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Siedo al tavolo in cucina davanti al computer acceso, le ginocchia contro il petto sotto il grande maglione a trecce che indossavo d’inverno nello studio in giardino. Sono vicino alla stufa ma tremo per il freddo e nascondo le mani dentro le maniche. Non è ancora ora di pranzo, ho davanti un bicchiere di vino rosso. Apro un motore di ricerca e digito rapidamente, poi mi fermo. L’ultima volta che mi sono torturata cercando notizie in rete è stato molti mesi fa. Servirà solo a farmi stare male, ma come potrei non pensare a lui proprio oggi?
Bevo un sorso di vino e avvio la ricerca.
Nel giro di pochi secondi lo schermo è invaso da notizie sull’incidente, forum di discussioni e condoglianze per Jacob. Il colore del link indica che ho già visitato quei siti in passato.
Esattamente un anno fa il mio mondo è crollato, e oggi c’è un nuovo articolo sull’edizione online del Bristol Post.
Soffoco un singhiozzo e stringo i pugni. L’articolo è breve e lo scorro d’un fiato. Poi lo rileggo da capo. Non ci sono nuovi sviluppi: nessuna pista, nessuna informazione sull’auto. Il giornalista ribadisce l’unica certezza: chi era al volante è ricercato dalla polizia con l’accusa di omicidio per guida pericolosa. Quel tecnicismo mi dà la nausea e chiudo internet, ma neppure la foto della baia sul desktop riesce a calmarmi. Non sono più andata in spiaggia dopo l’appuntamento con Patrick. Avrei del lavoro da fare, ma mi vergogno così tanto per come mi sono comportata che non sopporterei di incontrarlo. Quando mi sono svegliata, il giorno dopo il nostro appuntamento, mi sono sentita ridicola per aver avuto paura di lui e ho pensato di chiamarlo e di chiedergli scusa. Ma col passare delle ore la mia determinazione è poi svanita. E a distanza di quasi due settimane, lui non ha fatto nessun tentativo per avvicinarmi di nuovo. Sento un’altra ondata di nausea: verso il vino nel lavandino e decido di uscire con Beau per fare una passeggiata lungo la scogliera.
Camminiamo per miglia, doppiamo il promontorio e ci avviciniamo a Port Ellis. Sotto di noi c’è una costruzione bassa e grigia, immagino sia la stazione di salvataggio. La osservo per qualche minuto, immagino le vite risparmiate grazie ai volontari che lavorano lì. Non posso fare a meno di pensare a Patrick mentre percorro il sentiero che conduce a Port Ellis. Non ho un piano, semplicemente continuo a camminare verso il paese fino all’ambulatorio veterinario. Solo quando apro la porta e sento suonare la campanella dell’ingresso, mi chiedo che cosa gli dirò.
«Come posso aiutarla?». È la stessa receptionist dell’altra volta, ma non l’avrei mai riconosciuta senza la targhetta colorata sul suo camice.
«Potrei vedere Patrick un momento?». Penso che forse dovrei darle una spiegazione, lei però non mi chiede niente.
«Torno subito».
Resto in piedi, a disagio, nella sala d’aspetto, insieme a una donna con un bambino piccolo e un trasportino di vimini. Beau mi tira verso di lei, lo trascino più lontano.
Dopo qualche minuto si sentono dei passi e appare Patrick. Indossa un paio di pantaloni di velluto marrone a coste e una camicia a quadri; ha i capelli in disordine, come se li avesse appena riavviati.
«Beau non sta bene?». È cortese ma non sorride e il mio coraggio vacilla.
«No, vorrei parlarti. Solo per un momento».
Esita. Sono certa che mi dirà di no. Sento le guance in fiamme e lo sguardo della receptionist fisso su di noi.
«Entra».
Lo seguo nella stanza dove ha visitato Beau la prima volta e lui si appoggia al lavandino. Non dice niente: è evidente che non ha intenzione di rendermi le cose più facili.
«Volevo… volevo scusarmi». Sento bruciare le palpebre e mi impongo di non piangere.
«Sono stato scaricato altre volte, ma mai tanto in fretta». Ha una espressione meno severa, ora ,e provo a sorridergli.
«Mi dispiace così tanto».
«Ho fatto qualcosa di sbagliato? ».
«No. Per niente. Tu eri…». Cerco disperatamente la parola giusta ma non la trovo e rinuncio. «È colpa mia, non sono brava in queste cose».
Un momento di silenzio, poi Patrick sorride. «Forse dovresti esercitarti».
«Forse sì».
«Senti, ho un altro paio di pazienti da visitare e poi per oggi avrò finito. Che ne dici se ti invito a cena? Ho preparato uno stufato, ce n’è abbastanza per due. Credo che avanzerà anche una porzione per Beau».
Se dico di no, non lo rivedrò mai più.
«Mi farebbe piacere».
Patrick guarda l’orologio. «Finisco tra un’ora. Puoi aspettarmi?».
«Certo. Ne approfitto per fare qualche foto in paese».
«Bene, a tra poco, allora». Adesso sorride anche con gli occhi. Mi accompagna alla porta e incrocio lo sguardo della receptionist.
«Tutto risolto?».
Forse ha capito il motivo per cui volevo vedere Patrick, ma non m’importa. Sono fiera di me: avrei potuto fuggire e invece sono tornata sui miei passi. Stasera cenerò con un uomo che mi piace e non permetterò alle mie paure di rovinare tutto.
Continuo a guardare l’orologio, ma il tempo non passa più velocemente. Io e Beau continuiamo a girare per il paese, in attesa che sia ora di tornare all’ambulatorio. Preferisco non entrare dentro. Sono sollevata quando Patrick esce infilandosi la giacca cerata. Saluta Beau accarezzandolo dietro le orecchie, poi ci incamminiamo verso una casetta a schiera non lontano dall’ambulatorio. Patrick ci fa accomodare in soggiorno. Beau si sdraia subito davanti al caminetto.
«Un bicchiere di vino?».
«Sì, grazie». Mi siedo, ma sono troppo nervosa e mi rialzo quasi subito. La stanza è piccola e accogliente, con un tappeto che copre buona parte del pavimento. Ci sono due poltrone ai lati del camino e mi chiedo quale sia la sua preferita, ma nessun segno indica che una venga usata più dell’altra. La televisione sembra un elemento estraneo, messo lì per caso. Due grandi librerie arredano le nicchie nelle pareti accanto alle poltrone. Leggo i titoli sui dorsi.
«Ho troppi libri» dice Patrick tornando dalla cucina con due bicchieri di vino rosso. Ne prendo uno, contenta di avere le mani occupate. «Dovrei regalarne qualcuno, ma poi va a finire che li tengo sempre tutti».
«Adoro leggere, anche se da quando mi sono trasferita qui non ho mai preso un libro».
Patrick si siede su una poltrona. Io mi accomodo nell’altra, giocherellando con il bicchiere.
«Da quanto fai la fotografa?».
«Non sono una fotografa, in realtà» rispondo, sorpresa della mia sincerità. «Sono una scultrice». Penso al mio studio in giardino: i cocci di creta, le mie opere pronte per essere consegnate e finite in frantumi. «O meglio, lo ero».
«Perché lo eri?».
«Non posso più lavorare l’argilla». Esito un istante, poi apro la mano sinistra dove la cicatrice attraversa il palmo fino al polso. «Ho avuto un incidente. Ho recuperato l’uso della mano, ma ho perso la sensibilità ai polpastrelli».
«Mi dispiace. Com’è successo?» mi chiede scosso.
Mi tornano alla mente le immagini di quella notte, un anno fa, ma le ricaccio indietro. «Sembra più grave di quello che è in realtà» dico. «Avrei dovuto stare più attenta». Non riesco a guardare Patrick in faccia e lui cambia discorso.
«Hai fame?».
«Da morire». Il mio stomaco brontola, un profumino delizioso viene dalla cucina. Seguo Patrick in una stanza enorme, con una credenza di pino che occupa tutta la parete. «Era di mia nonna» dice, mentre spegne lo stufato. «L’hanno ereditata i miei genitori e, quando loro si sono trasferiti, l’ho presa io. È grande, vero? Dentro c’è di tutto. Ma meglio non aprire le ante, per nessuna ragione al mondo».
Patrick serve lo stufato nei piatti e poi pulisce uno schizzo di salsa con l’angolo di un canovaccio, lasciando una macchia ancora più grande sulla tovaglia.
Porta i piatti in tavola e li posa uno davanti all’altro. «È praticamente l’unica cosa che so cucinare» dice in tono di scusa. «Spero che sia buono». Ne versa un po’ in una ciotola di metallo e, in quel preciso istante, Beau entra in cucina mettendosi a cuccia, paziente.
«Ancora un attimo» dice Patrick. Prende una forchetta e gira la carne per farla raffreddare.
Chino la testa per nascondere un sorriso. Il modo in cui le persone trattano gli animali ti fa capire tante cose e, osservando Patrick, non posso fare a meno di provare tenerezza. «Ha un aspetto delizioso» dico.
«Grazie».
Non ricordo l’ultima volta che qualcuno si è preso cura di me. Ero sempre io a cucinare, riordinare, fare i mestieri. Tanti anni passati a cercare di costruire una famiglia felice per poi vedermela crollare addosso.
«È la ricetta di mia madre» dice Patrick. «Cerca di insegnarmene una nuova ogni volta che viene a trovarmi. Pensa che io viva di pizza e patatine quando lei non c’è, come fa mio padre».
Rido.
«Hanno festeggiato quarant’anni di matrimonio quest’autunno» dice. «Sembra impossibile, vero?».
Sì, infatti. «Sei mai stato sposato?» chiedo.
Patrick si rabbuia. «No. C’è stato un momento in cui pensavo di farlo, ma poi le cose sono andate diversamente».
Non aggiunge altro, e mi sembra di leggere sollievo sul suo viso quando capisce che non ho intenzione di indagare ancora.
«E tu?».
Faccio un respiro profondo. «Lo sono stata per un po’. Ma alla fine volevamo cose diverse». Sorrido di quell’eufemismo.
«Sei piuttosto isolata a Blaen Cedi» dice Patrick. «Non ti pesa?».
«Mi piace. È un bel posto, e ho Beau».
«Ma non ti senti sola, senza altre case intorno?».
Penso alle mie notti tormentate, quando mi sveglio gridando e non c’è nessuno che mi possa confortare. «Vedo Bethan quasi tutti i giorni» dico.
«È una buona amica. Ci conosciamo da tanti anni».
Sono curiosa. Patrick comincia a raccontarmi di quando presero la barca del padre senza permesso e uscirono al largo, nella baia.
«Ci scoprirono subito, vedevo mio padre sulla spiaggia, le braccia conserte e, accanto a lui, il padre di Bethan. Sapevamo di essere nei guai, perciò rimanemmo in mare.E loro restarono sulla spiaggia, per un tempo lunghissimo. Ci sembrarono ore».
«E poi che cosa successe?».
Patrick rise. «Ci arrendemmo, ovviamente. Tornammo a riva e affrontammo il nostro destino. Bethan era molto più grande di me e diedero la colpa a lei, ma mio padre mi mise in punizione per due settimane».
Sorrido mentre lui scuote il capo. Me lo immagino da ragazzo, i capelli ribelli come adesso, sempre pronto a fare bravate.
Il mio piatto vuoto viene rimpiazzato da una ciotola colma di mele cotte con granella di nocciole e crema. Il profumo della cannella calda mi fa venire l’acquolina. Raccolgo la granella con il cucchiaio e la mangio. Giocherello con il resto del cibo, non voglio sembrare scortese.
«Non ti piace?».
«Ha un bell’aspetto» dico. «È solo che non mangio dolci». È difficile trasgredire a una ferrea abitudine alimentare.
«Non sai che cosa ti perdi». Patrick finisce il suo dolce in pochi bocconi. «Non è opera mia: l’ha fatto una ragazza della clinica».
«Mi dispiace».
«Nessun problema, davvero. La farò raffreddare e poi Beau saprà come renderle onore».
Le orecchie di Beau scattano sull’attenti.
«È proprio un cane buono,» dice Patrick «e molto fortunato».
Annuisco, ma so che io ho bisogno di Beau almeno quanto lui di me. Sono io quella fortunata. Patrick appoggia il mento sul palmo di una mano, mentre con l’altra accarezza Beau. Sembra rilassato e soddisfatto: un uomo senza segreti né tormenti.
Mi sorprende mentre lo osservo. Imbarazzata, distolgo lo sguardo e noto un’altra libreria nell’angolo. «Ancora libri?».
«È più forte di me» risponde. «Sono quasi tutti di cucina. Me li ha regalati mia madre, ma in mezzo ci sono anche dei gialli. Leggo qualunque cosa abbia una trama decente».
Comincia a sparecchiare, mentre io resto a guardarlo appoggiata allo schienale.
Vuoi che ti racconti una storia, Patrick?
La storia di Jacob e dell’incidente; di come sono scappata perché potevo sopravvivere solo ricominciando tutto da capo; delle notti in cui mi sveglio gridando e capisco che non potrò mai dimenticare.
Devo raccontarti quella storia?
Lo immagino che mi ascolta, gli occhi sgranati mentre gli descrivo lo stridere dei freni, lo schianto, la testa di Jacob che sbatte contro il paraurti. Vorrei che mi tendesse la mano, ma non accade neppure nella mia fantasia. Vorrei che dicesse che mi capisce; che non è stata colpa mia; che sarebbe potuto succedere a chiunque. Ma lui scuote la testa, si alza dal tavolo, mi allontana. È disgustato. Indignato.
Non posso dirglielo.
«Tutto bene?». Patrick mi guarda in modo strano e, per un istante, ho l’impressione che possa leggermi nel pensiero.
«È stata una bella cena» dico. Ho solo due possibilità: o mi allontano da lui, oppure gli tengo nascosta la verità. Detesto l’idea di dovergli mentire, ma non posso lasciarlo andare. Guardo l’orologio a parete: «È meglio che vada» dico.
«Un’altra fuga alla Cenerentola?».
«Stavolta no» rispondo arrossendo. «L’ultimo autobus per Penfach è alle nove».
«Non hai la macchina?».
«Non mi piace guidare».
«Ti accompagno io. Ho bevuto pochissimo, non è un problema».
«Preferirei tornare da sola, davvero».
Si irrigidisce.
«Magari potremmo vederci alla spiaggia domani mattina?» propongo.
Lui si rilassa, e sorride. «Sarebbe fantastico. È stato bello rivederti. Sono contento che tu sia venuta a trovarmi».
«Anch’io».
Prende le mie cose e mi accompagna all’ingresso. Cerco di allacciarmi il giaccone. Lo spazio è appena sufficiente per muovere le braccia. Siamo vicinissimi e mi sento goffa. Litigo con la cerniera.
«Aspetta» dice. «Lascia fare a me».
Guardo le sue dita che si muovono agili. Aggancia il cursore e fa scorrere la cerniera. Sono paralizzata dalla tensione. Si ferma appena sotto il mento e mi avvolge la sciarpa attorno al collo. «Ecco. Mi chiami quando arrivi al cottage? Ti do il mio numero».
Non sono abituata a queste premure. «Lo farei volentieri, ma non ho il telefono».
«Non hai un cellulare?».
Mi viene quasi da ridere per il suo stupore. «No. Nel cottage c’è la linea telefonica, ma la uso solo per navigare. Sono abituata ad andare in giro da sola, non preoccuparti».
Patrick mi posa le mani sulle spalle e prima che io abbia il tempo di reagire si china in avanti e mi da un bacio lieve sulla guancia. Sento il suo respiro sul viso e vacillo.
«Grazie» dico. È una risposta del tutto inadeguata e anche poco originale, ma Patrick mi sorride, come se avessi detto qualcosa di profondo. Dev’essere facile stare con qualcuno che chiede così poco.
Aggancio il guinzaglio di Beau e ci avviamo. So che Patrick ci sta guardando e quando mi volto, alla fine della strada, è ancora sulla porta.