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Il cielo minaccia pioggia sin da quando sono venuta quaggiù, all’alba; tiro su il cappuccio per proteggermi dalla prime gocce. Ho già fatto tutti gli scatti che volevo e la spiaggia è piena di scritte. Sono diventata brava a lasciare la sabbia liscia e intonsa intorno alle lettere, e ancora più brava con la fotocamera. All’università ho studiato anche fotografia, ma la mia grande passione è sempre stata la scultura. Ora mi diverto a riprendere confidenza con la macchina fotografica e a giocare con le inquadrature nelle diverse condizioni di luce. La porto con me ovunque: è diventata una parte di me, come un tempo i pezzi di argilla. Riesco a usarla nonostante la mobilità ridotta delle dita, anche se dopo una giornata passata a scattare foto sento pulsare la mano. Ho preso l’abitudine di venire quaggiù ogni mattina, con la sabbia ancora bagnata e modellabile, ma spesso ci torno anche il pomeriggio, quando il sole è alto. Sto imparando gli orari delle maree e, per la prima volta dall’incidente, comincio a pensare al futuro, all’estate, quando la spiaggia sarà inondata di sole. Il campeggio ha riaperto e Penfach è piena di gente. Buffo: mi comporto già come una del posto che si lamenta dell’invasione dei turisti, gelosa della sua spiaggia deserta.
La pioggia comincia a bucherellare la sabbia e si è alzata la marea, spazzando via le scritte che ho tracciato più a riva, quelle meglio riuscite e anche quelle venute male. È diventata un’abitudine cominciare la giornata scrivendo il mio nome vicino all’acqua, e vederlo sparire, inghiottito dal mare, mi dà sempre un brivido. Anche se le immagini che ho scattato sono custodite al sicuro nella fotocamera, non mi sono ancora abituata alla provvisorietà di quelle scritte. Non sono un pezzo di argilla su cui posso tornare a lavorare ancora e ancora, perfezionandone la forma, rivelandone l’essenza. Devo lavorare in fretta e questo è affascinante e faticoso al tempo stesso.
La pioggia è insistente adesso, s’infila nel giaccone e negli stivali. Quando mi volto per tornare a casa vedo un uomo venire verso di me, con un cane di grossa taglia che gli saltella accanto. È ancora piuttosto lontano e non saprei dire se si sta avvicinando di proposito o se sta semplicemente camminando verso la riva. Sento un sapore metallico in bocca e passo la lingua sulle labbra cercando il conforto di un po’ di umidità, ma trovo solo salsedine. Ho già visto quest’uomo e il cane: ieri ho aspettato in cima alla scogliera che se ne andassero e che la spiaggia tornasse deserta prima di scendere. Nonostante mi trovi in uno spazio tanto aperto mi sento in trappola e mi incammino lungo la riva come se quella fosse stata sin dall’inizio la mia direzione.
«Buongiorno!». L’uomo aumenta un po’ il passo fino a raggiungermi.
Non riesco a parlare.
«Bella giornata per una passeggiata» dice levando il viso al cielo. Dev’essere sui cinquanta: capelli grigi sotto il cappello da pioggia e la barba ben curata che gli copre buona parte del volto.
Lascio andare un respiro molto lentamente. «Devo rientrare» dico, vaga. «Devo…».
«Buona giornata». Fa un cenno con il capo e chiama il cane, io mi volto e mi avvio veloce verso la scogliera. Più o meno a metà strada mi volto per controllare alle mie spalle, ma l’uomo è ancora sulla riva, sta lanciando un bastone in acqua per il cane. I battiti del mio cuore tornano piano alla normalità e mi sento ridicola.
Quando raggiungo la cima della scogliera sono ormai zuppa. Decido di andare a trovare Bethan e mi avvio svelta verso il campeggio, prima di poter cambiare idea.
Mi accoglie con un bel sorriso.
«Stavo giusto facendo il tè».
Bethan lavora nel retro chiacchierando allegramente delle previsioni meteorologiche, della minaccia di cancellare le linee degli autobus e dello steccato rotto di Iestyn, che ha avuto come conseguenza la fuga di una settantina di capre nottetempo.
«Alwen Rees non era per niente contento, posso assicurartelo!».
Rido, più che per la storia in sé, per il modo in cui Bethan la racconta, gesticolando come un’attrice consumata.
Gironzolo per il negozio mentre lei finisce di preparare il tè. Il pavimento è di cemento e le pareti imbiancate, con scaffali che occupano due lati della stanza. La prima volta che sono stata qui erano vuoti: adesso sono ingombri di cereali, lattine, frutta e verdura, pronti per i villeggianti. Un grosso frigorifero ospita alcuni cartoni di latte e prodotti freschi. Prendo un pezzo di formaggio.
«Quello è di capra, lo fa Iestyn» dice Bethan. «Ti conviene prenderne finché ce n’è: quando arriva la gente, va a ruba. Adesso vieni a sederti qui vicino alla stufa e dimmi come te la passi ». Un gattino bianco e nero miagola intorno alle sue caviglie: Bethan lo raccoglie e se lo mette di traverso sulle spalle. «Non vorresti un gattino per compagnia? Ho tre di questi da dar via. La nostra gatta ha fatto i cuccioli qualche settimana fa. Sa il cielo chi è il padre».
«No, grazie». Il gattino è dolcissimo: una palla di pelo con la coda che si muove come un metronomo. Quell’immagine fa affiorare alla mente un ricordo che avevo rimosso da tempo e d’istinto mi ritraggo sulla sedia.
«Non ti piacciono i gatti?».
«Non sarei capace di prendermene cura » dico. «Non riesco a tenere in vita neppure una pianta. Tutto ciò che dipende da me muore».
Bethan ride, anche se la mia non voleva essere una battuta. Prende un’altra sedia e posa una tazza di tè sul bancone davanti a me.
«Hai fatto qualche foto?» chiede indicando la fotocamera che ho al collo.
«Sì, giù alla baia».
«Posso vederle?».
Esito, ma poi sfilo la tracolla e accendo la macchina, mostrando a Bethan come far scorrere le foto sullo schermo.
«Ma sono bellissime!».
«Grazie». Arrossisco. Non sono mai stata brava a ricevere complimenti. Quando ero bambina le maestre elogiavano i miei disegni e li esponevano all’ingresso della scuola, ma è stato solo verso i dodici anni che ho cominciato a capire di avere del talento, per quanto acerbo e da plasmare. La scuola organizzò una mostra per i genitori e per i residenti della zona, e i miei arrivarono insieme, cosa che succedeva di rado, anche allora. Mio padre osservò in silenzio i miei disegni e la scultura di un uccello che avevo fatto con del filo di metallo. Io trattenni il fiato per un tempo lunghissimo, con le dita incrociate dietro la schiena.
«Straordinario» disse. Mi guardò come se mi vedesse per la prima volta. «Sei straordinaria, Jenna».
Mi sentii scoppiare di gioia, feci scivolare una mano nella sua e lo portai dalla signora Beeching, che gli parlò di facoltà d’arte, di borse di studio e di lezioni private.
Sono felice che non sia qui. Non sopporterei di vedere la delusione nei suoi occhi.
Bethan sta ancora guardando le mie foto della baia. «Dico sul serio, Jenna, sono belle. Hai intenzione di venderle?».
Per poco non scoppio a ridere, ma Bethan non sta affatto scherzando.
Mi chiedo se sia possibile. Magari non queste, devo fare ancora pratica, imparare a catturare la luce migliore, ma lavorandoci… «Può darsi» dico, sorprendendo perfino me stessa.
Bethan scorre le ultime foto e ride quando vede il suo nome scritto sulla sabbia.
«Sono io!».
Arrossisco. «Stavo solo facendo qualche prova».
«Mi piace. Me la vendi?». Bethan solleva la macchina e guarda di nuovo la foto.
«Non dire sciocchezze. Te la faccio stampare. È il minimo che possa fare, sei stata così gentile».
«L’ufficio postale in paese ha una di quelle stampanti self service» dice Bethan. «Mi piacerebbe questa con il mio nome e anche questa con la bassa marea ». È una delle mie preferite: l’ho scattata di sera, con il sole basso all’orizzonte. Il mare piatto, uno specchio che scintilla di rosa e arancio, e il profilo dolce delle scogliere tutto intorno.
«Le stampo oggi pomeriggio».
«Grazie» dice Bethan. Appoggia con cura la fotocamera e si volta a guardarmi, con l’espressione, determinata che ormai ho imparato a conoscere . «Ho qui delle cose per te».
«Non ce n’è bisogno,» dico «hai già…».
Bethan mi mette a tacere con un gesto della mano. «Ho fatto ordine a casa, e ci sono un po’ di cose che devo scartare». Indica due sacchi neri vicino alla porta. «Roba da poco: qualche cuscino e un paio di copriletti che sono avanzati quando abbiamo risistemato le roulotte; e dei vestiti in cui non entrerò mai più, a meno di non rinunciare alla cioccolata per il resto della vita. Niente di elegante, non ci sono molte occasioni per sfoggiare abiti da sera qui a Penfach, solo qualche felpa, dei jeans e un paio di abitini che non avrei mai dovuto comprare».
«Bethan, non puoi regalarmi i tuoi vestiti!».
«Perché no?».
«Perché…».
Mi guarda dritto negli occhi e io mi arrendo. Ha un modo di fare così diretto che non mi fa sentire per nulla a disagio, e di certo non posso continuare a indossare le stesse cose ogni giorno.
«Avrei portato tutto in chiesa. Dai un’occhiata per vedere se c’è qualcosa che ti può servire. Non c’è niente di male, no?».
Lascio il campeggio carica di vestiti caldi e di una borsa piena di «piccole comodità domestiche», come le chiama Bethan. Arrivata al cottage, distribuisco tutto per terra come se fossero regali di Natale. I jeans sono un po’ grandi ma con una cintura andranno bene, e per poco non piango di gioia quando vedo la morbida maglia di pelo che Bethan ha messo da parte per me. Il cottage è pieno di spifferi e io ho perennemente freddo. I pochi abiti portati da Bristol – che ho smesso di chiamare «casa» – sono logori e rigidi per la salsedine e per i lavaggi a mano nella vasca da bagno.
Ma sono le “piccole comodità domestiche” di Bethan a scatenare il mio entusiasmo. Stendo sul divano malconcio un copriletto patchwork rosso e verde e la stanza appare subito più calda e accogliente. Sul caminetto c’è già una collezione di pietre lucide e levigate che ho raccolto sulla spiaggia: vi aggiungo un vaso dalla borsa delle meraviglie di Bethan e decido che nel pomeriggio raccoglierò degli steli di salice. I cuscini trovano posto per terra vicino al fuoco, dove mi siedo a leggere e a lavorare alle fotografie. In fondo alla borsa trovo due asciugamani, un tappeto da bagno e un altro copriletto.
Non ho creduto neppure per un secondo che Bethan intendesse davvero disfarsi di queste cose, ma la conosco abbastanza e so che protestare sarebbe stato inutile.
Sento bussare alla porta e resto immobile per un istante. Bethan mi ha detto che Iestyn sarebbe passato oggi, ma per sicurezza aspetto a rispondere.
«È in casa o no?».
Tiro il chiavistello per aprire la porta. Iestyn mi saluta, ruvido come sempre, e io rispondo con calore. Quella che all’inizio mi era sembrata eccessiva rudezza, perfino maleducazione, è solo la riservatezza di un uomo che si preoccupa più della salute delle sue capre che di compiacere i suoi simili.
«Le ho portato della legna» dice indicando il rimorchio carico di ceppi attaccato al quad. «Ho pensato che potesse averne bisogno. Gliela sistemo dentro».
«Posso offrirle una tazza di tè?».
«Due cucchiaini di zucchero» grida, andando verso il rimorchio. Mentre lui riempie un secchio di pezzi di legna, io metto su l’acqua.
«Che cosa le devo per la legna?» chiedo mentre beviamo il tè seduti in cucina.
Iestyn scuote il capo. «È roba avanzata da un carico che avevo, non è buona da vendere».
La legna che ha accatastato vicino al fuoco mi durerà almeno un mese. Sospetto che anche qui ci sia lo zampino di Bethan, ma non posso permettermi di rifiutare un dono tanto generoso. Dovrò pensare a un modo per sdebitarmi, con lui e con Bethan.
Iestyn accoglie con noncuranza i miei ringraziamenti. «Questo posto è irriconoscibile» dice indicando il copriletto colorato, la collezione di sassi, conchiglie e altri tesori. «Come si comporta la stufa? Non le dà troppi problemi?» chiede indicando la vecchia Aga. «A volte sono traditrici».
«Si comporta bene, grazie». Soffoco un sorrisino. Ormai sono diventata un’esperta: riporto in vita quella vecchia stufa in pochi minuti. È un piccolo successo, lo metto da parte insieme agli altri, uno sopra l’altro, come se potessero, un giorno, cancellare i fallimenti.
«Bene, devo andare» dice Iastyn. «Abbiamo visite questo fine settimana, gente di famiglia, ma a giudicare da quanto si agita Glynis sembra che debba arrivare la regina in persona. Le ho detto che a nessuno importa di trovare la casa pulita e i fiori in soggiorno, ma lei vuole che sia tutto impeccabile». Alza gli occhi esasperato, però quando parla della moglie la sua voce si addolcisce.
«Vengono a trovarvi i vostri figli?» chiedo.
«Figlie, due femmine» dice, «con i mariti e i bambini. Staremo stretti, ma quando si è in famiglia non ci si bada, vero?». Mi saluta e se ne va, e io rimango sulla porta a fissare il quad che si allontana sobbalzando sul sentiero accidentato.
Chiudo la porta e resto lì per un attimo a guardarmi intorno. Il soggiorno, che un attimo prima sembrava tanto accogliente, ora è vuoto. Immagino un bambino, il mio bambino, che gioca sul tappeto davanti al camino. Penso a Eve e ai miei nipotini che crescono senza di me. Ho perduto mio figlio ma ho ancora una famiglia, indipendentemente da quello che è successo tra noi.
Da bambine io e mia sorella andavamo d’accordo, nonostante i quattro anni di differenza. Per me Eve era un modello e lei si prendeva cura di me, senza mai lamentarsi del fatto che la seguissi dappertutto. Siamo sempre state piuttosto diverse, io con la mia indisciplinata chioma color rame e Eve con i suoi capelli castano chiaro dritti come spaghetti. A scuola andavamo bene tutte e due, ma Eve era più diligente, la testa ancora china sul libro dopo che io avevo lanciato in aria il mio già da un pezzo. Invece passavo ore nell’aula di arte, a scuola, e seduta sul pavimento del garage, dove mia madre mi permetteva di usare i colori e l’argilla. Mia sorella, perfettina com’era, storceva il naso davanti a quelle cose, e scappava gridando quando la inseguivo con le mani impiastricciate di argilla bagnata. «Lady Eve» la chiamai un giorno, e quel soprannome le restò attaccato anche quando diventammo grandi e ci facemmo una famiglia. Più di una volta ho pensato che in cuor suo apprezzasse quel soprannome, quando la vedevo ricevere i complimenti per una cena impeccabile o per un pacchetto regalo ben fatto.
Dopo che papà se ne andò, ci allontanammo. Io non riuscii mai a perdonare mia madre per averlo spinto a lasciarci e non capivo come potesse riuscirci Eve. Ciononostante mia sorella mi manca da morire, ora più che mai. Cinque anni della vita di qualcuno che ami sono un prezzo alto da pagare per una frase avventata.
Cerco nel computer le foto che ha scelto Bethan e altre tre che voglio appendere qui nel cottage in cornici fatte con i pezzi di legno che si trovano sulla spiaggia. Sono tutte foto della baia, e tutte scattate dallo stesso punto, eppure sono una diversa dall’altra. Il mare è azzurro e scintillante sotto il sole che lo illumina, nella prima; piatto e grigio con i raggi che filtrano appena tra le nubi, nella seconda. La terza è quella che preferisco, scattata un giorno in cui il vento era così forte che faticavo a tenermi in equilibrio sulla scogliera e perfino i gabbiani avevano rinunciato a tracciare le loro perpetue traiettorie nel cielo. Nuvole nere si allungavano sull’acqua, mentre il mare le schiaffeggiava con le sue onde. Quel giorno alla baia c’era così tanta energia che mentre scattavo le foto sentivo il cuore battere dentro il petto.
Aggiungo un’ultima foto sulla chiavetta: l’ho scattata il giorno in cui ho scritto sulla sabbia tutti i nomi del mio passato.
Lady Eve.
Non posso correre il rischio di rivelare a mia sorella dove mi trovo, ma posso dirle che sto bene. E che mi dispiace.