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Passavi tutto il giorno nello studio e ci tornavi anche la sera, se non te lo impedivo.

Non ti importava di me. Lavoravo sodo tutto il giorno, e la sera mi sarebbe piaciuto avere un po’ di compagnia. Non mi chiedevi nemmeno com’era andata la giornata. Eri come un topo: correvi a rintanarti non appena ne avevi l’occasione. Ti eri fatta un nome come scultrice grazie ad alcune statuette scolpite a mano alte una ventina di centimetri. Io le trovavo orribili: avevano facce distorte e corpi sproporzionati. Ma a quanto pare erano molto richieste, e non riuscivi a produrne mai abbastanza.

«Ho noleggiato un film per stasera» ho detto un sabato mattina quando sei entrata in cucina per prepararti il caffè.

«Va bene». Non mi hai chiesto che film fosse. Io non lo sapevo ancora, sarei andato più tardi a sceglierne uno.

Ti sei appoggiata alla cucina mentre l’acqua bolliva, i pollici infilati nelle tasche dei jeans. Avevi i capelli raccolti dietro le orecchie e ho visto la ferita sulla tempia. Te ne sei accorta e hai tirato giù una ciocca per coprirla.

«Vuoi il caffè?».

«Grazie». Hai versato l’acqua in due tazze, ma hai aggiunto il caffè solubile solo nella mia. «Tu non lo bevi?».

«Non mi sento molto bene». Hai tagliato una fetta di limone. «È già da qualche giorno».

«Tesoro, avresti dovuto dirmelo. Vieni a sederti». Ho scostato una sedia, ma tu hai scosso la testa.

«Va tutto bene, sono solo un po’ fuori forma. Domani andrà meglio, ne sono sicura».

Ti ho preso tra le braccia. «Povera piccola. Mi prenderò cura io di te».

Anche tu mi hai abbracciato e io ti ho cullato per un momento, ma poi ti sei staccata. Non sopportavo quando mi respingevi. Con tutto quello che stavo facendo per te. Ho sentito la mandibola contrarsi, nello stesso istante ho visto un’ombra di paura nel tuo sguardo: forse t’importava ancora di quello che pensavo, di quello che facevo. Ma la tua debolezza era irritante

Ho alzato il braccio e ti ho sentito trasalire, mentre chiudevi gli occhi. Ti ho sfiorato la fronte e ti ho tolto qualcosa dai capelli.

«Un ragnetto» ho detto, aprendo il pugno per fartelo vedere. «Dicono che porti fortuna, vero?».

 

Il giorno dopo non stavi meglio e ho insistito perché restassi a letto. Ti ho portato dei cracker per alleviare il senso di nausea e ho letto per te fino a quando mi hai detto che ti faceva male la testa. Volevo chiamare il dottore ma tu hai promesso che ci saresti andata l’indomani. Ti ho accarezzato i capelli e ti ho guardato mentre dormivi, chiedendomi che cosa stessi sognando.

Il lunedì sono uscito. Tu eri ancora a letto, e ti ho scritto un biglietto per ricordarti di andare dal medico. Ti ho chiamato dall’ufficio, ogni mezz’ora, ma non hai mai risposto al fisso, e il cellulare era spento. Ero in ansia e all’ora di pranzo mi sono deciso a tornare a casa per assicurarmi che stessi bene.

La tua macchina era parcheggiata fuori, ho inserito la chiave nella toppa e mi sono accorto che la porta era chiusa solo con il chiavistello. Tu eri seduta sul divano, la testa sprofondata tra le mani.

«Stai bene? Stavo per impazzire!».

Mi hai guardato ma non hai detto niente.

«Jennifer! È tutta la mattina che ti chiamo, perché non rispondi?».

«Sono uscita un attimo e poi…». Ti sei interrotta.

«Non ti è venuto in mente che potessi essere preoccupato?». Ti ho afferrato per la felpa e ti ho sollevato. Hai urlato, e io ho smesso di pensare. Ti ho spinto indietro contro il muro, una mano stretta intorno alla gola. Sentivo il tuo battito accelerato.

«Ti prego, no!».

Stringevo sempre di più, poco alla volta. Guardavo la mia mano, sembrava appartenesse a qualcun altro. Hai emesso un suono strozzato.

«Sono incinta».

Ti ho lasciata andare. «Non è possibile».

«È così».

«Ma prendi la pillola».

Sei scoppiata a piangere e sei crollata a terra, le ginocchia al petto. Sono rimasto in piedi sopra di te, cercando di elaborare quello che avevo appena sentito. Eri incinta.

«Dev’essere successo quella volta che sono stata male».

Mi sono chinato e ti ho preso tra le braccia. Ho pensato a mio padre, sempre freddo e distaccato con me, e ho promesso che non avrei fatto lo stesso con mio figlio. Speravo che fosse un maschio. Per lui sarei stato un punto di riferimento, un modello da imitare. Ho sorriso.

Tremavi e ti ho accarezzato la guancia. «Avremo un bambino!»

Avevi ancora gli occhi lucidi ma cominciavi a tranquillizzarti. «Non sei arrabbiato?».

«Perché dovrei?».

Ero euforico. Questo avrebbe cambiato tutto.

Ti immaginavo con il pancione, avresti avuto bisogno di me, sempre di più. Ti avrei massaggiato i piedi, preparato tazza di tè, e tu mi saresti stata riconoscente. Dopo la nascita del bambino, avresti smesso di lavorare e io avrei provveduto a entrambi.

Vedevo chiaramente il nostro futuro. «Questo bambino è un miracolo». Ti ho afferrato per le spalle e tu ti sei irrigidita. «So che abbiamo avuto problemi di recente, ma adesso sarà tutto diverso. Mi prenderò cura di te». Mi guardavi, titubante, e io mi sono sentito invadere dal senso di colpa. «Sarà tutto diverso ora. Ti amo così tanto, Jennifer».

I tuoi occhi si sono riempiti di lacrime ancora una volta. «Ti amo anch’io».

Avrei voluto chiederti scusa per tutto quello che ti avevo fatto, ma le parole non riuscivano a prendere forma nella mia mente. «Non deve saperlo nessuno» ho detto invece.

«Sapere cosa?».

«Delle nostre liti. Promettimi che non lo dirai a nessuno». Vedevo i tuoi occhi sgranati e impauriti.

«Mai» hai detto in un soffio. «Non lo dirò mai a nessuno».

Ti ho sorriso. «Adesso smettila di piangere, farai male al bambino». Mi sono alzato e ti ho teso la mano. «Hai nausea?».

Hai annuito.

«Sdraiati sul divano. Ti porto una coperta». Hai protestato ma io ti ho accompagnato fino al divano e ti ho aiutato a sdraiarti. Eri incinta di mio figlio e mi sarei preso cura di tutti e due.

Eri in ansia per la prima ecografia. «E se ci fosse qualcosa che non va?».

«Perché dovrebbe esserci qualcosa che non va?».

Ho preso un giorno di ferie e siamo andati insieme in ospedale.

«È già capace di stringere le manine. Non è incredibile?» Lo avevi letto in uno dei tuoi libri sulla gravidanza. Eri ossessionata, compravi tutte le riviste e navigavi in internet in cerca di informazioni sul parto e l’allattamento. Riuscivi a portare ogni conversazione sulla scelta del nome o sulle cose da comprare.

«Già, incredibile». Me l’avevi già detto. La gravidanza non stava andando come avevo sperato. Lavoravi come prima. Lasciavi che ti portassi il té e che ti massaggiassi i piedi, ma non manifestavi gratitudine.

Dedicavi più attenzioni al bambino che a tuo marito. Eppure non era ancora nato, non sapeva nemmeno di esistere. Ti immaginavo già dedita a lui, incurante della mia presenza. Mi è tornata alla mente la tua ossessione per quel gattino.

 

Quando l’ecografista ti ha spalmato il gel sulla pancia mi hai afferrato la mano e l’hai stretta forte. Abbiamo sentito il suono ovattato di un battito e sullo schermo è apparso un minuscolo tremolio.

«Questa è la testa» ha detto l’ecografista «e dovreste riuscire a vedere anche le braccia… Eccolo, vi sta facendo ciao!».

Hai riso.

«Quindi è un maschio?» ho chiesto speranzoso.

«Ci vorrà ancora un po’ prima che si veda il sesso. Ma sembra che sia tutto a posto e la crescita è regolare». Ha stampato una foto e te l’ha data. «Congratulazioni».

Mezz’ora dopo avevamo appuntamento con l’ostetrica. Ci siamo seduti in sala d’aspetto insieme ad altre cinque o sei coppie. Di fronte a me c’era una donna con un ventre enorme, che la costringeva a stare seduta con le gambe divaricate. Ho distolto lo sguardo. Finalmente ci hanno chiamato.

L’ostetrica ha verificato i dati sulla tua cartellina azzurra e poi ti ha consegnato alcune schede informative sull’alimentazione e la salute in gravidanza.

«Sa già tutto» ho detto. «Ha letto qualsiasi libro sull’argomento».

L’ostetrica mi ha guardato contrariata. «E lei, signor Petersen? Anche lei sa tutto?».

«Io non ne ho bisogno. Non sono io che avrò il bambino».

Non ha replicato. «Devo controllarle la pressione, Jenna. Si tiri su la manica e appoggi il braccio sul tavolo, per favore».

Hai esitato. Non ho capito subito. Mi sono appoggiato allo schienale e ho assistito alla scena ostentando indifferenza, la mascella contratta.

Il livido che avevi sul braccio era diventato verde. Negli ultimi giorni aveva perso intensità, ma era ancora ben visibile. A volte pensavo che lo facessi di proposito, che li tenessi addosso il più a lungo possibile, per ricordarmi che cosa era successo, per farmi sentire in colpa.

L’ostetrica non ha detto nulla e io mi sono rilassato. Ti ha misurato la pressione, che era un po’ alta, e ha preso nota dei valori. Poi si è rivolta a me.

«Se vuole aspettare nell’altra stanza, ho bisogno di scambiare due parole con Jenna».

«Non è necessario, non abbiamo segreti».

«È la procedura» ha ribadito asciutta.

Allora mi sono alzato. «Bene». Sono uscito con calma e sono andato alla macchinetta del caffè, da dove potevo tenere d’occhio la porta dell’ambulatorio.

Ho guardato le altre coppie: non c’erano uomini soli, quel trattamento era stato riservato solo a me. Sono tornato a passo deciso verso lo studio e ho aperto la porta senza bussare. Avevi in mano un biglietto azzurro, con un simbolino nero. L’ hai fatto scivolare subito nella cartellina.

«Dobbiamo spostare la macchina. L’ora del parcheggio è scaduta».

«Oh, certo. Mi scusi» hai detto all’ostetrica, che ti ha sorriso senza degnarmi della minima attenzione. Ti ha posato una mano sul braccio.

«Ha il nostro numero. Per qualsiasi domanda, ci chiami».

Siamo tornati a casa in silenzio. Hai tenuto la foto in grembo per tutto il tempo e di tanto in tanto ti toccavi la pancia.

«Di cosa voleva parlarti l’ostetrica?» ti ho chiesto più tardi.

«Della mia anamnesi». La risposta è arrivata troppo in fretta, era studiata.

Sapevo che stavi mentendo. Più tardi quel giorno, mentre riposavi, ho frugato tra le tue carte in cerca del bigliettino azzurro, ma era sparito.

 

Ti guardavo cambiare, mentre la pancia cresceva. Pensavo che avresti avuto bisogno di me, sempre di più. E invece diventavi indipendente, forte. Quel bambino ci stava allontanando e non sapevo come riportarti da me.

 

Era estate e faceva caldo. Andavi in giro con il pancione scoperto e una gonna arrotolata sui fianchi. Non sopportavo di vedere quel ventre gonfio. A volte andavi persino ad aprire la porta conciata così. Non capivo perché lo esibissi in quel modo.

Mancavano ancora settimane al parto, ma hai smesso di lavorare. Allora ho licenziato la donna delle pulizie. Non aveva senso pagare lei, quando tu eri a casa tutto il giorno a far niente.

Un giorno quando sono rientrato ho trovato la casa pulita e in ordine, e tutti i miei vestiti stirati. Eri esausta, la tua dedizione mi ha commosso. Ho deciso di preparati un bagno caldo, per coccolarti un po’. Avremmo ordinato da mangiare al take-away o magari ti avrei cucinato qualcosa. Ho portato le camicie di sopra, e ho aperto l’acqua nella vasca.

Stavo appendendo le camicie nell’armadio quando ho notato qualcosa di strano.

«E questa cos’è?».

«È una bruciatura, scusami. È suonato il telefono e mi sono distratta. Ma è in basso e non si vedrà nulla quando infilerai la camicia nei pantaloni».

Non era importante. Si trattava solo di una camicia. L’ho posata e mi sono avvicinato per abbracciarti, ma tu hai fatto un passo indietro e ti sei protetta la pancia con le braccia. Hai scostato il viso e hai gridato. Io non avevo alcuna intenzione di colpirti.

Ma poi ho dovuto farlo. Ed è stata solo colpa tua.