poi ci ripensa e si volta. «Penfach è poco più di un villaggio. Tutti sanno tutto di tutti».

«Sì, me ne sono accorta». Forse si aspetta che io aggiunga qualcosa per giustificarmi, ma non ho intenzione di accontentarlo. Sarà il tribunale a condannarmi, non gli abitanti di questo paese.

«Fossi in lei me ne starei in disparte per un po’. Vedrà che passerà».

«Grazie per il consiglio» replico, asciutta.

Chiudo la porta e vado di sopra a fare un bagno. Siedo nella vasca con gli occhi chiusi, non voglio vedere i segni sulla mia pelle. Sul petto e sulle cosce ho lividi piccoli e circolari, le tracce lasciate dalle sue dita sulla mia carnagione pallida. Sono stata stupida a illudermi di poter sfuggire al passato. Per quanto possa correre veloce e lontano, non riuscirò mai a lasciarmelo alle spalle.