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I colpi alla porta mi svegliano di soprassalto. Non avevo intenzione di addormentarmi, mi massaggio il collo indolenzito.

Mi ci vuole un momento per ricordarmi che sono a casa, mentre sento di nuovo bussare alla porta, più insistentemente. Chissà da quanto tempo Patrick è là fuori che aspetta. Mi alzo in piedi e sento un crampo al polpaccio.

Mentre giro la chiave mi assale la paura; prima ancora che possa reagire la porta si spalanca, spingendomi contro il muro. Ian ha le guance rosse e il respiro affannato. Mi preparo ai colpi, ma lui chiude lentamente il chiavistello. Conto i battiti del mio cuore nell’attesa.

Uno, due, tre.

Forte e veloce, contro la cassa toracica.

Sette, otto, nove, dieci.

E poi è pronto, si volta e mi rivolge un sorriso che conosco bene. Un sorriso malvagio, che lascia intendere ciò che ha in serbo per me.

Mi dice che la fine sta arrivando, ma non sarà veloce.

Mi stringe la nuca, il pollice preme sulle vertebre cervicali.

È fastidioso, ma non fa male.

«Hai fatto il mio nome alla polizia, Jennifer».

«No, io…».

Mi afferra per i capelli e mi tira verso di sé. Chiudo gli occhi e aspetto l’esplosione di dolore che mi travolgerà quando mi romperà il naso con una testata. Li riapro e il suo viso è a un centimetro dal mio. Puzza di whisky e sudore.

«Non mentirmi, Jennifer».

Vorrei implorarlo di uccidermi subito, ma mi dico che posso farcela, posso sopravvivere anche a questo.

Mi afferra la mascella con l’altra mano e mi passa l’indice sulle labbra, poi me lo infila in bocca. Trattengo i conati mentre mi schiaccia la lingua.

«Puttana doppiogiochista» dice, in tono sdolcinato, sembra che mi stia facendo un complimento. «Avevi promesso, Jennifer. Avevi promesso che non saresti andata alla polizia, e che cosa scopro oggi? Scopro che hai sacrificato la mia libertà per comprare la tua. Ho letto il mio nome – il mio nome, vaffanculo – sul Bristol Post».

«Gli dirò…» provo a parlare, ma le parole escono deformate. «Gli dirò che non è vero. Gli dirò che ho mentito». La saliva cola sulla mano di Ian e lui mi guarda disgustato.

«No, tu non dirai niente a nessuno».

Sempre tenendomi per i capelli, mi colpisce in faccia. «Andiamo di sopra».

Serro i pugni lungo i fianchi per non toccarmi il viso. Sento il sangue in bocca e deglutisco. «Ti prego». La mia voce suona stridula e innaturale. «Ti prego non…». Cerco le parole giuste, quelle che lo faranno infuriare meno. Non stuprarmi, vorrei dirgli. È successo così tante volte che non dovrebbe più importarmi, eppure non posso sopportare il pensiero del suo corpo che mi schiaccia, non posso sopportare di averlo dentro di me, di essere costretta a urlare.

«Non voglio fare sesso» dice sprezzante, schizzi di saliva mi colpiscono in faccia. «Non illuderti, Jennifer». Mi lascia andare. «Sali».

Le gambe mi cedono mentre mi avvicino alle scale, per salire devo tenermi al corrimano. Lui è sempre dietro di me. Cerco di calcolare quanto ci vorrà perché torni Patrick, ma ho perso del tutto la cognizione del tempo.

Ian mi spinge in bagno. «Svestiti».

Mi vergogno della docilità con cui lo assecondo.

Incrocia le braccia e mi guarda. Ora piango a dirotto. So che questo lo fa infuriare, non riesco a trattenermi.

Mette il tappo nella vasca e apre solo l’acqua fredda. Sono nuda, in piedi davanti a lui. Tremo, e lui mi guarda con disprezzo. Ricordo quando mi baciava le scapole, poi con il dito tracciava una linea tra i seni e sulla pancia, con dolcezza, quasi con reverenza.

«Devi ringraziare te stessa. Potevo venirti a prendere in ogni momento, ma ti ho lasciato andare. Non ti volevo più. Bastava che tenessi la bocca chiusa e avresti potuto continuare a vivere la tua squallida vita qui». Scuote la testa. «Ma non hai resistito, vero? Hai spifferato tutto».

Chiude il rubinetto. «Entra».

Non oppongo resistenza. Non servirebbe a nulla. Mi siedo nella vasca. L’acqua gelida mi toglie il respiro, sento una fitta lancinante. Cerco di convincermi che non sia così fredda.

«Adesso lavati».

Prende un flacone di detersivo per terra, vicino al water, e svita il tappo. Mi mordo il labbro. Una volta mi ha fatto bere la candeggina. Ero rientrata tardi da una cena con i vecchi compagni dell’università. Gli avevo detto che non mi ero accorta del passare del tempo, ma lui ha versato il liquido denso in un bicchiere e mi ha guardato mentre lo portavo alle labbra. Mi ha fermato dopo il primo sorso, scoppiando a ridere e dicendo che solo uno stupido avrebbe bevuto quella roba. Ho vomitato tutta la notte e per giorni mi è rimasto il sapore della candeggina in bocca.

Versa il detersivo sull’asciugamano e fa colare il liquido nella vasca. Le macchie blu si espandono sull’acqua, come inchiostro sulla carta assorbente. Mi porge l’asciugamano.

«Strofinati».

Passo l’asciugamano sulle braccia, cercando di diluire la candeggina con l’acqua.

«Ora anche il resto» dice. «E non dimenticare la faccia. Lavati bene, Jennifer, altrimenti lo farò io al tuo posto. Forse così riusciremo a levarti di dosso un po’ di cattiveria».

Mi controlla, fino a quando non ho strofinato l’asciugamano su tutto il corpo, e la pelle comincia a bruciarmi. Battendo i denti senza controllo, mi immergo nell’acqua gelida cercando di alleviare il dolore.

La tortura, l’umiliazione sono peggio della morte. La fine non arriverà mai abbastanza in fretta.

Non sento più i piedi. Li tiro fuori dall’acqua per strofinarli, ma è come se le dita appartenessero a qualcun altro. Non sento più neppure freddo, ora.

Cerco di stare seduta, in modo da tenere almeno una parte del corpo fuori dall’acqua, ma lui mi costringe a sdraiarmi, con le gambe ripiegate da un lato. Apre di nuovo il rubinetto fino a quando l’acqua raggiunge il bordo. Sento il cuore nel petto, sempre più debole. Sono inerte, la voce di Ian mi arriva da lontano. Mi battono i denti e mi mordo la lingua, ma il mio cervello non registra nessun dolore.

Mentre mi lavavo, Ian è rimasto in piedi, ma adesso si siede sul coperchio del water.

Mi guarda distaccato. Mi affogherà, immagino. Non ci vorrà molto: sto già morendo.

«È stato facile trovarti, sai». Parla con scioltezza, come se fossimo seduti al bar a chiacchierare tra vecchi amici. «Non è difficile aprire un sito anonimo, ma tu sei stata così stupida da non accorgerti che chiunque poteva visualizzare il tuo indirizzo».

Non replico, lui non sembra aspettarsi una risposta.

«Voi donne pensate di potervela cavare da sole. Pensate di non aver bisogno degli uomini, ma senza di noi non siete in grado di fare niente. Siete tutte uguali. E poi le bugie! Dio, le bugie che raccontano le donne. Vi scappano fuori una dopo l’altra».

Sono stanca. Sono così stanca. Sto scivolando sott’acqua, cerco di riscuotermi. Affondo le unghie nella coscia ma non riesco quasi a sentirle.

«Pensate che non vi scopriremo mai. Ma invece sappiamo tutto, le bugie, il tradimento, la faccia tosta».

Le sue parole non mi toccano.

«Fin dall’inizio ho detto chiaramente che non volevo figli».

Chiudo gli occhi.

«Ma non siamo padroni di scegliere, vero? Dovete fare come volete voi. Solo voi potete scegliere se abortire. E i miei diritti?».

Penso a Ben. Stava per venire alla luce. Se solo fossi riuscita a proteggerlo ancora qualche settimana…

«All’improvviso mi ritrovo con un figlio, e dovrei festeggiare! Dovrei festeggiare per un figlio che non ho mai voluto e che non sarebbe mai esistito se lei non mi avesse incastrato».

Apro gli occhi. Le piastrelle bianche sopra il rubinetto sono percorse da linee grigie, le seguo finché l’acqua mi sommerge; le piastrelle si confondono e tornano a essere bianche. Sta dicendo cose senza senso. O forse sono io che non capisco. Vorrei parlare ma è come se la lingua fosse troppo grossa per la bocca. Non l’ho ingannato. È stato un incidente. Ma lui era contento. Diceva che avrebbe cambiato tutto.

Ian si china in avanti, i gomiti puntati sulle ginocchia, le mani sulle labbra, come se stesse pregando. Ma i suoi pugni sono serrati e vicino all’occhio un muscolo trema compulsivamente.

«Le avevo spiegato le regole del gioco. Le avevo detto niente legami. Ma ha rovinato tutto». Mi guarda. «Doveva essere l’avventura di una sera, una scopata veloce con una ragazza qualunque. Tu non lo avresti mai saputo. Peccato che sia rimasta incinta e invece di tornarsene a casa sua abbia deciso di rendere la mia vita un inferno».

Cerco di mettere insieme i pezzi. «Tu hai un figlio?» riesco a chiedere.

Mi guarda e scoppia a ridere. «No, quello non è mai stato mio figlio. Era il bastardo di una puttanella polacca che puliva i cessi in ufficio. Io ho solo donato lo sperma». Si alza e si sistema la camicia. «Quando ha scoperto di essere incinta è venuta a bussare alla mia porta, ma io le ho detto che non volevo essere coinvolto. Non ho più avuto sue notizie finché il bambino non ha iniziato la scuola. Non mi ha più lasciato in pace». Storce la bocca, cerca di imitare l’accento dell’Est Europa. «Ha bisogno di un padre, Ian. Voglio che Jacob sappia chi è suo padre».

Sollevo la testa, mi aggrappo al bordo della vasca e mi tiro su a sedere. Grido per il dolore e per lo sforzo. «Jacob?» dico. «Tu sei il padre di Jacob?».

Ian mi guarda silenzioso. Poi all’improvviso mi afferra per un braccio. «Fuori».

Esco e crollo a terra; dopo un’ora nell’acqua gelata le gambe non mi sostengono più.

«Copriti». Mi getta la vestaglia e la indosso. Sento quasi gratitudine per quel gesto e mi odio. La testa mi gira. Jacob era il figlio di Ian? Ma quando Ian ha scoperto che Jacob era il bambino dell’incidente, deve aver…

La verità finalmente mi colpisce ed è come una coltellata nello stomaco.

La morte di Jacob non è stata un incidente. Ian ha ucciso suo figlio e adesso ucciderà anche me.